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mercoledì 13 gennaio 2016

Quo vado?

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Checco Zalone ha la faccia apparentemente anonima dell'italiano qualunque, la baldanza del Verdone anni '80 e uno humor straniato alla Buster Keaton, con una padronanza istintiva e prodigiosa dei tempi comici.  Un mix formidabile che ha fatto impazzire il pubblico italiano sin dalle prime apparizioni su Zelig.
Vedendo Quo vado?, si ha però l'impressione che il suo talento sia in un certo senso prigioniero di un successo spropositato. Il suo film parla di tante, troppe cose:  pigrizia da posto pubblico, mammismo, vizi della politica, arretratezza culturale italica, riforme e mobilità, mobbing, no Tav, immigrazione, iper-civilismo dei popoli del nord, fuga dei cervelli, malessere da poco sole, global warming, mafia, famiglia allargata, matrimoni gay, integrazione culturale tra paesi e religioni diverse, razzismo, ecologia, maschilismo, malinconia da italiano all'estero, e tanto tanto altro.  Una sorta di bignami su tutti i possibili argomenti di dibattito attuali (manca il terrorismo, forse solo perchè già trattato in Che bella giornata), necessariamente risolti con una battuta o gag corriva e spesso piuttosto banale. Il film stesso (meno di un'ora e mezza di durata così da massimizzare il numero di spettacoli per giornata) è concepito come una rapida sequenza di scenette comiche o presunte tali, senza un vero sviluppo narrativo o un'evoluzione dei caratteri come ancora avveniva in Cado dalle nubi (a oggi, il miglior film di Checco). Studiato a tavolino per assicurare una risata al minuto. Ma l'ansia di successo e la necessità di far contenti tutti gli spettatori obbliga Zalone e il regista Nunziante a smussare i toni più caustici ed evitare risate che non siano di presa poco meno che immediata.
Due sequenze sono tuttavia memorabili. La prima, è il dialogo su corruzione e concussione tra Zalone e il cacciatore che gli regala una quaglia per un suo timbro all'ufficio caccia e pesca, e si chiede spaventato se non stia commettendo una grave illegalità. Acuta e divertita rappresentazione della nuova isteria giustizialista, sorta di rigurgito al ventennio berlusconiano. La seconda, è quella già cult in cui Zalone intona con voce simil-Celentano La prima repubblica a mo' di nostalgico musicarello anni '60, e che mostra la volontà di cercare linguaggi anche nuovi per un'indagine antropologica sull'incapacità endemica del popolo italiano di crescere e guardare al futuro. Sequenze che dimostrano le straordinaria potenzialità di Zalone di graffiare raccontando il presente con sguardo assolutamente originale, e che sembra incredibile coesistano con gag da peggior cinepanettone come quella della pugnetta all'orso bianco, o con i soliti triti chichè sull'italiano all'estero.
Il finale del film ha il merito di essere positivo evitando la classica autoassoluzione da commedia all'italiana, ma non toglie l'impressione di aver assistito ad un'occasione sprecata. O meglio, soffocata da rigide leggi di marketing.
Negli anni 80, grandi comici come Troisi, Benigni e Verdone giravano pellicole imperfette ma originali e assolutamente personali, che hanno saputo crescere nel tempo e diventare cult anche per le successive generazioni. Nei loro film, al di là di qualche ingenuità e tempo morto, si respira una libertà creativa rigenerante che  purtroppo Zalone oggi non può oggi permettersi.
Un ultimo commento sulle sciocchezze che si leggono in giro riguardo la positività del fenomeno Zalone per l'industria cinematografica italiana, che sarebbe in grado di resuscitare dalla crisi. Quale sarebbe la presunta salute ritrovata di un sistema in cui il primo film incassa cinquanta milioni e il secondo ne fa sei? Zalone è piuttosto la cartina tornasole della debolezza del cinema italiano. In termini ingegneristici, il single point of failure della nostra industria cinematografica.


mercoledì 2 dicembre 2015

La laurea a 28 anni

Grande irritazione hanno destato la settimana scorsa le parole del ministro Poletti. Prendere una laurea a 28 anni non serve a nulla, anche se con il massimo dei voti, ci dice lui.  Per l'ex viceministro Michel Martone, invece, chi a 28 anni la laurea non ce l'ha, è semplicemente uno sfigato.  Un'età davvero infelice quella dei 28, insomma, almeno in Italia, il paese dove i giovani sono troppo choosy, per citare un altro fenomeno della politica recente.
Ma insomma, come si permettono questi politici?, si chiedono tutti. E' facile per loro parlare così,  hanno sempre avuto la strada spianata e non certo per merito! Non dovrebbero proprio parlare loro! E poveri giovani!
Ebbene, sarò impopolare, ma credo che tali politici tutto sommato abbiamo ragione. Certo, può infastidire che a disquisire sull'età della laurea sia un individuo che la laurea neanche ce l'ha. Ma quel che dicono, estrapolato da facili strumentalismi, riflette una realtà scomoda ma abbastanza nitida per chi sa mettere da parte la lente deformante del vittimismo.
Chi si offende per le esternazioni di Poletti, Martone e Fornero, è in un certo senso figlio della stessa mentalità che tali problemi li ha generati. La mentalità della laurea a tutti i costi, inculcata alla maggiorparte dei giovincelli italiani non certo per amore di cultura, ma per ricerca di (stupido) prestigio sociale. E per il miraggio di un buon lavoro, anche se ormai nessuno ci crede piu'. Il messaggio che arriva ai diciottenni da scuola e famiglia, è che se non hai la laurea sei un perdente, un individuo di serie B. Bisogna iscriversi a tutti i costi all'università e diventare Dottori. Anche se non si è affatto portati. E così le facoltà di medicina sono piene di studenti terrorizzati dalla vista di una goccia di sangue, e le facoltà di ingegneria di ragazzi che non hanno mai avuto le idee chiare sulle equazioni di primo grado.
Laurearsi a 28 anni, quando si e' matricole a 19, vuol dire essere stati fuori corso per almeno tre o quattro. Diciamolo senza giri di parole: se si resta fuori corso tutto quel tempo, vuol dire che non si è tagliati per quella laurea. Per mancanza di interesse o di attitudini specifiche. O forse non si è portati per lo studio in generale. E qui qualcuno dirà: e gli studenti lavoratori? E' ovvio che restano fuori corso, devono lavorare per mantenersi e studiare, è durissima! D'accordo, tanto di cappello ai veri studenti lavoratori (io non ero uno di loro e li ammiro molto), ma in quanti casi quello di dover "studiare e lavorare" è soprattutto un alibi per giustificare una troppo lunga permanenza universitaria? Ho conosciuto dozzine di ragazzi fuori corso che si vantavano di "studiare e lavorare" , ma il loro lavoro era magari fare servizio in un agriturismo un sabato sera al mese.  Gli studenti americani lavorano e studiano sul serio, quotidianamente, e riescono a finire gli studi nel tempo previsto, altrimenti sono espulsi o diventa semplicemente troppo costoso proseguire.
Personalmente sarei anch'io per un aumento significativo delle tasse per gli studenti fuori corso, almeno per quelli senza una valida motivazione per il loro ritardo. Ciò funzionerebbe come un disincentivo a iscriversi a certe facoltà per cui non si è tagliati. Si avrebbero meno laureati (tanto la domanda non è certo esorbitante, ma questo è un altro discorso...) però  più giovani e bravi, e si eviterebbe che trentacinquenni neolaureati rubino il posto a più capaci colleghi venticinquenni, solo perchè hanno lo stesso "pezzo di carta" e migliori conoscenze. Si restituirebbe valore a titoli inflazionati. Ma soprattutto, crollerebbe il mito dell'università come parcheggio per i nullafacenti; il prezzo del parchimetro è troppo  alto, accomodarsi fuori, grazie.
Il lamento generalizzato per le condizioni infelici su cui versano tantissimi giovani e' in molti casi una scappatoia per chi non ha mai mosso un dito in vita sua e si adagia comodamente nella parte della vittima di un sistema iniquo. Ignorando che tale iniquita' deriva proprio da atteggiamenti cosi'. Di chi si iscrive all'universita' per il "pezzo di carta" e ci resta dieci anni o piu', magari lamentandosi dei professori che "ce l'hanno con lui", e raggiunto finalmente il traguardo e scoprendosi disoccupato, si lamenta del sistema che ha contruibuito ad ingolfare.
L'università non è per tutti, insomma, bisogna meritarsela. E sudarsela. Uno studente di 28 anni, è uno studente vecchio che nella vita avrebbe dovuto fare altro.
Ciò non vuol dire che chi non è tagliato per l'università sia uno stupido o un individuo di intelligenza inferiore. Basti pensare ai tanti personaggi brillanti del nostro tempo sprovvisti di laurea (non mi riferisco certo al ministro Poletti). Semplicemente, ha una forma mentis differente. Personalmente, poi, credo sia più ammirevole un ragazzo che a diciannove anni decide di aprire una sua attività e portarla avanti con energia ed entusiasmo, di un altro che passa le giornate davanti ai libri imparandone a memoria il contenuto e dimenticandosene due minuti dopo l'esame.
Ogni giovane dovrebbe liberarsi della zavorra di una mentalità sbagliata prima di fare le scelte sul suo futuro, con la consapevolezza che non può permettersi il lusso di essere pigro. Se così sarà, non sarà mai uno sfigato.

venerdì 20 novembre 2015

La ragazza con il taccuino



La ragazza è seduta sulla panchina della fermata di fronte alla tua, con il taccuino nero e la penna in mano. Indossa una maglia bianca di cotone leggero dal collo ampio che le lascia scoperta la spallina del reggiseno, jeans chiari con leggere scuciture ad altezza delle ginocchia, un paio di converse slacciate. Ha un viso leggermente ovale, un naso sottile alla francese, occhi nocciola acquosi, labbra rosa carnose e mediterranee. I capelli castani lunghi vagamente mossi le ricano morbidi sulle spalle, ogni tanto li scompiglia un po' con la mano destra, o finge di punirli afferrandoli con il pugno stretto come volesse fermarli in una coda. E' dolce e ribelle. Ed è bella, di quella bellezza sincera che sfugge alle mode artefatte e sterili dei nostri tempi. Al suo fianco c'è un vecchio zainetto Invicta, giallo scolorito, fuori produzione da decenni, pieno di scritte a mano ormai cancellate. Forse appartiene al suo fratello maggiore, pensi tu, visto che lei non avrà più di venti, o venticinque anni.
Sono settimane che ti rechi a quella fermata, solo per osservarla.
Come ogni giorno, lei apre nervosa il suo taccuino e ne sfoglia le pagine con le dita lunghe e ossute, impreziosite da uno smalto blu notte sulle unghia. Conosci bene quel taccuino, è un Moleskine. Un taccuino storico. Un taccuino di classe. Usato da personaggi come Oscar Wilde, Ernest Hemingway o Bruce Chatwin per scrivere durante i loro viaggi e nelle soste ai caffè. La ragazza trova la pagina desiderata, muove con forza le dita sulla rilegatura per assicurarsi che rimanga aperta, e schiaccia con il pollice il pulsante della penna. Ti sembra quasi di sentirne il click.
Gli occhi. Sai che adesso i suoi occhi volteggeranno ansiosi per qualche secondo sugli alberi accanto alla panchina, sulle auto in corsa, sui piccioni a caccia di briciole sul marciapiede, prima di posarsi di nuovo lì, sulla pagina giallognola a righe strette. Inizia a buttar giù qualche parola, sembra convinta, sembra quasi che un flusso inarrestabile le scorra dall'avambraccio  alle dita, fino all'impugnatura della penna, a morso. Eppure si ferma presto. Tira su una gamba sulla panchina, la scucitura dei jeans si fa più ampia. Le vedi una bella porzione nuda del ginocchio, e hai un guizzo di desiderio. Si stringe nelle spalle, sembra aver freddo, ma si distende in un attimo, sospira.  Ricomincia a scrivere, si interrompe, strizza gli occhi, guarda davanti a sè. Pensi che forse ti ha visto, arrossisci timido, sei tentato di abbassare lo sguardo. Vedi i suoi occhi ricominciare la danza sul mondo che ha davanti, cerchi di seguirne la traiettoria, sta disegnando un otto tra il cielo, gli alberi e il marciapiede, o forse non è un otto, forse è il simbolo dell'infinito, come infinito è il fascino del suo sguardo vitale ed etereo, delle sue braccia sottili, di quelle labbra che non vorresti far altro che baciare per il resto dei tuoi giorni.
Pensi alla sua quotidianità fatta di lezioni universitarie, di ragazzi che non la meritano, che non la sanno ascoltare, che forse dovrebbero restare  solo amici, ma a quelli di restare solo amici proprio non va. Pensi alle sue amiche, forse finte amiche, gelose, banali, pettegole. Pensi alla sua solitudine, che è la solitudine delle persone speciali, il destino di chi è troppo prezioso per essere compreso dalla superficialità dei tanti. La vedi chiusa nella sua stanza, rannicchiata sotto l'abat-jour a leggere Proust o ad ascoltare Elliot Smith o a vedere film di Fritz Lang o Jean Vigo sul portatile. Con il taccuino alla sua destra, compagno fedele. Immagini le sue lacrime, a volte, e sei spinto dall'impulso di attraversare la strada ed abbracciarla.
Eccola che corruga le sopracciglia, e poi, a sorpresa, sorride, anche se per un prezioso istante soltanto. E' la prima volta che la vedi sorridere, ne sei ammaliato. Immediatamente il sorriso si trasforma in una smorfia ironica, si morde il labbro e torna a scrivere. Stavolta non si interrompe, scrive di getto, riempie la pagina in pochi secondi e passa alla successiva. A volte un'ombra sottile le oscura il volto e improvvisamente sembra più vecchia, con borse non più impercettibili agli occhi. E' allo stesso tempo adulta e bambina, ha la fragilità della fanciulla e la tenacia di una donna. E' al di là della storia, eterna, è antica e casual,  è matrona ottocentesca e ragazza del suo tempo.
E' una scrittrice, ne sei certo. Forse una poetessa. Al di là del suo sguardo inquieto ci sono luoghi che noi, assuefatti ai detriti del mondo che ci resta, non saremo mai in grado di scorgere. Lei li vede, invece, vede i luoghi dove danzano le anime, liberate dalle incombenze della vita, che giocano e si fondono e si accendono come fuochi fatui, e come loro svaniscono. Lì dove noi vediamo panchine, automobili, piccioni e marciapiedi, lei vede forse luoghi di luce e di penombra, di colori tenui, voci sussurrate some sospiri, baci bagnati e svaniti, solletico e carezze.  Forse parla anche di sè, persa in quel mondo seducente e lontano.
Chissà cosa daresti per leggere quello che sta scrivendo. Non accontentarti delle vibrazioni che sembrano scaturire dal suo collo, dai suoi capelli, dai suoi occhi insolenti e vispi, ma gettarti nell'oceano delle sue parole, affogare e rinascerne inebriato.

E un giorno, finalmente, qualcosa succede. L'autobus arriva puntuale, la ragazza afferra il vecchio zaino e sale. L'autobus si allontana rapido e la panchina di fronte rimane vuota. O non proprio vuota. Il Moleskine! La ragazza ha dimenticato il suo taccuino. Il cuore inizia a batterti forte come quella volta che lei ti aveva rivolto lo sguardo e forse anche l'abbozzo di un sorriso. Sei nervoso, ma sai cosa fare. Ti alzi, ti avvicini alla panchina di fronte, afferri il Moleskine e ti allontani. Glielo restituirai domani.
Arrivato a casa, sai bene che non dovresti sbirciare. Non sta bene, non sono affari tuoi. Sai altrettanto bene che ciò è impossibile, che non ce la farai mai. Tiri un respiro profondo. Per un attimo ti sembra di sentire il suo profumo, quel profumo che finora hai solo immaginato e domani avrai la possibilità di sentire davvero. Hai l'ansia di un nuotatore principiante che sta per tuffarsi nell'oceano. L'oceano delle parole della ragazza della fermata di fronte. La ragazza che da settimane riempie i tuoi pensieri. Il tesoro più affascinante, la creatura più seducente che tu abbia mai avuto la fortuna di incontrare.
Sposti l'elastico del taccuino, e lo apri in una pagina centrale. Metti subito a fuoco una scrittura incerta e tremolante, decisamente infantile. E capisci subito che l'oceano, l'oceano delle parole della ragazza della fermata, è piuttosto un fiumiciattolo. O un rigagnolo di fogna. Con tanto di olezzo.
Puttana la troia de la...
Ecco l'incipit della pagina. Sfogli incredulo l'intero taccuino. E' pieno di bestemmie. Tante bestemmie. Solo bestemmie. Su Gesù, Giuseppe, Maria e un gran nugolo di santi. Piuttosto ripetitive a dire il vero, neanche blasfemamente creative. E con tanti errori di grammatica. Lo chiudi, ti allontani, pensi che si tratti di un incubo e vuoi svegliarti. Il classico pizzicotto non funziona, riapri il taccuino, le bestemmie sono ancora lì. Fastidiose come le zanzare nelle serate estive. Ridi, piangi, ti senti uno scemo.

Non sei più teso il giorno dopo, quando la vedi di nuovo alla fermata e le porgi sicuro il Moleskine.
Hai dimenticato questo ieri, le dici.
Lei fa una smorfia, una smorfia diversa da quella che hai visto il giorno prima. O forse, chissà, esattamente la stessa. Una smorfia puerile ed esagerata, come quella di una bimba a cui regalano la Barbie sbagliata.
Perché cazzo me l'hai riportato, l'ho lasciato apposta, dice.
E' la prima volta che senti la sua voce, una voce nasale e cantilenante, con le vocali esageratamente aperte nella cadenza del centro sud.
Devo ammettere che ho sbirciato dentro, dici tu.
Lei alza le spalle.
Cazzo me ne frega a me..., dice.
Volevo solo chiederti perchè hai riempito quel taccuino di bestemmie, dici tu.
Lei ripete la smorfia, e sbuffa anche.
E' che sto incazzata perchè uno stronzo mi ha fatto incazzare... ma tu perchè non ti fai cazzi tuoi? dice lei.
Arriva l'autobus, lei scatta via e sale. Ti lascia lì solo con il taccuino in mano. Dopo pochi secondi lo getti nel cestino della spazzatura.
Mentre osservi l'autobus allontanarsi, hai ancora in testa la frase della ragazza della fermata.
E' che sto incazzata perchè uno stronzo mi ha fatto incazzare...
Spiegazione tautologicamente impeccabile. Decisamente esaustiva.
Pensi di nuovo alle settimane trascorse a fantasticare su di lei. E pensi a come sia banale la realtà che a volte ci ostiniamo a voler impreziosire. Ma che spesso, o sempre, non se lo merita.


venerdì 13 novembre 2015

Una riflessione su Star Wars

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Il fenomeno Star Wars è per me da sempre un enorme mistero.
Da bambino adoravo (e adoro tutt'ora) i classici coevi, la saga di Indiana Jones, Ritorno al futuro, o film come E.T. l'extraterrestre, I Goonies, Gremlins. Ma Star Wars (o Guerre Stellari, come si chiamava un tempo...) no, proprio no. In un passato più recente mi è capitato di rivedere i film della vecchia trilogia (quelli della nuova non li ho mai visti tutti, e per me sono anche peggio), e la mia opinione non è affatto cambiata. Anzi, almeno da bambino mi incuriosiva un po' il look di certi mostriciattoli, Jabba the Hutt in primis. Adesso non c'è proprio nulla che possa farmi evitare un sicuro sbadiglio.
La saga di Star Wars è piatta e banale.  Tutti i personaggi sono figurine bidimensionali tratteggiati senza la minima ironia, quell'ironia che invece è il punto di forza dei film sopra citati. Impossibile provare alcuna empatia per Luke Skywalker o la principessa Leia, e il cattivo Darth Vader non inquieta neanche un po'. Piuttosto, è involontariamente comico. Non c'è respiro nel racconto, e il pathos è assente. La regia di George Lucas (e degli "allievi" che hanno firmato la vecchia trilogia) è da telefilm ad alto costo, senza un'inquadratura seducente che sia una, e soprattutto con quelle orribili dissolvenze a tendina tra una location e l'altra. Il crescendo narrativo è farraginoso, pieno di dialoghi verbosi e inutili. Le disquisizioni junghiane sulla "forza" fanno pena. Le scene d'azione sono interminabili, strapiene di raggi laser, luci lucette ed esplosioni, puntano a stupire ma non hanno un briciolo di suspence. L'unica cosa che forse funziona in Star Wars, è l'alchimia tra l'azione nello spazio e la colonna sonora di John Williams.
Basta questo a giustificare il più grande culto cinematografico planetario della Storia? O forse ho visto una saga diversa da quella degli aficionados?
E' curioso il paragone con la pur diversissima saga di Indiana Jones, perchè anch'essa partorita dalla mente di George Lucas, che però - Deo gratias! - ne ha affidato la regia a Steven Spielberg. E perchè l'interprete Harrison Ford è anche un personaggio chiave di Star Wars, il mercenario Han Solo, anche lui ennesima figurina 2D di quello show raffazzonato e soporifero. Con Indiana Jones, Spielberg e Ford hanno invece creato un personaggio vero, affascinante, tratteggiato in maniera unica. Indiana Jones è allo stesso tempo un intellettuale e un uomo d'azione, uno sciupafemmine e un imbranato. Ha un intuito formidabile ma fa anche cazzate allucinanti, anche se poi riesce sempre a cavarsela. I film di Indiana Jones sono allo stesso tempo avventura, fantasy, azione e commedia con un equilibrio prodigioso. Ci si immedesima in lui, lo si invidia un po', si sognano le stesse avventure (e le stesse donne, alcune di loro almeno). Ogni sequenza d'azione nella saga di Indiana Jones è adrenalinica e al cardiopalma. E nulla è invecchiato dopo trent'anni.
Star Wars è nato vecchio, invece, perso nella sua galassia lontana lontana con la solita scontata lotta tra Bene e Male, i suoi inutili mostri, robottini e cavalieri jedi. Non capisco proprio come ci si faccia ad appassionare a queste fanfaronate spaziali, come si raggiunga un minimo di immedesimazione con le vicende.
E' da oltre un anno che la Disney (che ha acquisito la Lucas Film) centellina con sapienza informazioni e dettagli sul nuovo attesissimo episodio della saga, con aspettative d'incassi -quelle sì- davvero stellari. E a poco più di un mese dall'uscita siamo praticamente bombardati ogni giorno da nuovi trailer, spot e featurette varie.
Il 16 dicembre prossimo, i nerd di tutto il mondo avranno quindi il loro dirompente orgasmo prenatalizio. O forse sarà piuttosto un coito interrotto. Perchè quando le aspettative sono spasmodiche, il rischio delusione è altissimo. Per quanto mi riguarda, apprezzo J. J. Abrams, il regista che ha preso le redini di questo colossale progetto. E andrò anch'io a vedere Star Wars - The force awakens, ma con una prospettiva diametralmente opposta. Nessun mito di cui essere all'altezza. Piuttosto, la speranza di un buon film che faccia dimenticare le ciofeche del passato.

martedì 3 novembre 2015

Ritorno al futuro, oggi


Impossibile, almeno per chi è nato negli anni '80, non adorare la saga di Ritorno al futuro. Il fascino innato dei paradossi temporali, l'alchimia della strana coppia Marty Mc Fly e "Doc" Emmeth Brown, la mitica DeLorean, la colonna sonora di Alan Silvestri, le continue sorprese, i tormentoni cult, e soprattutto quell'atmosfera inimitabile, allo stesso tempo smaliziata e naif, tipica del cinema di Zemeckis. 
Qualche giorno fa -il 21 ottobre per l'esattezza- si è celebrato in tutto il mondo il Back to the future day; è finalmente arrivato  il giorno in cui Marty e Doc arrivano nel futuro nel secondo episodio della saga. E si è discusso molto nei media e nei social network sulle somiglianze tra il futuro ipotizzato da Zemeckis trent'anni fa, e quello reale. Alcune ipotesi azzeccate (il cinema 3D), altre quasi  (le scarpe con chiusura automatica, l'hoverboard, skate volante), altre ancora assolutamente fuori target (le auto volanti, che forse non ci saranno neanche nel 2045).
Ci sembra interessante, piuttosto, soffermarci su come sia cambiato il cinema mainstream americano dal 1985 a oggi. Quello di Ritorno al futuro era un cinema dove la storia e l'intreccio stupivano assai più degli effetti visivi. Era un cinema dal ritmo perfetto, fatto di sceneggiature che rasentano la perfezione assoluta, senza una scena inutile. Era un cinema capace di creare personaggi indimenticabili: Micheal J. Fox è rimasto nel cuore di tanti ex bambini e adolescenti perchè era in grado di rappresentare con ironia le debolezze e la spavalderia di ogni sedicenne, mentre Christopher Lloyd  è l'eccentrico pazzoide che tutti avremmo voluto come amico.
Cosa sarebbe stata, la saga di Ritorno al futuro, se non fosse esistita trent'anni fa ma fosse girata oggi? Pensiamoci un po'.
Ogni episodio durerebbe almeno tre ore. Sarebbe appesantito da una caterva di spiegazioni pseudo-scientifiche sul fenomeno del viaggio nel tempo (anche se comunque a stringere non sarebbero state meno cazzata della macchina alimentata a plutonio e flusso canalizzatore...). Marty Mc Fly sarebbe un insopportabile teen star à la Zac Efron con acconciatura perfetta e zero-ironia, Doc un professore saccente e  borioso. Tutto sarebbe inutilmente enorme e stracarico di azione ed effetti visivi, ci sarebbero gigantesche esplosioni, inseguimenti forsennati e interminabili nello spazio-tempo, una serie spossante di finali a catena. Tutto secondo la logica dell'accumulo piuttosto che della schiettezza del racconto. Sicuramente in 3D, a saziare il pubblico playstationizzato che forse ha dimenticato cosa sia un film vero.
Eppure, il fulmine sul campanile di Hill Valley e la striscia di fuoco lasciata sull'asfalto dalla DeLorean sorprendono e restano nella memoria assai più di qualsiasi scontro catastrofico tra supereroi di un odierno blockbuster.
Ed è per questo che a distanza di trent'anni celebriamo ancora Ritorno al futuro. Mentre Avatar, Twilight, Iron Man e compagnia bella ce li siamo già dimenticati.


giovedì 8 ottobre 2015

Riflessione generale sul Movimento Cinque Stelle

La politica per slogan e il gioco al ribasso. Ecco le armi di distrazione di massa del Movimento Cinque stelle. Noi ci tagliamo gli stipendi e finanziamo la piccola e media impresa, i politici di professione pensano solo alla poltrona, la politica regala miliardi alle banche e poi dicono che non ci sono i soldi per il reddito di cittadinanza, eccetera eccetera.
Li criticano per il comportamento poco ortodosso in parlamento, per le fandonie del loro leader, per la logica autoritaria delle espulsioni? Però il PD fa e dice peggio, dicono loro.
Fanno tutti schifo, non possiamo fare peggio, insomma.
Tutto ciò funziona e accresce i consensi, nell'epoca dell'imbecillimento di massa, e Casaleggio e Grillo lo sanno bene.
Altro che "movimento dal basso", non siamo in Spagna, il Movimento Cinque Stelle è lontano anni luce da Podemos. Il Movimento Cinque Stelle nasce dal preciso disegno imprenditoriale di un manager milionario che sa come sfruttare il malcontento generale e le favole moderne.
La favola della rete, in particolare, che illude ogni imbecille di poter aver voce ed essere ascoltato, di incidere nella realtà di oggi. Peccato che la sua voce cristallina e preziosa finisca poi nel gorgo annichilente dei server privati della Casaleggio Associati, probabilmente il luogo più misterioso dell'intero universo insieme alla galassia ellittica del Centauro. E che sia la Casaleggio Associati a decidere quali voci vadano amplificate e quali relegate all'oblio più profondo.
Il Movimento Cinque Stelle è piuttosto l'ultima frontiera dei reality show. Dove non si vince una carriera nella tv o nel cinema, ma potenzialmente il governo di un paese. Una banda di perfetti sconosciuti senza merito alcuno opportunamente selezionati per entrare nei salotti della politica; il pubblico segue le loro gesta, si appassiona al più bello o al più grezzo e lo vota come premier (anche se poi  in realtà alla fine decide tutto il gran capoccia Gianroberto).
La favola, ancora, che persone comuni possano dal nulla aspirare ai vertici della politica nazionale. Nessuno che si chieda, però, se tali persone comuni abbiano anche qualche neurone in testa. Ma conta davvero, poi, avere talento ed esperienza?  No di certo, vale la convinzione candida che basti essere onesto per amministrare un paese complesso come l'Italia. D'altronde, si sa che il Candido di Voltaire avrebbe governato la Francia meglio di Luigi XIV. E che Forrest Gump avrebbe fatto le scarpe a Nixon, Clinton, e Obama messi insieme.
Basta saper recitare slogan, cercare l'applauso facile. Come fa Luigi Di Maio, un fenomeno del reality M5S, nonchè quasi sicuramente prossimo candidato premier. D'accordo, Di Maio è giovane, telegenico, bravo nel contraddittorio televisivo e nel ripetere efficacemente la lezioncina di Grillo e Casaleggio. Ma cosa ha fatto quest'uomo nella vita? Ben poco, a dire vero, basta dare un'occhiata a Wikipedia. Dopo il diploma si è iscritto a ingegneria, poi ha mollato e si è iscritto a giurisprudenza, dove attualmente è studente fuori corso da diversi anni. Qualche lavoro saltuario come webmaster. Fine. E questa persona avrebbe l'esperienza necessaria per governare uno dei paesi più importanti del mondo?
Analogo discorso si potrebbe fare per Alessandro Di Battista (che se la fa sotto all'idea di candidarsi sindaco a Roma), Roberta Lombardo, Paola Taverna, Carlo Sibilia e tanti altri. Personaggi venuti dal nulla e senza alcun talento se non una certa efficacia da televendita.
Forse ci vorranno anni per capire se questa specie di minchioneria 2.0 sia una sorta di temporaneo rigurgito isterico al ventennio berlusconiano, o se sia un fenomeno più complesso e radicale, legato all'impoverimento culturale, alla finta democratizzazione dei nuovi media, al disorientamento da sovrainformazione. Forse è tempo di spegnere l'iPad. E rileggere Orwell.

lunedì 13 ottobre 2014

Abolite il divorzio in Danimarca

Sul serio, fatelo. Assolutamente proibito, ad esclusione di casi eccezionali come marito serial killer o cannibale. Hai sposato uno/a stronzo/a? Cazzi tuoi, povera/o scema/o. Dovevi pensarci prima, o prendere più tempo. Adesso è tardi e ti tieni lo/a stronzo/a. E' ora di finirla con questo scempio di bambini scarrozzati tra una mamma e un papà che neanche si conoscono, con lei che non si era accorta che l'uomo conosciuto due giorni prima e che l'ha ingravidata spensieratamente era un demente alcolizzato e nullafacente, e con lui che esplode con un For helvede! quando scopre dell'imminente paternità, ma affoga in una serata alla street la sua blanda confusione esistenziale. Basta con i chissenefrega dei bambini, li scarrozzi nel tempo libero e poi li piazzi nei kindergarten dove insegnanti arpie smaniano di inculcalrgli la Janteloven. Basta con i nuovi fidanzati delle madri, con i nuovi far og mor , i figli dei nuovi fidanzati, la pedagogia dell'integrazione e le forzature delle famiglie allargate. Basta con i nonni neanche cinquantenni, menefreghisti e in piena sindrome signorina Silvani, ovviamente divorziati e risposati e ri-divorziati, che partono per la Grecia o la Spagna o i Caraibi e non vogliono nipotini moccolosi tra le palle.
La trentenne media danese è divorziata e dimostra quarantacinque anni, ha due tre quattro bambini a carico (il maggiore ormai alle soglie dell'adolescenza), è sola e delusa dalla vita. Le poche trentenni senza figli, vivono con un enorme cane dentro casa, un labrador o un alano. La trentenne media danese è tozza e sgraziata, malgrado i residui di lineamenti delicati del bel tempo che fu, e si esprime con gorgheggi gutturali (ah no, parla solo la sua lingua...). Sta cercando se stessa, trascorre la giornata postando una caterva di troiate esistenziali su facebook, va in palestra e corre e pedala sotto la pioggia e il vento e la neve. Quando non ci sono i bambini a casa, passa le serate spaparanzata sul sofa Ikea del suo appartamento dal pavimento in legno e il cesso di un metro quadrato, e sgranocchia le Pringles mentre le scende una lacrimuccia davanti ad un film con Julia Roberts. Si crede unica e interessante, ma ha un immaginario (e un senso dell'umorismo) plasmato sul peggio della merda americana odierna, dai serial come How I met your mother e Friends ai programmi di diete 21 day fit e i romanzetti di Cento sfumature di grigio/nero/rosso. Crede di avere personalità, ma copia gli altri e neanche se ne accorge. Ha i soliti orari di lavoro comodi, non fa una mazza ma si dice stressata, fa la spesa al Netto e acquista borse e vestiti al Salling il sabato mattina. Organizza patetiche serate tøsehygge a casa sua,  quelle seratine tutte appletini e caramelle Haribo e jellyshots e Smirnoff con amiche sciantose infagottate in orrendi abiti interi giallo limone o nero morte e calze rosa shocking, che emulano trasgressioni da dodicenni e poi tornano a casa e si sentono sole e piangono.
Per piacere, non divorziate, se questa è l'alternativa. Abolite il divorzio. Così ci pensate un po' prima di sposarvi. Ma se ci capitate, meglio un pessimo consorte che un tale strazio. Fatevi l'amante, se necessario, costruite una sana ipocrisia familiare. Ma pensate ai vostri figli, stategli vicino, non incasinategli la vita. Non pensate ai cavoli vostri, al tempo per voi. Non cercate voi stessi, non c'è un cazzo da trovare.  Davvero, in sincerità, non siete interessanti at all, avete la banalità tatuata nell'anima, fatevene una ragione. Prendetevi cura di vostro figlio, non ritenete che sia compito dello Stato, risparmiategli quel lavaggio del cervello. Evitate che diventi il solito cerebroleso che va in bicicletta durante una tempesta di neve, o che pensa di vivere nel paese più felice del mondo. Siate il suo maestro, ma non mentite, siate voi stessi, nel bene o nel male. Forse vi amerà, forse vi odierà. Forse crescerà bene, forse male. Forse un giorno manderà a puttane il sistema. Ma sarà vivo.


sabato 19 luglio 2014

Vola vola Topolino - Riscrivere una storiella inventata da bambino

"Tutti i grandi sono stati bambini una volta, ma pochi di essi se ne ricordano" (Antoine De Saint-Exupery)

Qualche mese fa, scartabellando tra vecchi quaderni nella casa dei miei genitori, è saltata fuori una storiella che avevo scritto all'età di cinque anni. Stampatello, calligrafia da bimbo, e un "Bravissimo +" della maestra (forse). Colpito dal curioso ritrovamento, ho scattato una foto. Voilà, ecco qui il testo originale.



Trascrivo fedelmente in basso il testo della storiella.
  
VOLA VOLA TOPOLINO
Un giorno Topolino si comprò un aereo. Volava in basso. Ma quanto è basso! La mattina dopo l'aereo non c'era più. Guardò nei libri e lo trovò. C'era scritto che era un ladro di aerei. Appena si fece notte Topolino andò nella casa del ladro. Appena stava per uscire, Topolino si avvicinò. Dove hai nascosto il mio aereo? Non te lo do'. Dimmelo, altrimenti ti rompo la testa. Vediamo. Vuoi vedere che te la rompo? Vuoi vedere che non me la rompi. Oh, no. Hai visto che non me la rompi. Riproviamo. Bum. E Topolino ritrovò l'aereo e volò felice e contento.
FINE

Ieri avevo un bel po' di tempo libero, e per combattere la noia sfogliavo le foto nella memoria del mio smartphone. La storiella è venuta fuori di nuovo. L'ho riletta, e ho avuto un'idea. Perchè non riscriverla? Una versione aggiornata, diciamo. Beh, l'ho fatto. In basso potete leggere la versione 2014 della mia storiella infantile.

VOLA VOLA TOPOLINO
In fondo Topolino lo sapeva che qualcosa sarebbe andato storto. Ogni suo timido tentativo di rivalsa si era sempre rivelato un clamoroso flop. Perchè quella volta le cose sarebbero dovute andare in modo diverso?  Quando aveva investito tutta l'eredità di famiglia nel brevetto di volo e soprattutto nell'acquisto del suo Piper J-3, monomotore ad ala alta, aveva pensato che quella sarebbe stata finalmente l'occasione di riscatto dai tanti suprisi subiti. Tutti quelli che lo ritevano un disadattato, un idiota, un povero sciocco da deridere e basta, si sarebbero ricreduti. Ahimè, si sbagliava.
Era bastata la prima sessione di volo con il suo lucidissimo aereoplano color giallo purè per capire che qualcosa non andava. L'altimetro faceva le bizze, il ronzio sordo del motore aveva delle pause improvvise che gli gelavano il sangue facendogli pensare il peggio, la barra di comando non sembrava tarata con l' angolo di inclinazione degli alettoni, causando sbandamenti preoccupanti. L'areo volava basso, ogni tentativo di raggiungere quote decenti  si traduceva in un'anarchia degli strumenti di rilevazione e in vibrazioni di un'intensità insostenibile. Topolino aveva sognato di volare al di sopra delle nuvole, di guardare il mondo dall'alto e riderci su, schernendo le miserie della sua vita di ogni giorno. Ed era stato tradito dalle sue ambizioni.
Un giorno il suo Piper sparì dalla corsia cinquantasette del piccolo aeroporto civile in cui era parcheggiato. In preda al panico, Topolino cominciò a guardarsi intorno, ma quelli che vedeva nelle piste adiacenti erano aerei ben diversi dal suo. Avrebbe voluto rivolgersi a qualcuno ma l'aeroporto sembrava deserto. Digitò sul cellulare il numero della polizia, ma notò qualcosa all'interno della cabina di controllo che lo spinse a metter giù la chiamata. Il registro dei voli. Era aperto. Stranamente aperto. Si recò nella cabina e vide che la sigla dell'ultimo aereo registrato per una sessione di volo era la sua. La firma al fianco, invece, no. Ma conosceva bene quella firma. La rabbia gli salì dallo stomaco alle tempie fino a farlo quasi sbandare.
Sapeva dove recarsi, lo sapeva bene. Percorse dunque a passo rapido i trecento metri che lo separavano dalla casa del controllore di volo. E lo vide, il ladro di aerei, seduto su una sedia di vimini con una lattina di birra in mano. Dal cappello a tesa larga che portava in testa spuntavano ciuffi ribelli su una fronte alta e grinzosa, con sopracciglia folte e occhi neri grandi e sornioni. Continuava a sorseggiare la sua birra sputando a volte a terra. Quando si accorse di Topolino, sorrise con fare strafottente, e tirò su il cappello per un istante per salutarlo con grottesca riverenza.  Perchè hai preso il mio aereo, chiese Topolino. Il ladro scrollò le spalle con sufficienza. Avevi lasciato la chiave dell'abitacolo, e avevo voglia di fare un giro.
In quella risposta, e nella risata che seguì,  Topolino lesse un micidiale concentrato di decenni di insulti, soprusi e inganni. Rivide gli sghignazzi dei compagni di scuola, e rivisse i momenti terribili in cui il nome con cui tutti ora lo conoscevano - Topolino- gli era stato affibbiato. Colpa delle orecchie a sventola, della vocetta stridula e della statura minuta. Una vita con quel soprannome grottesco. Un uomo additato da tutti come un topo.
Topolino aveva con sè una chiave inglese e la strinse forte con le dita fino a farsi male. Respirò a fondo. Dove lo hai nascosto, chiese.   Il ladro bevve un altro sorso di birra e sputò di nuovo a terra. Poi con un gesto teatrale tirò su la manica del suo camicione di flanella e diede un'occhiata al suo orologio da polso. Se torni domani a quest'ora, forse te lo dico. Topolino sollevò la chiave inglese e il ladro scoppiò in una risata esagerata. Cosa diavolo vuoi farci con quella, esclamò.
Ma forse aveva sottovalutato la rabbia di Topolino. Dopotutto, aveva a pochi metri da lui la vittima di un furto. E la stava schernendo. La chiave inglese lo colpì sulla fronte facendolo stramazzare a terra. Quando rinsavì da quella fitta di dolore, vide il viso piccolo e feroce di Topolino a pochi centimetri da lui, e il desiderio di continuare a schernirlo fu più forte del timore di una sua reazione. Guarda che non mi hai fatto niente, esclamò con una risata impudente.
Il colpo successivo fu più forte, si sentì come travolto da un treno frecciarossa mentre la testa gli girava di quasi centottanta gradi al punto di rischiare di spezzare la spina dorsale. Sentì  il sapore ferroso nel sangue in bocca, e il dolore acuto dei nervi del collo che cercavano a fatica di ristabilire una posizione di riposo. Sebbene la sua reazione immediata sarebbe stata quella di rimettersi in piedi e torcere il collo di quel dannato nanerottolo, il ladro sapeva che le sue gambe tremolanti non sarebbero state in grado di assecondarlo. E il terrore che quella chiave inglese potesse avventarsi nuovamente su di lui lo spinse a sussurrare un pista ventisette con rancorosa mestizia.
Da quel giorno Topolino tornò a volare con una consapevolezza diversa. Quella di non essere più una vittima del mondo che avrebbe voluto osservare dall'alto. Perché aveva finalmente imparato a guardare le persone in faccia. E a reagire. Volare a bassa quota non lo irritava più.  Spingeva su al massimo la barra di comando, e quando le vibrazioni salivano doveva posizionarla giù, restando a bassa quota. E allora rivolgeva il suo sguardo oltre il cupolino di vetro, e ammirava le nuvole e gli squarci di cielo terso che lui, così come i suoi nemici del mondo grottesco che lo aspetta poco in basso, non sarà mai in grado di raggiungere. Con serenità e malinconia. 
FINE

Tutto qui. Non è granchè, ma mi sono divertito a riscriverla. E vorrei ringraziare quel bambino che oltre un quarto di secolo fa mi ha dato oggi l'ispirazione per farlo.  


sabato 5 luglio 2014

I tronisti 2.0 del Movimento 5 Stelle


Negli ultimi anni una strana metamorfosi ha colpito i tronisti degli show di Maria De Filippi. Per intenderci, quei mascelloni tutti pettorali e bicipiti che riempivano i palinsesti Mediaset del primo pomeriggio, corteggiati secondo stilemi medievali da un esercito di sciacquette in cerca di popolarità.
La metamorfosi si è espressa con l'asciugamento di gran parte della massa muscolare, l'ingentilimento dei tratti somatici, il sensibile miglioramento della dizione, e soprattuto, l'inculcamento di massicce dosi di nozionismo politico. Ed eccoli lì, i tronisti 2.0. La matrona Maria De Filippi rimpiazzata dall'invisibile capocomico Gianroberto Casaleggio. Amministratore delegato della Caseggio Associati. L'unica azienda di marketing al mondo con una sua lobby -il Movimento 5 Stelle- in un parlamento nazionale.
Inizialmente costretti a rimanere nell'ombra, dopo il cambio di strategia della Casaleggio Associati si son trasformati in belve a briglia sciolta, affamati di riflettori e celebrità. Strepitosi venditori del loro prodotto politico. Ce ne sarebbero da citare tanti, ma in questo post ci limitiamo a tre figure tra le più popolari ed efficaci: Alessandro Di Battista, Andrea Scanzi, Luigi Di Maio. Belli, intelligenti (?), intellettualmente puri (???). Tre asset fondamentali per il partito azienda di Gianroberto Casaleggio. Esaminiamoli uno ad uno.

Alessandro Di Battista
Trentasei anni, dal 2013 vicepresidente della commissione Affari Esteri della Camera. Non si capisce bene cosa abbia fatto nella vita prima del suo exploit politico. Il suo curriculum vanta generiche collaborazioni con organizzazioni no profit e progetti educativi e produttivi in Congo e Guatemala. Per carità, ammirevole. Ma qualche dettaglio in più, no? Anche se davanti alle telecamere inumidisce gli occhi con consumata abilità quando afferma che "la cosa che gli piace di più al mondo è scrivere", ha all'attivo soltanto qualche post sul blog di Grillo e un reportage sui sicari colombiani commissionato dallo stesso Casaleggio, e che ha forse venduto due o tre copie nonostante lo stesso editore continui periodicamente a piazzarne i banner nella home page del blog di Grillo dopo ogni apparizione televisiva del nostro. Parlamentare dall'attività politica praticamente nulla ( a sentire il "dissidente" Orellana, si sveglia solo se c'è qualche telecamera intorno),  urlatore con l'aplomb di rivoluzionario d'altri tempi ("Qui fuori gli italiani hanno fame e voi gli avete tolto il pane!"), esagitato ma non troppo per non turbare la sensibilità delle casalinghe di Voghera che nella classifica di gradimento lo hanno ormai sostituito al vecchio Costantino Vitagliano. Dispensatore di ovvietà ("In questo paese un condannato non può fare il bidello ma può sedersi a legiferare!"), abile elargitore di sorrisetti se inquadrato in primo piano, risibile predicatore dell'utopia della democrazia diretta da attuarsi nei server della Casaleggio Associati, è un personaggio fondamentalmente inetto, prodigatore del nulla,  che a volte la spara talmente grande ("La mafia è Civati!") che persino il suo capocomico è costretto a dilazionarne le apparizioni televisive. 

Andrea Scanzi
Giornalista del Fatto Quotidiano. Ma anche autore teatrale, attore e scrittore. Si intende di politica, musica, teatro, calcio, automobilismo, letteratura, cinema, vini e cani. E anche di altro che non ci sovviene. Non è in Parlamento, non è neanche iscritto al Movimento 5 Stelle, allora perchè lo includiamo tra gli asset della Casaleggio Associati? Siamo proprio stupidi.
A sentir lui, un giornalista vero, scomodo, che non si piega, che racconta la verità e mantiene la sua indipendenza intellettuale senza mai scendere a compromessi. Divertente.
L'uomo che "sfancula Grillo ogni giorno", ma nello stesso articolo non dimentica mai di dire che il PD in circostanze analoghe ha fatto peggio. Emblema del giornalismo politico ridotto ad una gara al ribasso, che punta direttamente alla pancia degli italiani senza mai innalzarsi dalla sterile "guerra tra bande". Penna piuttosto scialba, dal sarcasmo prevedivile e ripetitivo che a tratti ricorda il peggior Jerry Calà (una perla per tutte, Renzi Cipì come Citrullino Pingue), è decisamente più garbato in televisione, forte di un innegabile talento nel contraddittorio che permette di dire nulla fingendo di  avere una valanga di contenuti.
Iper-narcisista per sua esplicita ammissione, spende un sacco di tempo nello smontare gli argomenti di chiunque critichi il suo atteggiamento o i suoi interventi o il suo "pensiero". Ma un giornalista  "vero" non dovrebbe avere ben altri pensieri che sprecare tempo con chi se la prende con lui?

Luigi Di Maio
Neanche ventotto anni, vice-presidente della Camera. Il più giovane, il più intelligente e il più bello (anche se con le luci giuste Di Battista è più fotogenico nei primi piani). Studente di giurisprudenza (la laurea che non arriva è l'unica "macchia" della sua carriera), e attivista della prima ora del Movimento 5 Stelle, ha dalla sua un atteggiamento pacato e razionale che bilancia perfettamente i toni sopra le righe di Beppe Grillo e colleghi, estendendo il consenso elettorale a quella fascia di popolazione infastidita dalle parolacce del comico genovese. Sempre elegante, faccia da bravo ragazzo, l'uomo che le casalinghe di Voghera vorrebbero come genero. L'inattesa cadenza partenopea che si insinua in alcune esclamazioni gli restituisce un'immagine di scugnizzo ripulito che lo rende più umano e "vicino" alla gente.  Abilissimo nel contraddittorio televisivo, Luigi Di Maio è una strepitosa macchina del consenso che non ha eguali nel Movimento. Per questo è una delle figure più ricorrenti nei talk show televisivi. A volte bisogna addirittura riflettere una decina di secondi prima di rendersi conto che non c'è poi sostanza nei suoi argomenti, improntati alla solita scontata condanna delle brutture della malapolitica e a proposte generiche e irrealistiche come il reddito di cittadinanza. Ma la maggiorparte del pubblico televisivo non ha voglia di riflettere quella decina di secondi, si sa.

Saranno tali tronisti 2.0 in grado di far del bene al Paese? A voi l'ardua sentenza.

giovedì 5 giugno 2014

I mondiali un'altra volta


Tra una settimana comincia il mondiale brasiliano. Di già? Sembrano trascorsi pochi mesi dal trascinante Waka-Waka di Shakira e le lamentele per gli assordanti vuvuzela sudafricani, ed invece sono anni. Quattro anni, per la precisione. Con famigerata puntalità torna quindi l’evento sportivo più atteso e seguito al mondo. E con esso il frastornante tran tran mediatico, lo straripante côté pubblicitario, le infinite e spesso sterili polemiche che vanno dalle presunte convocazioni errate agli arbitraggi scandalosi passando per le tette rifatte della soubrette compagna del bomber del momento. Ma soprattutto, si tirano fuori le bandiere impolverate e torna la palpabilissima atmosfera di schiamazzi e cori goliardici, narcisismo nazional-popolare, birrozze e inni cantati a squarciagola con enfasi baritonale, maxischermi e sfilate di giubilo. 
Poco conta se si è appassionati di calcio o meno. I mondiali entusiasmano e spaventano anche un po’. Perchè ben più di compleanni o anniversari di altro genere, i mondiali scandiscono in maniera inesorabile le tappe della nostra esistenza. 
C’è il mondiale della nostra infanzia, quello vissuto con i genitori e gli zii, in cui si rimane ipnotizzati dalle prodezze di quegli omoni scattanti che pero' non sono acrobatici come i personaggi di Holly e Benji. C’è il mondiale della prima adolescenza, con il tifo che si fa piu’ intenso e con esso il sogno della vittoria, e la fantasia a briglia sciolta che ti catapulta direttamente sul campo, al centro dei riflettori, segnando dopo aver dribblato gli avversari come Baggio nel ’90 e con la curva che si scioglie in boati di gioia solo per te. 
C’è il mondiale dei sedicianni, in cui gli umori e le canzoni del periodo contano piu’ delle azioni di Vieri, e, chissà perchè, porta con sé il sentore delle serate in riva al mare, il ricordo struggente degli sguardi liquidi e dei sorrisi e dei baci sofferti sognati o negati.
C’è il mondiale dei vent’anni, il mondiale della goliardia, quello in cui finalmente si puo’ festeggiare in macchina con gli amici strombazzando il clacson a gogò. 
C’è il mondiale dei venticinque, quello della laurea o quasi, quello che distrae dalle fastidiose domande esistenziali su cosa fare da grande mentre si fa il conteggio di quanti calciatori siano piu’ giovani o piu’ vecchi di te.   
C’è il mondiale dei trent’anni, quello in cui l’entusiasmo permane ma ad ogni vittoria si festeggia un po’ di meno, perchè c’è chi ha ancora la testa di venti ma chi deve tornare a casa presto per badare al pupo. 
E tutti gli altri mondiali a venire. Che sembrano avere date fantascientifiche eppure arrivano cosi’ presto.
Indissolubilmente legati all’estate, i mondiali sono anche sole, mare, risate, zanzare, barbecue, vino bianco e flirts al chiaro di luna. I mondiali sono un potente catalizzatore degli umori che la stagione estiva, da sempre emblema della crescita e del passaggio a volte turbolento da una fase della vita all’altra, si porta appresso. E come tante estati della nostra vita, il piu’ delle volte lasciano ferite; fosse pur solo per motivi statistici, quasi sempre i mondiali si perdono. Un maldestro errore della difesa, un rigore sbagliato e si è fuori dalla competizione. L’entusiasmo si sgonfia come una mongolfiera colpita da un proiettile vagante. Si continua a seguire le altre partite, ma non è piu’ la stessa cosa. 
I mondiali sono occasione di bilanci. Dov’ero il mondiale scorso? Con chi ero, cosa facevo? Cos’è cambiato? Domande la cui risposta, volenti o nolenti, ha spesso un retrogusto amaro. Quello del tempo che passa, che a volte sfugge dalle dita come sabbia fina e si ha l’impressione che non ci abbia poi lasciato granchè. Così come differenti scelte tattiche o una difesa leggermente più attenta o addirittura un tiro in porta mancato per pochi centimetri avrebbe portato ad un esito della competizione completamente diverso, la delusione per il mondiale perso riecheggia il rimpianto per cio’ che eravamo o il rimorso per cio’ che avremmo potuto essere (o avremmo potuto fare) ma poi non siamo stati (o non abbiamo fatto).
Ma finchè dura, l’euforia cancella le domande più annose. Tra una settimana saremo tutti li’ a tifare e a cantare cori a squarciagola. Lottando insieme agli eroi di Prandelli affinché il momento dei rimpianti non arrivi troppo presto.