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martedì 31 dicembre 2013

Il caffè delle undici

In una cittadina della costa catanese, un ragazzino che lavora nel bar di mamma e papà non aspetta altro che arrivino le undici. L'ora del caffè. O meglio, l'ora in cui è solito portare il caffè alla bella signora solitaria della spiaggia, la signora dagli occhi chiari e il viso da fata, che riempie i suoi pensieri, anche di notte. Ma un giorno la macchina del caffè si rompe. Deve dunque il nostro eroe rinunciare all'incontro quotidiano con la sua bella signora? Giammai...

 

venerdì 29 novembre 2013

L'uomo che teme il silenzio

Molte persone, anche adulte, hanno paura del buio.
Giuseppe, invece, ha paura del silenzio. Lo terrorizza l’istante in cui apre la porta di casa quando torna da lavoro, e la trova oscenamente muta. E allora si precipita immediatamente sullo stereo in soggiorno e preme il tasto ON. Sospira, il fruscio della radio è per lui un siero benefico. Sceglie una stazione a caso, regola la manopola del volume e si lascia cadere sul divano.  A volte collega l’ipod alle casse e mette su gli Oasis, i Pixies e Christina Aguilera. Poi accende la televisione e fa zapping cercando MTV o qualche canale fracassone. Cena a base di pane e yogurt mentre sullo schermo vanno in onda i videoclip delle band più trendy del momento, e le loro canzoni, la loro musica, il loro rumore, si insinuano placidi e rassicuranti tra le quattro pareti del suo bilocale. Teme ancora gli istanti di pausa tra una canzone e l’altra, e quando il momento della pausa arriva Giuseppe stringe gli occhi temendo che il silenzio lo assalga alle spalle come un ninja affondandogli  la sua subdola lama in gola, ma poi la musica riparte e tira un sospiro di sollievo. 
Ci sono sempre musica e rumore a casa di Giuseppe, anche quando dorme, vuole che gli scombussolino i sogni e non lascino neanche loro in balia del silenzio.

Ma un giorno c’è un black-out. Tragicamente televisione e stereo ammutoliscono e la casa è improvvisamente più silenziosa di una chiesa di campagna in una giornata di agosto. In preda al panico, Giuseppe si precipita verso la cucina, tira giù due piatti dalla credenza e inizia a sbatterli l’uno contro l’altro mentre batte a terra il piede destro al ritmo di un generico OH-OH-OH. I piatti si scontrano con un rumore acuto che gli trasmette scariche di benessere. Ma poi Giuseppe sbatte i piatti un po’ troppo forte e questi vanno in frantumi. Immediatamente afferra altri due piatti, ma poi pensa non voglio distruggere la cucina, e trova un’altra soluzione. Inizia a cantare. A squarciagola, stonato. Canta Nel sole di Al Bano, Se telefonando di Mina e Champagne di Peppino di Capri. Presto ha il mal di gola, si accorge che sta per diventare afono e cerca di escogitare per tempo un’altra soluzione ma non gli viene nessuna idea.
Qualcuno bussa alla porta d’ingresso, e Giuseppe si precipita ad aprire. E’ Priscilla, la sua dirimpettaia. Che diavolo succede, chiede, cos'è tutto questo fracasso. Giuseppe la afferra per un braccio facendola trasalire, chiude la porta di casa e la trascina in soggiorno.
Ti prego, parla!, le urla.
E cosa dovrei dire, chiede lei sorpresa.
Quello che vuoi, purché tu lo faccia ad alta voce e senza pause, risponde Giuseppe.
Incuriosita e convinta che si tratti di un gioco, Priscilla accetta la proposta. Inizia a raccontare la sua giornata, le persone che ha incontrato, la cena con le amiche del liceo, il film con Jean Paul Belmondo che ha visto ieri sera, gli ultimi scandali della politica locale. Lo fa con una voce squillante che a poco a poco finisce per rassicurare Giuseppe, che torna a sedersi sul divano e sospira. 
Io lo so perché hai paura del silenzio, dice improvvisamente Priscilla lasciando Giuseppe di stucco. 
Cosa dici, chiede lui.
Hai paura del silenzio perché hai paura di ascoltare, dice Priscilla. Eppure una volta non ne avevi paura. Sapevi bene che solo il silenzio è una parte fondamentale dell'ascolto, sapevi che il silenzio è come gli spazi bianchi di un foglio scritto che danno un senso compiuto ai filamenti d’inchiostro che qualcuno ha deciso di porvi sopra.  
Poi, ascoltare ti ha fatto soffrire. E hai deciso di non farlo più, hai voluto versare il calamaio su quel foglio scritto rendendo illeggibili le parole.  Adesso hai paura che il silenzio possa dare di nuovo un senso alle parole che hai voluto cancellare, perché quelle parole ti fanno del male.
Ma se pensi di cancellare quelle parole ricoprendole di musica e rumore, ti sbagli. Puoi seppellirle, metterci sopra strati di terra e cemento, ma quelle parole resteranno sempre lì in basso, a farti del male. E’ solo dissotterrandole, è solo cercando di rimuovere l’inchiostro superfluo che puoi provare a farle asciugare al sole. Fino a farle sbiadire, forse. 

Poi Priscilla dice di essere in ritardo per un appuntamento e va via. Giuseppe resta solo e improvvisamente le parole che gli hanno fatto male tornano su rapide come bolle in una vasca idromassaggio. Sono le parole affilate di un monologo che inizia con  “E’ stato tutto uno sbaglio”. Il lungo monologo di Camilla, la sua Camilla dagli occhi nocciola e il viso da ragazzina, seduta a gambe incrociate sulla sua poltrona Frau, mentre lui ascolta incredulo e cerca di marchiare nella memoria ogni tratto di lei, dal tono della voce alla ciocca ribelle di capelli, dal neo sopra l’occhio sinistro alle labbra lucide e spesse. Consapevole del fatto che non la vedrà mai più.
La casa è di nuovo in silenzio, ma adesso Giuseppe non è più smanioso. Perché le parole che lo hanno fatto soffrire sono venute fuori e sono più assordanti di un concerto dei Metallica con amplificatori a diecimila watt. Hanno già riempito casa, rimbalzano violente e incuranti tra le pareti come mille palline da tennis.
Giuseppe ne ha paura. Prende uno zaino da campeggio e ci infila dentro una coperta e un cuscino. Esce di casa facendo sbattere la porta e suona nell'appartamento di Priscilla. 
Se non ti dispiace, questa notte mi fermo a dormire da te, dice a Priscilla quando lei apre la porta d’ingresso. Le parole che mi hanno fatto male sono tornate su improvvise e hanno preso possesso di casa mia, rimbalzano assordanti tra le pareti e non mi lasciano più spazio.  Domani tornerò a casa e so che saranno più deboli, e dopodomani lo saranno ancor di più. Alla fine saranno tenui come un eco dimesso, e verranno  assorbite dalle pareti. Ma stasera sono ancora tanto rumorose.
Priscilla è dapprima stupita, poi sorride e lui si accorge della fossetta sulla sua guancia destra.
Fammi dormire da te, continua Giuseppe, resterò in un angolino e mi farò piccolo piccolo. Però ti prego, raccontami qualcosa, ho bisogno di parole nuove perché mi sono liberato di quelle vecchie e sento un vuoto allo stomaco. Ma stavolta non urlare, aggiunge Giuseppe, sussurrale soltanto. 

domenica 3 novembre 2013

En italiensk sang til jer

L’iniziativa En italiensk sang til jer, promossa dall’istituto italiano di cultura di Copenhagen, si era diffusa rapidamente nell’intero paese con inatteso successo.  L’idea di base era molto semplice: si sceglie una bella canzone italiana e la si canta in coro negli autobus di linea, con lo scopo di incuriosire i danesi presenti e favorire l’integrazione, anche culturale, con i tanti immigrati italiani che popolano le cittadine scandinave.
Ruggero Bartolacci, residente ad Aalborg da oltre dieci anni e da sempre promotore di iniziative volte ad avvicinare i cittadini danesi alla conoscenza del Belpaese, si era immediatamente proposto come responsabile locale dell’iniziativa. A tal proposito aveva scelto una canzone, Fin che la barca va, non inflazionata come Azzurro o Volare ma ricca di ritmo ed ottimismo, e di certo molto adatta ad essere cantata in coro su di un autobus con l’entusiasmo di una gita scolastica. Aveva dunque coinvolto i suoi amici italiani locali e aveva fatto stampare un centinaio di flyer con il testo della canzone, da distribuire all’entrata dell’autobus a tutti i viaggiatori. E soprattutto, aveva avuto una brillante idea che sicuramente avrebbe dato un valore aggiunto alla performance; il suo amico Peder Nielsen, autista dell’autobus su cui si sarebbe cantata la canzone di Orietta Berti, avrebbe partecipato attivamente al coro. 
Si era dunque recato a casa di Peder con il testo della canzone, e l’avevano studiata insieme. Era questi un omone ormai prossimo alla pensione dagli occhoni grigi e dal sorriso gioviale. Accettò con entusiasmo la proposta di Ruggero, da anni suo buddy di fiducia nel circolo di bocce, e insieme a lui ascoltò decine di volte la canzone, sforzandosi di coglierne il ritmo e la pronuncia. L’idea di Ruggero era che Peder sarebbe intervenuto cantando da solo la parte finale del ritornello. Lui e i suoi amici italiani avrebbero cantato la parte che fa:

Fin che la barca va, lasciala andare,
fin che la barca va, tu non remare,
fin che la barca va, stai a guardare,

dopodichè Ruggero avrebbe urlato uno stop!, Peder avrebbe frenato, si sarebbe alzato dal posto di guida e, rivolto ai viaggiatori, avrebbe intonato:

quando l’amore viene il campanello suonerà,
quando l’amore viene il campanello suonerà.

L’effetto sarebbe stato grandioso, uno straordinario coup de théâtre. Avevano dunque studiato insieme sillaba per sillaba la pronuncia di quel ritornello di cui Peder non si era neanche chiesto il significato. Non era stato facile, Peder non era portatissimo per le lingue straniere e le vocali se ne andavano a zonzo nella frase, ma dopo centinaia di prove era in grado di pronunciare qualcosa che suonava come kuan do lamora vena ilka panelo sonera. Accettabile, insomma. 
Il giorno dopo Ruggero salì dunque con i suoi amici italiani sul bus numero due diretto verso Gistrup strizzando l’occhio al suo amico Peder al volante. Uno studente erasmus di Vicenza rimase in piedi all’ingresso  distribuendo i flyer con il testo della canzone ai danesi che entravano, mentre gli altri si sistemarono agli ultimi posti.
Quando il bus si mosse dal terminal imboccando Jyllandsgade, Ruggero si alzò in piedi, e schiarendosi la voce iniziò ad intonare:

Il grillo disse un giorno alla formica...

Immediatamente, come d’accordo, gli italiani che erano con lui seguirono con :

...il pane per l’inverno tu ce l’hai...

e così via. Cantavano a squarciagola con un entusiasmo liberatorio da scolaretti birbanti, mentre Ruggero agitava i gomiti in aria  imitando un esagitato maestro d’orchestra. I danesi si voltavano curiosi, alcuni avevano un’aria contrariata per il troppo casino, altri con un sorrisetto da semiparesi facciale gettarono uno sguardo al testo  della canzone provando anche a biascicare qualche parola. Arrivò dunque il ritornello di Fin che la barca va, accompagnato da un fragoroso battimani ritmato, e, quando fu il momento, Ruggero gridò lo stop! ai suoi amici che come da copione ammutolirono all’istante. 
Peder fu di parola. Frenò bruscamente, si alzò in piedi, e puntando l’indice verso i viaggiatori pronunciò quella che nelle sue intenzioni era la parte finale del ritornello. Ne uscì un’arzigogolata cacofonia di sillabe smozzicate e impronunciabili,  qualcosa che con buono sforzo di rielabolazione potrebbe essere trascritta come calosomoraveheloooramikanziano...  
Ma non fu la delusione per la pessima performance di Peder a far precipitare la situazione. Fu la frenata, la sua brusca frenata, il cui contraccolpo fece cadere a terra il Samsung Galaxy S3 di Filippo, un ragazzo impulsivo e poco accomodante che a malavoglia si era prestato al progetto di Ruggero . Quando lo raccolse, Filippo si accorse con orrore della grottesca ragnatela che campeggiava sul display di vetro, rotto, irrimediabilmente rotto. E pensare che lo aveva comperato al Fona due giorni prima... Senza pensarci un istante, si mosse infuriato verso Peder e urlandogli un intenso “Ma come cazzo freni testa di cazzo!” gli allungò una sonora sberla in faccia. Il viso bonario di Peder divenne rubicondo all’istante, e incredulo per quell’inatteso torto subito biascicolò un silenzioso for Saten... tra i denti, mentre i suoi occhioni grigi sembravano chiedersi il perchè di quel brutto gesto.  Improvvisamente Filippo fu afferrato alle spalle da un culturista vichingo dalla mascella quadrata che con un sonoro "Hvad fanden laver du?!?"  lo sbattè contro la porta pneumatica dell’autobus. Filippo capì subito che non aveva molto da ottenere reagendo ad un gigante di tale portata e la rabbia gli sbollì all’istante, ma Ruggero si avvicinò afferrando il culturista per il braccio invitandolo a non reagire e a scusarlo. Bastò un semplice strattone per far cadere Ruggero a terra, mentre un altro italiano prendeva il culturista di sorpresa allungandogli un potente calcio nel culo. Quella che poteva diventare una rissa fu fermata in tempo da un gruppo di danesi che fece cerchio intorno al culturista implorandolo di non prendersela, di lasciar perdere, mentre gli italiani silenziosamente scivolavano ai loro posti e Peder, tremante, componeva il 114 sul cellulare. Quando arrivò la Politi l’autobus fu fatto parcheggiare nei pressi di Østre Alle, e fu chiesto a Peder, Ruggero, Filippo e gli altri di ricostruire l’accaduto. Alla fine Filippo fu costretto a chiedere scusa e stringere la mano a Peder e al culturista, che si chiamava Knud e continuava a fissarlo con l’aria di chi muore dalla voglia di strappargli un orecchio con un morso.  Silenziosamente tutti i viaggiatori scesero dall’autobus, alcuni si recarono alla fermata più vicina, altri, scossi dalla vicenda, tornarono a casa e si presero un giorno di malattia.

Ma l’increscioso evento sull’autobus di Aalborg non passò inosservato. In poche ore tutti i giornali e i talk show finirono per parlarne, divenne l’argomento del giorno. Si risuscitarono vecchi spauracchi nazionalisti di sfiducia e diffidenza verso lo straniero, il Danske Folke Parti estremizzò le proprie posizioni razziste estendendo le ragioni del loro rifiuto all’integrazione dagli extra-comunitari a tutti i cittadini europei non scandinavi.
Naturalmente l’iniziativa En italiensk sang til jer fu sospesa, con notevole imbarazzo e disagio da parte dell’istituto italiano di cultura di Copenhagen. 
Per i mesi seguenti Ruggero fu tormentato dai sensi di colpa. Non avrebbe dovuto strafare, avrebbe dovuto lasciare Peder guidare l’autobus e basta. Notò una crescente diffidenza dei suoi colleghi al circolo di bocce, e Peder non lo guardava quasi più. 
La notte era tormentato dagli incubi.
Una volta sognò di essere intrappolato in un autobus insieme ad altri italiani. Porte e finestre erano chiuse, non c’era via d’uscita. Al di fuori, un gruppo di danesi li osservava sbevazzando dalle lattine di Carlsberg che si erano portati appresso, e li scherniva sputando o pisciando sulle finestre. Poi, con uno sforzo coordinato e decine di oooo-issa!!, i danesi sollevarono le ruote laterali e rovesciarono l’autobus su di un lato. Gli italiani all’interno caddero sopra le finestre con lamenti e grida fragorose. Dopodichè i danesi rovesciarono di nuovo l’autobus nello stesso verso, e poi di nuovo, e poi di nuovo ancora, facendogli percorrere in quel modo gli interi Boulevarden, mentre gli italiani venivano sballottolati nell'abitacolo come ghiaccio e caffè in uno shaker. Alla fine l’autobus arrivò fino a Strandvejen, e con un ultimo sforzo i danesi lo gettarono nel fiordo. Brindando con un sonoro Skål, tracannarono un’ultima birra e se ne tornarono a casa. L’autobus andò giù rapido, mentre l’acqua iniziava a filtrare dalle fessure sul basso e sulle porte pneumatiche. Eppure gli italiani all’interno, seppur malridotti, riuscirono con sforzo sovraumano a sradicare una delle aste di sostegno per i passeggeri. La scagliarono ripetutamente contro il vetro della finestra laterale, che iniziò ad incrinarsi e alla fine andò in frantumi, allagando completamente l’abitacolo. Gli italiani evasero attraverso la finestra rotta, e nuotarono fino alla superficie. Uno di loro emerse con un pannello  pubblicitario di legno che aveva sganciato dalla parete laterale dell’autobus. Gli italiani si aggrapparono dunque al pannello galleggiante e vi salirono sopra, bilanciando abilmente il peso sui quattro lati per evitare di capovolgerlo. Alla fine eccoli lì, trasportati verso il Kattegat a mo' di zattera da un pannello pubblicitario del Føtex. Fradici, malconci e infreddoliti, ma vivi. Uno di loro starnutì fragorosamente. Dopodichè, con voce dapprima fioca poi sempre più convinta, iniziò ad intonare:

Fin che la barca va, lasciala andare,
fin che la barca va, tu non remare...    





domenica 20 ottobre 2013

Dignità e boccoli d'oro a Jomfru Ane Gade


Kai Fiskebjerg, quarantotto anni, due divorzi alle spalle, tre anni di carcere per tentato stupro alla figlia adottiva sedicenne, nullafacente, parassita sociale, ladro di automobili, truffatore di mezza tacca, spacciatore di fumo, indomito alcolista in grado di bersi in una serata l’intero assegno mensile di disoccupazione, ritrovò la dignità nel cesso di un noto locale fighetto di Jomfru Ane Gade in cui era capitato per sbaglio. La vide luccicare sul fondo concavo del pisciatoio metallico, tra il riverbero di liquami schiumosi  dall’olezzo penetrante, mentre svuotava di gusto la vescica al fianco di un panzone in camicia celeste che continuava a ruttare al ritmo dell’inno dell’Aalborg Fodbold. Non poteva lasciarsela scappare, la dignità. Immerse senza alcun indugio le falangi in quel rigagnolo brodoso di piscio e catarro, la arpionò facendo uncino con l’indice e il medio  e la sistemò al sicuro nel taschino ad altezza del petto della sua lercia giacca di pelle. 
Battè più volte la mano sul taschino e sorrise. Gli era andata bene. Con tutta la gente che entrava lì a pisciare, qualcun altro avrebbe potuto trovarla, ma invece quel colpo di fortuna era toccato a lui. 
Uscì dal cesso trionfante facendo sbattere la porta a due ante  e fu subito accolto dalla musica assordante e dal profluvio di gambe, scollature e chiome dorate che si affastellava tra il bar e la zona ballo. Fino a qualche minuto fa non avrebbe resistito all’andirivieni di quei corpi sinuosi e sodi e si sarebbe lanciato in pista molleggiando sui suoi jeans strappati davanti alla prima biondona maggiorata. Ma adesso non c’era tempo per queste stronzate. Fiero del tesoro che custodiva nel suo taschino, non degnò le bionde di uno sguardo e si diresse a passo sicuro verso il bar. Adesso mi siederò e ordinerò una birra, pensò, o forse due, ma non di più. Poi inizierò a conversare con una donna seduta al mio fianco, chiedendole di lei, cosa fa nella vita, se viene spesso in questo locale. Niente occhiolini, niente palpatine, solo conversazione.  Dopodichè ci saluteremo e tornerò a casa a dormire. Un’autodisciplina da damerino inglese, insomma. 
Seduto su uno sgabello al bancone del bar c’era un donnone inzaccherato in un vestito stretto di un azzurro smunto. Aveva una vistosa capigliatura a boccoli a metà tra Shirley Temple e una donna da bordello ottocentesco,  due occhiolini azzurri infossati in un faccione da triplo mento, una bocca minuta e senza labbra che continuava ad elargire generosi sorrisi con dentini aguzzi come quelli di uno yorkshire agli avventori del locale. La sua postura curva sullo sgabello metteva in evidenza i rotoli di ciccia che le ricadevano sui fianchi come tanti salvagenti concentrici e la facevano  sembrare una specie di Jabba the Hutt.  
Kay Fiskebjerg si sedette al suo fianco e fu subito accolto da un sorriso entusiasta. La donna allungò la mano presentandosi come Pernille, mentre Kay ordinava una birra. Pernille estrasse un iPhone da una borsetta fucsia , mosse le dita tozze sul piccolo schermo e mostrò a Kai una sua foto, dove aveva i capelli lunghi e lisci e sorrideva nello stesso modo. 
Guarda, disse, fino a ieri ero così. La mia amica Christina mi ha consigliato di cambiare pettinatura, ha detto che i boccoli mi donano. 
E con le mani si sistemò la chioma con aria compiaciuta.
La tua amica ha ragione, stai benissimo con i boccoli, disse Kai, anche se non lo pensava affatto. La donna allargò il sorriso al massimo consentito dalla sua bocca minuscola e diede un buffetto al ginocchio di Kai.
Tusind tak!
Kay aveva un promemoria da conversazione sana e matura, una serie di discorsi  mutuati da alcuni film visti di recente al centro di recupero alcolisti. Doveva parlare di se stesso senza dare troppe informazioni, presentandosi come una persona affidabile, che ha affrontato di recente alcune difficoltà familiari dovute ad incomprensioni con l’amata consorte, e al momento disoccupato e alla ricerca di un impiego.  
Ma quella non era una delle solite serate in cui tentare pateticamente di mostrarsi serio e responsabile. Quella era la serata in cui finalmente aveva ritrovato la dignità. 
Sono un alcolizzato, le disse quindi, spaccio fumo e rubo auto, ho palpeggiato mia figlia adottiva dopo aver notato che l’età dello sviluppo era stata piuttosto generosa con le sue ghiandole mammarie. Ma tutto ciò fino a mezz’ora fa. Poco fa, in bagno, ho ritrovato la mia dignità. Adesso sono un uomo diverso. Bevo una birra, sì, e forse ne berrò anche un’altra, ma poi smetterò. Sono qui per parlare e conoscere gente, per pura curiosità e piacere di farlo, senza secondi fini.  Tornerò a casa e da domani inizierò davvero a cercare un lavoro. Il mio tesoro è qui, aggiunse indicando il taschino sul petto, e io non posso tradirlo. 
Eccitata dal fatto che un uomo si fosse seduto lì a parlarle, Pernille non pensava ad altro che a sistemarsi i boccoli, e non lo ascoltava neanche. La sua amica Christina aveva avuto una grande idea. Con quei boccoli era un'altra persona, e gli uomini le si sedevano affianco e le parlavano interessati. Non era male, quel Kai Fiskebjerg. Spalle un po’ strette, un po’ stempiato e dai denti lerci, ma non era male. Ed era interessato a lei! Avrebbero preso un altro drink, poi sarebbero andate a casa sua...  Persa nei suoi accomodanti pensieri, di tutto il discorso dell’uomo capì soltanto che aveva qualcosa di molto prezioso nel taschino della sua giacca.  Posò una mano sul suo ginocchio e sorrise. Kai ricambiò il sorriso.
Vado un attimo in bagno, disse Pernille aggrappandosi al bancone per trascinare la sua mole imponente al di là dello sgabello. Kai la seguì con lo sguardo mentre si faceva largo tra le decine di ragazze in minigonna che si dimenavano sulla pista da ballo.
Poi non seppe dire quale fosse la causa dominante. Forse i buffetti di Pernille sul ginocchio avevano silenziosamente risvegliato qualcosa nella sua prostata indolenzita dall’età e dall’overdose di Cialis che anticipava ogni sua visita al centro massaggi thailandese di Søndergade. O forse quella ragazza di neanche diciott'anni che si scansava per lasciar passare Pernille, infilata in un vestitino aderente con tessuto di satin dal motivo ad onde, era formosa come lo era la figlia adottiva a cui era condannato a restare ad almeno un chilometro di distanza per il resto della vita. Fatto sta che, quando vide che la ragazza con l'abito di satin si dirigeva anch’essa in bagno, con rapidità felina sgusciò districandosi tra le centinaia di persone e si infilò nel bagno delle donne come uno scolaretto birbante.
Dopodichè tutto durò pochi secondi, tanto da rendere difficile persino ricostruire la causalità degli eventi. Ricordava solo il viso terrorizzato da Cappuccetto Rosso davanti al lupo cattivo che aveva la ragazza quando le sue braccia le scivolarono addosso come i tentacoli di un polipo mentre lei si sistemava il lucidalabbra alla fragola davanti allo specchio.  Ricordava il suo urlo talmente acuto da far vibrare le finestre, la sua gomitata sul mento che lo fece cadere a terra, mentre la dignità, sì, la dignità, gli scivolava via dal taschino e rotolava sulle mattonelle del bagno. Ricordava il viso a metà tra il disgusto e la delusione di Pernille che si era appena sistemata la gonna dopo aver fatto pipì, ricordava Pernille inchinarsi a terra con fatica, raccogliere la sua dignità e uscire a passo rapido dal bagno delle donne.
No, Kai non poteva lasciarsi sfuggire la dignità così facilmente. Seguì Pernille al di fuori del locale, dove il freddo della notte gli invase i polmoni al punto da fargli girare la testa. Pernille avanzava per Jomfru Ane Gade con una rapidità inattesa, prendendo a spallate come un quaterback chiunque affollasse la via quella sera, dai bellimbusti in canotta con mandibola squadrata alle biondone statuarie o avvizzite, dagli studentelli stranieri arrapati agli omini eschimesi con cappello a visiera. 
La seguì attraverso Strandvejen fino ad arrivare al lungofiordo, dove Pernille, urlando un gigantesco Din svin!!, lanciò la dignità di Kai nelle acque rancide e oscure mosse dal vento onnipresente. Senza pensarci un istante, Kai si tolse la giacca e le scarpe e si tuffò nel fiordo. Il peso dei vestiti che aveva indosso sembrava trascinarlo nel fondo di quella melma gelida e bluastra. Ingoiò boccate di un liquido denso al sapore di sale e catrame, e per un istante pensò di morire incastrato sul fondo tra i relitti arruginiti delle biciclette come pasto per platesse e aringhe carnivore geneticamente modificate dagli scarichi industriali.  Ma finalmente la vide, la dignità, posata sulla superficie concava di quella che qualche decennio prima era stata l’elica di un motoscafo. La afferrò per la seconda volta in quella serata, e con rapidi movimenti degli avambracci emerse dall’acqua aspirando aria con violenza. Con bracciate dimesse e rilassate nuotò verso terra. Uscito dall’acqua, riprese la giacca di pelle e si lasciò cadere esausto. Tremando per il freddo e stringendosi nella giacca asciutta, cadde in un sonno oscuro e denso come le acque da cui si era appena tirato fuori.

Si svegliò alle prime luci dell’alba. Controllò il taschino della giacca. La dignità era ancora lì, nessuno aveva pensato di rubargliela mentre dormiva. Quanto gli era costata quella sera, la dignità! Aveva rischiato di perderla di nuovo a causa di una diciottenne formosa, ma alla fine era riuscita a recuperarla. Stirandosi le membra intorpidite si rimise in piedi, infilò le scarpe e si mosse verso Strandvejen. A quell’ora la città era immersa nell’atmosfera post-atomica della domenica mattina, con i pochi sopravvissuti della notte iperalcolica che camminavano barcollando come zombie. 
Vide Pernille seduta da sola a gambe larghe su una panchina all’incrocio tra Bispensgade e Jomfru Ane Gade. Aveva in mano una bottiglia di vodka da cui tirava giù sorsate improvvise e nervose. Kai le si avvicinò e si sedette al suo fianco,  lei provò a voltarsi di tre quarti per dargli le spalle. 
Perché lo hai fatto, le chiese Kai.
Pernille tirò giù l’ennesimo sorso di vodka. Pensavo che tu fossi attratto da me, lo pensavo e ci credevo, rispose. Perché avevo la mia pettinatura a boccoli e mi sentivo bella. E invece ci hai provato senza ritegno con la prima diciottenne che hai adocchiato. Allora ho capito che la mia pettinatura a boccoli non serve a nulla, non è vero che mi rende più bella, io sono come sono e nessuno cambierà idea su di me con qualsiasi capigliatura io abbia. Sai, penso che a volte abbiamo bisogno di credere di esser migliori di come siamo, e allora usiamo dei pretesti, crediamo che in fondo basti poco per essere diversi. Ma è solo un'illusione, in realtà non è facile cambiare, e alla fine siamo sempre gli stessi qualsiasi sforzo facciamo. Ma abbiamo bisogno di crederci, abbiamo bisogno di pretesti.
Kai infilò la mano nel taschino della giacca e tirò fuori quello che c’era dentro. Un misero anello di ferro, in parte placato d’oro in parte arruginito, un oggetto di bassa bigiotteria dal valore di cinque corone. Eccola lì, la sua agognata dignità... Una lacrima gli scivolò sul viso e se la asciugò con la manica della giacca.
Alcuni timidi raggi di sole filtrarono tra le nuvole plumbee della grigia giornata danese. L’anello semiarruginito che Kai continuava a rigirarsi tra le mani riflettè timido la luce del sole. Gli ricordò l'anello nuziale del suo primo matrimonio. Pensò alla sua prima moglie, al suo viso pulito e ai suoi occhi profondi come l'oceano, e fu colto per un istante da una nostalgia accecante. Si voltò poi verso Pernille che aveva appena posato la bottiglia a terra, si accorse dei riflessi biondi dei suoi boccoli e pensò che forse era vero quello che le aveva detto la sera prima, era più carina con quei boccoli che nella foto che lei le aveva mostrato. Allungò il braccio sulle sue spalle, lei si voltò sorpresa e sorrise.
Un attimo dopo le mise le mani sulle tette. 

domenica 15 settembre 2013

Il genio sottile di Gianroberto Casaleggio


L’Italia è in mano ad un imprenditore, che manovra abilmente gli strumenti di comunicazione in suo possesso alla spietata ricerca del consenso elettorale, che poi impiega allo scopo di accrescere il tornaconto economico della propria azienda.
No, vi sbagliate, non stiamo parlando di Berlusconi. Ne parlano fino allo sfinimento eserciti di giornalisti orbi ossessionati dal cogliere ogni colpetto di tosse o verdurina incastrata tra i suoi dentoni rifatti, associandogli colossali tracolli dei massimi sistemi democratici.  Come se un vecchietto dai capelli finti, corrotto e puttaniere, al nadir della sua carriera politica possa davvero rappresentare un pericolo per la democrazia del nostro Paese e non essere solamente –quello sì- causa di una situazione di stallo.   
L’imprenditore di cui parliamo è Gianroberto Casaleggio, presidente della Casaleggio Associati s.r.l, una società informatica che si occupa di strategie di rete, e, soprattutto, co-fondatore con Beppe Grillo del Movimento Cinque Stelle, la più grande novità politica degli ultimi decenni. Casaleggio è il curatore del blog di Grillo, il blog più visitato al mondo nonchè principale organo di divulgazione delle idee del Movimento, che ha garantito ingenti guadagni alla Casaleggio Associati. Nato nel 2009, nel giro di pochi anni il Movimento di Casaleggio e Grillo è riuscito a diventare la prima forza politica del Paese raggiungendo ben il 25% dei voti alle politiche di Febbraio scorso. Con il vanto di non aver mai fatto uso di soldi pubblici per la campagna elettorale e soprattutto di aver utilizzato la Rete come unico strumento di aggregazione collettiva rifiutando canali di comunicazione tradizionali come giornali e televisioni.
Il messaggio della Rete come entità quasi esoterica in grado di nobilitare il popolo con la Verità che viene invece distorta dai media tradizionali, ha abbindolato milioni di italiani avviliti dalla crisi economica e dal marciume della politica tradizionale.   
Ma cosa c’è di vero in tutto ciò? Ben poco, a dire il vero.
Per definizione, la presunta Rete tanto idealizzata da Casaleggio e Grillo dovrebbe essere un medium senza gerarchie, dove le opinioni di qualsiasi individuo abbiano lo stesso valore, in senso utopisticamente iper-democratico. Ma Casaleggio non utilizza la Rete come piattaforma di condivisione delle idee, quanto come un diretto replacement del mezzo televisivo. La comunicazione di Grillo sul suo blog avviene infatti secondo i dettami del binomio leader-popolo che ha fatto la fortuna, ad esempio, dello stesso Berlusconi: sul blog di Grillo non c’è vera condivisione di idee, soltanto i post del leader che si guarda bene dal rispondere ai centinaia di commenti che piovono a cascata.  L’identificazione leader-partito (di nuovo, elemento tipicamente berlusconiano) è confermata anche dall’assenza di un vero e proprio sito/piattaforma per il Movimento Cinque Stelle, che si appoggia infatti al sito di Grillo. Il discusso divieto ai grillini di partecipare ai talk show televisivi, ipocritamente giustificato come un rifiuto snobistico dei vecchi media asserviti al potere, è piuttosto un chiaro tentativo di mantenere la centralità del Movimento sul suo leader ed evitare che qualcuno degli iscritti riesca davvero a farsi notare al pubblico di massa.
La Rete utilizzata come broadcaster delle idee di un singolo non si discosta affatto dalla televisione tradizionale, poco conta se venga fruita su uno schermo tv o su quello di un laptop.
Lo stesso Beppe Grillo non è affatto un personaggio della Rete. Nato come creatura di Antonio Ricci (il creatore di Striscia la notizia, ovvero della subdola fasulla informazione alternativa dell’era berlusconiana), Grillo si è affermato infatti come ruspante personaggio televisivo fino alla sua epurazione dalla Rai avvenuta nel 1986 a seguito di una battuta sui socialisti. Ma la cacciata dalla Rai è stata la sua fortuna piuttosto che una prematura rovina. "Mi si nota di più se non vengo o se vengo e sto in disparte", chiedeva Nanni Moretti in Ecce Bombo. E’ chiaro come Grillo abbia fatto valere la prima ipotesi, rafforzando il suo mito di personaggio scomodo e vittima dell’establishment tradizionale che ne ha decretato poi la fortuna come politico.
Il contrasto tra rigida gestione verticistica e l’ipocrisia della iper-democrazia garantita dallo strumento Rete è il vero punto di forza della strategia di Casaleggio, che gli ha consentito uno spaventoso consenso sulle masse. Ma Casaleggio è un imprenditore, e come tale fa l’interesse della sua azienda. La cosa spaventosa è come sia riuscito a “vendere” il prodotto politico assicurando alla sua azienda un vertiginoso potenziale di guadagno ed espansione non ancora utilizzato.
L’imprenditore milanese ha saputo sfruttare una serie di fattori favorevoli al suo inedito progetto di "marketing politico"; la classe politica più indecente d’Europa, la crisi economica,  la generale ritrosia del popolo di massa di fronte alle novità tecnologiche (così da bersi qualsiasi favola sul loro straordinario potere e capacità di migliorarci). Conscio del fatto che in un popolo di cialtroni vince chi urla di più, ha scelto come suo portavoce un comico dalla voce tonante, già noto per l’attenzione ai temi sociali presente nei suoi spettacoli, dotato di straordinaria capacità dialettica. Inoltre, il suo portavoce è un personaggio  dalle mille contraddizioni,  in grado di fungere da specchio per le allodole di giornalisti/giornalai a caccia di sterili polemiche sulla presunta integrità morale dei leader politici, così da lasciare in secondo piano la strategia della Casaleggio Associati. Ha portato in Parlamento un esercito di sbarbatelli  tanto volenterosi e onesti quanto inconcludenti e inetti e per questo facilmente manovrabili, facendo comunque la gioia di tanti elettori esausti dalle facce rugose dei vecchi parassiti della Seconda Repubblica.
In tal modo, ha creato un impressionante bacino di utenti manipolabili dalla Casaleggio Associati senza che la quasi totalità di loro –qui è la vera novità- sia consapevole di ciò. Il genio sottile di Gianroberto Casaleggio è stato quello di rimanere in disparte, di manovrare i fili del suo progetto politico senza che nessuno lo conoscesse, volontariamente messo in ombra dalla personalità debordante del suo portavoce.  Nove elettori su dieci non sanno neanche chi sia, identificano Grillo come il vero motore/artefice del Movimento Cinque Stelle, e fino al famoso fuori onda del grillino Giovanni Favia (che ha parlato di totale assenza di democrazia interna al Movimento, con una gestione di Casaleggio spietata e vendicativa) nessuno aveva davvero un’idea chiara di quale fosse il suo ruolo.
Non sappiamo quali siano i piani di Casaleggio, se il suo rifiuto di formare un governo con il Partito Democratico, che pure ha scontentato molti elettori, sia parte di una strategia studiata in dettaglio o solo un grossolano errore. Non sappiamo quanto sia autentico il suo atteggiamento da silenzioso e schivo guru esoterico, quasi una specie di Steve Jobs con i capelli lunghi. Non sappiamo quale sia la vera finalità del progetto politico della Casaleggio Associati, come sfrutterà il suo enorme potenziale di vendita.
Quel che è certo, è che Casaleggio è implicitamente implicato in un conflitto di interessi non troppo diverso da quello di Berlusconi, con il vantaggio però di esserne formalmente fuori in quanto ufficialmente assente dalle istituzioni. E per questo più pericoloso.
Ma se il paragone con Berlusconi è complesso e forse prematuro, è chiaro come il sole che ci siano elementi di forte differenza tra i due. Il fine ormai evidente della discesa in campo del leader di Arcore era stato la salvaguardia delle sue aziende dal fallimento e la sua impunità giudiziaria. Casaleggio non è coinvolto in cause giudiziarie e la sua azienda non ha ufficialmente dimensioni paragonabili a quelle di Berlusconi. Ma l’ovvio fine del tornaconto economico si accompagna ad ipotesi più ambigue che hanno fatto fiorire una serie di ipotesi complottistiche. La più diffusa è quella che Casaleggio sia guidato dal Gruppo Bilderberg, e faccia dunque gli interessi della finanza internazionale.
Ma quello che invece ci preme sottolineare è la presenza, nel sito della Casaleggio Associati, di alcuni video che raccontano l’impatto dei mezzi di comunicazione nella storia della politica, dall’impero romano a Barack Obama. In uno di quei video, Casaleggio prevede lo scoppio di una terza guerra mondiale tra le democrazie dell’Occidente con libero accesso alla Rete e i regimi asiatici. Tale guerra durerebbe un ventennio e sarebbe combattuta con armi batteriologiche, fino a ridurre ad un miliardo di individui la popolazione umana. Il video termina con l’avvento nel 2054 di un governo planetario retto da un sistema di democrazia diretta  basata sulla Rete.
Sebbene nel corso di un'intervista lo stesso Casaleggio abbia definito questo video  un “gioco”, non ci lascia indifferenti il fatto che a mostrare una tale visione del futuro sia una persona con alle mani un enorme bacino di clienti/utenti inconsapevoli e per questo pericolosamente in grado di fondare nuovi totalitarismi.
E poi, in semplicità, quanti elettori del Movimento Cinque Stelle sanno di avere dato il voto ad un uomo che prevede la terza guerra mondiale tra sei anni a questa parte? 

martedì 27 agosto 2013

È tornata

È rientrata quatta quatta dalla porta di servizio, ha attraversato casa in punta di piedi e si è lasciata cadere sul divano. Ti sei voltato e –ahimè- l’hai vista. E pensare che per un attimo, poco tempo fa, hai pensato addirittura di esserti liberato di lei, che avesse fatto i bagagli e fosse fuggita via per sempre. Povero scemo. Lei era fuori dal portone ad aspettare il momento opportuno per scivolare di nuovo in casa, e adesso e già lì che si mette comoda, sistema un cuscino dietro la testa, stende le braccia sui braccioli, accavalla le gambe con ridicolo atteggiamento osè.  Ti osserva con i suoi occhi beffardi e aspetta forse che tu le dica bentornata. Che insolente! E pensare che una parte di te è quasi lì per farlo. E’ la parte di te più timorosa e fragile, quella che ama l’odore stantio delle lenzuola di notte e il suono mellifluo delle parole nei ricordi e il ritmo sterile dei vizi e delle abitudini mai sopite.
Le volti le spalle ma senti i suoi occhi addosso, ne vedi il riflesso sullo schermo lattiginoso del portatile su cui scorrono i soliti video visti mille volte, aspiri il suo odore tra l’aroma rancido delle suppellettili invecchiate e del legno impolverato,  ascolti il suo respiro mescolarsi con il ronzio del frigorifero e gli sbuffi della caldaia mentre cerchi di ricordare che suono fa il tuo cellulare.
È la tua coinquilina e non la puoi cacciare, nessuno l’ha invitata ma lei è lì. E lo sarà per sempre.
È sgraziata e arrogante, infida e vile, maleodorante e subdola, strega e disfattista.
È una brutta puttana.
Lei, la solitudine.


giovedì 18 luglio 2013

Questa è una storia stupida e banale

Questa è una storia stupida e banale, talmente insulsa che non vale neanche la pena di mettersi a raccontarla... infatti mi sa che non la racconterò, scusate il disturbo, arrivederci e grazie e buona serata...
...no, dai, ho cominciato e devo finire, anche se non mi va, questa storia è così sciatta che non vedo proprio perchè perdere tempo a scriverla, e tantomeno voi a leggerla, però ho iniziato, e non voglio fare come le due facce di cazzo dei protagonisti della storia stessa, che iniziano le cose e le lasciano a metà...
Dài, un compromesso, la racconterò, ma in poche righe, pochissime righe, che bastano e avanzano. Perché cercare a tutti i costi di rendere complessa e affascinante una vicenda che non lo è? Perché barcamenarsi tra metafore e anacoluti e sinestesie per abbellire una storia che tale cura non se la merita?
Dai, ecco la storia. Poche righe, non di più.
E’ la storia di due facce di cazzo di nome Silvano e Priscilla.
I due si conoscono all’ippodromo, lui le suggerisce un cavallo vincente, e grazie a quella soffiata lei vince trecentomila lire. Lui le lascia il numero  di telefono dichiarandosi disponibile per altri suggerimenti, dopo qualche giorno lei lo chiama invitandolo per un caffè a casa sua. Da quel giorno cominciano a vedersi, il pomeriggio, dopo lavoro. Dopo un paio di settimane lui la invita a cena, poi vanno a camminare sul lungomare, si baciano, vanno a casa di lui eccetera eccetera.
A Priscilla, Silvano piace tanto. Dice che è sensibile, carino, speciale, e vorrebbe trascorrere tutto il suo tempo con lui. Però dice anche che è tanto diverso da lei, ha una personalità quasi opposta, è estroverso e compagnone e logorroico mentre lei è un po’ chiusa, riservata e silenziosa. Una relazione con lui non potrebbe durare, insomma.
A Silvano, Priscilla piace tanto. Dice che è sensibile, carina, speciale, e vorrebbe trascorrere tutto il suo tempo con lei. Però dice anche che è tanto diversa da lui, ha una personalità quasi opposta, è chiusa, riservata e silenziosa mentre lui è estroverso, compagnone e logorroico. Una relazione con lei non potrebbe durare, insomma.
Anche gli amici di Priscilla e Silvano dicono che sì, forse quel/quella ragazzo/a non fa per lei/lui, sono troppo diversi, non durerebbe. Si stancherebbero presto, finirebbero per odiarsi, finirebbero per mettersi le corna a vicenda. E gli amici sanno tutto, hanno sempre ragione, sono super-saggi e vedono le cose che loro non riescono a vedere, dicono Priscilla e Silvano.
E così Priscilla e Silvano continuano a vedersi, passeggiano o vanno al cinema, a volte vanno a letto insieme, il pomeriggio, poi ognuno torna a casa propria. Non è male trascorrere il tempo insieme, i due si piacciono, ma non se lo dicono troppo, evitano i tramonti sul mare e le paroline sussurrate all'orecchio al chiaro di luna. Non vogliono che l'altro inizi a pensare ad una possibile relazione, perchè una relazione no, non potrebbe durare, questa parola è così boriosa e si trascina uno strascico di responsabilità e complicazioni che due persone come loro, così diverse, non sarebbero certo in grado di condividere.
Gli anni passano, Silvano mette su peso e perde i capelli, il viso di Priscilla si ricopre di rughe sempre più marcate e la sua chioma bruna diventa a poco a poco argentea. Però i due continuano a vedersi, anche se di meno, perchè sono stanchi, perchè non ce la fanno ad uscire spesso, preferiscono rimanere soli a casa.
Alla fine hanno ottant’anni, non stanno più tanto bene, sono malaticci, vivono da soli in appartamenti diversi, sono troppo stanchi per andare l’uno all’appartamento dell’altro e aiutarsi a vicenda. Smettono di vedersi e ognuno di loro si prende una badante.   
Ecco, fine della storia. Ve l’avevo detto, che faceva abbastanza schifo.  Pensavate ci fosse l’inganno, un leggendario colpo di coda finale? No, ero assolutamente onesto. Non c’è neanche un vero finale, nessun “...e vissero felici e contenti”. Semmai, (soprav)vissero e basta.
C’è chi si illude che una storia del genere possa caricarsi di pretestuosi sofismi, arcani significati e sociologia spiccia, ma credo piuttosto che il modo più onesto di raccontarla sia farlo così, in poche righe sciatte e disarticolate. L’enorme bagaglio di umori e sentori e tramonti e sorrisi e batticuori e lacrime che ogni rapporto tra esseri umani si porta appresso viene setacciato come farina appena uscita da una macina; ed ecco cosa rimane. Troppe persone vivono con un setaccio in mano, decidono di filtrare via tutto illudendosi di trattenere la crusca. La crusca sarà anche solida, ma è spesso grossolana, insapore e inutile. Come questa storia.

domenica 30 giugno 2013

Le pareti del tuo mondo

In una triste serata di fine maggio, una di quelle serate tanto temute che accartocciano i piani della vita come le pagine di un vecchio diario, Gennaro aveva preso i tramonti infuocati tra il valico delle colline e gli stormi di gabbiani che si librano sul cielo ardesia delle prime luci dell’alba, aveva preso il riflesso della luna piena sul mare calmo della notte, i granelli di luce pulsante dei cieli stellati, le farfalle sospese come fiori sui campi di grano agitati dal vento, li aveva presi tutti, li aveva rimossi con perizia dalla superficie liscia delle pareti del suo mondo tirandoli via come etichette adesive dai bordi ormai scollati. Dopodiché li aveva impilati l’uno sull’altro e infilati in una cartellina di cartone azzurro con una chiusura ad elastico.
Era dunque un mondo bigio e cinereo quello che gli era rimasto, in cui si ostinava a passeggiare mesto portandosi la cartella azzurra sotto il braccio. A volte, seduto su una panchina arrugginita a mirare il nulla, gli capitava di stringere la sua cartella forte sul petto, fiero di un tesoro che era solo suo e non lo avrebbe abbandonato. E sospirava aspettando il momento in cui sarebbe tornato a riattaccare sulle pareti del suo mondo le immagini che aveva con sé.
Ma poi arrivò l’inverno,  e durante una delle sue meste passeggiate fu colto da un temporale improvviso. Tornò a casa fradicio, e ahimè, la sua cartellina di cartone era anche zuppa e aveva ora la consistenza della carta velina. La aprì e vide che le sue preziose immagini erano ora imbrattate e confuse, con i colori dei tramonti e delle stelle che scivolavano via dalla superficie come tempere diluite.  Disperato, era lì per gettarle, ma si accorse di non esserne in grado. Le strinse forte al petto, scolorite e inutili.
Tornò la primavera e Gennaro riprese a passeggiare per il suo mondo grigio con la cartellina sgualcita sotto il braccio. Un giorno la panchina arrugginita su cui era solito sedersi non era vuota. C’era una ragazzina dalle ossa minute, i capelli raccolti e gli occhioni limpidi come rugiada.
Cosa stringi al petto, chiese la ragazzina a Gennaro quando lui si fu seduto.  
Niente, rispose lui timido.
E’ una cartella rovinata e scolorita, disse lei.
Gennaro alzò le spalle e se ne andò.
Il giorno dopo la ragazzina era ancora seduta lì. Gennaro fece per passare avanti, ma poi, senza spiegarsene il motivo, finì per sedere di nuovo al suo fianco.
Mi chiamo Martina, disse lei.
Io sono Gennaro, rispose lui.
Lei gli chiese di nuovo cosa fosse quella cartella.
Sono cose vecchie, niente di importante, disse Gennaro evitando di guardarla negli occhi.
Se non hanno alcun valore, perchè continui a stringerle al petto, chiese lei. Gennaro era lì per rispondere quando Martina con una mossa fulminea gli strappò via la cartella dalle braccia.
Ridammela, protestò Gennaro. Ma la ragazzina si era già alzata in piedi e aveva tirato via l’elastico. Una dopo l’altra aveva passato in rassegna quelle immagini imbrattate e confuse, con colori slavati e ormai spenti, e si era voltata verso Gennaro con un’espressione interrogativa sul viso. Dopodichè, con un gesto improvviso aveva lanciato quelle pagine per aria. Il vento aveva disperso rapidamente le vecchie immagini di Gennaro tra gli angoli remoti di quel mondo cinereo e livido.
Perché lo hai fatto, chiese Gennaro disperato, e corse via piangendo.
Quando il giorno dopo tornò a sedersi sulla panchina arrugginita, stavolta senza la cartella, Martina gli strinse forte la mano.
Perchè tenevi tanto a quella cartella, gli chiese.
Perchè c’erano le immagini del mio mondo lì dentro, rispose lui, adesso tu le hai gettate via e guarda cosa mi è rimasto. Non ci sono altro che pareti livide intorno a me, il cielo stesso è una parete, ed è così plumbeo e ferrigno che non lo distinguo più dal marciapiede. E’ un grigio che mi acceca, e non c’è nulla che io possa fare.
In quella cartella avevi solo vecchi fogli, disse Martina, non ha alcun senso illuderti di poter riattaccarli alle pareti. Hanno i bordi accartocciati e finirebbero per non fare presa, cadrebbero a terra.
E dalla borsetta di feltro che aveva al suo fianco estrasse un astuccio viola rotondo. Lo aprì, e ne tirò fuori un pastello di cera azzurro. Lo diede a Gennaro, e guidandogli la mano, gli fece disegnare una linea orizzontale sulla parete davanti.
Guarda, gli disse, adesso c’è una linea che separa il cielo dal marciapiede, adesso puoi distinguerli. E, sempre tenendo la mano di Gennaro nella sua, iniziò a colorare di azzurro la parete grigia davanti alla loro panchina. Quando ebbero riempito di un colore ancora abbozzato e vago una porzione sufficiente della parete, Martina estrasse un pastello bianco, e disegnò una virgola sulla superficie ormai azzurrognola.
Basta poco a disegnare un gabbiano, disse, è più facile di quel che credi.

Da quel giorno, Gennaro ha ricominciato a disegnare le pareti del suo mondo. Con colori nuovi, con tratti differenti. Martina gli tiene la mano mentre prova a tratteggiare i contorni sfocati del tramonto, le linee oblique delle spighe di grano, l’alone tremolante del fuoco e delle stelle. Man mano che Gennaro disegna e colora, a poco a poco la sua pelle si fa più ruvida, il suo sorriso più stanco, i suoi capelli più radi. Un giorno dovrà smettere e non gli resterà altro che rimirare il suo cielo stellato. Sa già che non sarà perfetto, che le stelle non saranno poi così luminose, che non sarà grande come avrebbe voluto. Ma sarà felice lo stesso. 
Perché pare che le stelle siano infinite, e quelle che non riusciamo a vedere possiamo solo limitarci a sognarle.   


domenica 16 giugno 2013

I fili

Tante volte abbiamo sentito dire che ci sono fili invisibili che uniscono le persone che si vogliono bene. Non si vedono, ma tutti sanno che ci sono.
C’è un certo Pasquale che ha il potere di vederli, quei fili. A sentire le sue descrizioni, ognuno di loro sembra fatto di nylon, ha sfumature bluastre, e vien fuori da un poro qualsiasi della pelle. Lo vede spuntare ad esempio dal sopracciglio sinistro di un uomo sulla trentina seduto al ristorante con la sua bella davanti, lo vede attraversare i pochi centimetri che lo separano dal labbro inferiore di lei, ora aperto ad un sorriso impacciato e commosso mentre osserva l’anello che lui, finalmente, le sta offrendo davanti al piatto di capesante gratinate.  Lo vede unire il neo sul collo della sua anziana vicina di casa con il mignolo artritico del consorte ottantenne seduto in poltrona con il plaid sulle gambe e il giornale davanti mentre lei si dà alle pulizie domestiche. Lo vede spuntare dal mento della cugina diciottenne affacciata alla finestra del terzo piano, e scender giù fino alla strada e finire sul gomito destro del suo riccioluto compagno di banco che strimpella la chitarra per lei.
A volte quei fili sono più solidi e resistenti dell’acciaio, a volte si sfibrano come seta usurata. E si rompono anche. Le distanze non contano, ci sono fili che rimangono tesi anche quando uniscono persone in diversi continenti scavalcando montagne oceani e foreste,  altri che si rompono con un semplice strattone anche tra persone che vivono sotto lo stesso tetto.
Molti dicono che quei fili nascono dal cuore, ma Pasquale sa bene che non è così, che sono solo sciocchezze da agenda Smemoranda. Quei fili nascono dallo stomaco, e ne tirano le pareti quando diventano tesi. Per questo si ha quel senso di vuoto dentro quando la persona a cui sei unito è lontana ma il filo continua a tirare.
Molti dicono anche che il mondo è pieno di solitudine e indifferenza. Eppure, ogni volta che Pasquale attraversa la città si trova a fronteggiare un groviglio inestricabile di fili che spuntano dalle finestre dei palazzoni ai lati della strada, dagli abitacoli delle auto in coda davanti al semaforo e persino dai passanti che si riversano sui marciapiedi con le buste bianche della spesa.  Un vero e proprio percorso ad ostacoli per Pasquale, che saltella, inciampa, scavalca, abbassa la testa per districarsi e non essere strangolato dai fili più tesi e robusti. A volte ne è infastidito ed è preso da manie distruttive, si appende ad uno di loro con tutto il suo peso ma finisce solo per farsi del male al palmo della mano, oppure prova a calpestarli, a strapparli con le mani.
Capita anche che ci riesca. Come quella volta con Camilla, una graziosa dirimpettaia il cui filo che la univa al panettiere sotto casa era per Pasquale motivo di autentico struggimento. Quel filo maledetto gli passava proprio davanti alla finestra, uscendo dall’appartamento al piano inferiore e perdendosi tra le ginestre del balconcino di Camilla. All’inizio aveva provato a tagliarlo con un paio di forbici,  ma non ci era riuscito. Una sera li aveva sentiti litigare dal piano di sopra. Non era riuscito a cogliere le parole, ma si era reso conto che Camilla rispondeva imbronciata al tono insolente delle domande di lui. Dopodichè aveva udito il portone di casa sbattere, e Camilla era tornata a casa sua risalendo le scale di corsa. Quella sera il filo che usciva da casa del panettiere e finiva nell’appartamento di Camilla sembrava più fragile e allentato che mai. Pasquale si era sporto dalla finestra e l’aveva afferrato con una presa secca. Immediatamente il filo si era spezzato. Pasquale l’aveva dunque tirato a sè e collegato con il filo che gli penzolava dalla coscia destra con un semplice nodo a fiocco. Finalmente c'era un filo che lo univa a Camilla!
Ma Pasquale aveva capito ben presto di non essere poi così bravo a maneggiare i fili degli altri. Si era aspettato che facendo un bel nodo stretto, le due estremità finissero per fondersi come i lembi di pelle di una ferita curata. Ma dopo un paio di uscite serali con Camilla si rese conto che non solo il nodo era ancora lì, ma sembrava essersi allentato. Alla fine, stanco, decise di dargli uno strattone. Gli rimase il mano il suo filo mentre quello di Camilla scivolò via rapido come il cordone di lattine vuote che certi sposi attaccano alla loro vettura il giorno del matrimonio.

Pasquale ha ancora il suo filo, quello che gli spunta dalla coscia destra e aveva provato senza successo ad annodare al filo di Camilla.  Ma tale filo è spezzato da anni, da una plumbea serata invernale di qualche anno prima, una serata da geloni e neve rancida in cui la sua lei gli aveva chiuso la porta in faccia lasciandolo al freddo. Da quel giorno il filo reciso lo segue mesto come lo strascico di un vestito da sera, quando si riversa sulle strada e si fa in quattro per districarsi nella ragnatela dei fili degli altri. A volte si siede su una panchina, prende il filo in mano e lo agita in aria come un lazo, sognando magari di accalappiare qualcuno come fanno i gauchos sudamericani con tori e cavalli. Ma sa bene che si tratta di un’illusione. Il filo che ha in mano è reciso da tempo.  A poco a poco si ritirerà all’interno dello stomaco e sparirà.
Si stende sulla panchina e guarda il cielo. Due nuvole grigio perla giocano ad oscurare i raggi del sole che gli piombano sul viso e lo costringono a chiudere gli occhi. Pasquale pensa al suo filo reciso morto e penzolante come un tulipano dallo stelo spezzato. Pensa che senza un filo che ci unisce a qualcuno, siamo tutti destinati a vagare senza meta come trottole impazzite. E alla fine sorride. Si chiede se spunterà sotto l’ascella o sulla punta del naso o tra le dita dei piedi. Il prossimo filo, intendo.   


martedì 28 maggio 2013

La passeggiata del Divo


Ok, Paolo Sorrentino non ha vinto premi a Cannes quest’anno. Non abbiamo ancora visto La grande bellezza, ma in fondo non ci sorprende che il presidente di giuria Steven Spielberg non si sia fatto contagiare dal fascino dell’unico film italiano in concorso. Spielberg e Sorrentino sono infatti due cineasti decisamente antitetici; il cinema del gigante hollywoodiano è ottimista, fanciullesco e irrazionale  tanto quanto quello di Sorrentino è  meditabondo, cupo e sottilmente nichilista. Eppure, a ben pensarci li accomuna la forza visionaria, il massimalismo espressivo, il talento di creare immagini assolutamente inedite, la capacità di dare forma ai sogni più audaci: Paolo Sorrentino rimane il più talentuoso dei cineasti di casa nostra, l’unico che possa essere accostato a nomi gloriosi del passato come Fellini, Antonioni o Ferreri senza urlare alla lesa maestà.
Lo vogliamo omaggiare con una scena de Il Divo, il miglior film italiano del decennio scorso, premiato proprio a Cannes nel 2008. Ci riferiamo a quella che a nostro parere è la scena migliore del film (inizia al minuto 1:15 nel video in basso): la passeggiata notturna di Andreotti nella Roma deserta. Il Divo che cammina con andatura compassata sul marciapiede, mentre la scorta lo segue silenziosa come il corteo di un funerale con le auto dai lampeggianti blu. Il Divo si ferma per qualche istante a leggere un’invettiva su di lui e Craxi scritta con la vernice sul muro del palazzo adiacente. Il capo scorta fa un cenno al suo collega come a chiedere il motivo di quella pausa, ma Andreotti riprende impassibile la sua mesta passeggiata e l’intera scorta può rimettersi in moto, mentre la musica di Teho Teardo che accompagna l’intera scena si arricchisce di un coro polifonico. Una colonna sonora che ricorda atmosfere alla Nino Rota (Il Padrino, per intenderci). C’è tutto in questa scena: l’impenetrabilità di un personaggio che è anche l’impenetrabilità di una parte della nostra Storia recente, il fascino senescente e dimesso di un Paese in declino, l’impalcatura grottesca delle istituzioni. La Roma funerea di Sorrentino, illuminata solo da lampioni sfocati che sembrano sospesi in cielo come miraggi, è allo stesso tempo la gloria e la tomba del nostro Paese bello e inutile

domenica 26 maggio 2013

Matteo Renzi in inglese



Nonostante la cattiva qualità audio del video pubblicato da repubblica.it (http://video.repubblica.it/edizione/bologna/matteo-renzi-show-in-inglese-when-i-met-obama/129584/128087?ref=HRESS-1), abbiamo provato a trascrivere con scrupolo filologico una parte del discorso in inglese di Matteo Renzi al Bologna Center per la conclusione dell’anno accademico del master in relazioni internazionali della John Hopkins University:

...from my city, from Florence. And... there is one from my country, from my country that we have been experiencing from, for one year, the last year. Ehm… forfflo… we start froffro… I’m the mayor of Florence, okay. When I met for the first time, and also the last time, the president Obama… just… one seconds, more or less… because… I was invited by United States National Conference of Mayors… for a meeting.. en in White House… I… shaking hand with president Obama and… “Nice to meet you mister President, I am the mayor of Florence, Italy…” “nice to meet you… Really?? Are you… the mayor of… Florence, Italy??” “Ehh ehm… sure…” “Oh, the city with the best restaurants in the world…” “I’m not sure…” (parola non identificata) against president Obama is not good… Maybe… I cannot speaking about tortellini or tagliatelle with the president Obama… but… it’s a very (parola non identificata) because when I come back in my city few people told me “Oh, next time you must say we have also the David, not only the food”. Yes, but is Florence is not only a city of culture… this is mobile… this is mobile very usual in Italy…  Apple, there is Samsung, there is… few smartphone. In the next four years we… we will have… more or less… four point five million of mobile, but the first telephone was created exactly in my city, in Florence…

Tralasciamo scontati commenti sulle qualità poco oxfordiane dell’inglese renziano, tappezzato di  farfugliamenti, refusi e plurali arbitrari ma comunque meno osceno di quanto udito, ad esempio, da un La Russa o un Berlusconi o tanti sedicenti Ministri degli Esteri dei governi passati. Sono piuttosto altri aspetti che colpiscono in questo inusuale discorso dell’astro nascente del paraculismo italico, il gggggggiovane politico rottamatore che salverà il Belpaese, il Fonzie alla maremmana in giacca di pelle dei tv-show della De Filippi, l’individuo che, nonostante tutto, è forse – ahimè- tra i meno deprecabili  cui si possa associare l’ambigua parola di carisma nella disonesta e sempre aperta caccia ai voti.
Innanzitutto,  l’ennesima sconsolata presa di coscienza dell’incapacità di parlare dell’Italia agli stranieri senza rifugiarsi nei soliti cliché turistico/culinari, tanto più fastidiosi perché vengono da un personaggio delle istituzioni. Renzi incontra Obama e parla di ristoranti, poi riflette da solo su tortellini e tagliatelle e sul fatto che a Firenze oltre ai ristoranti c’è anche il David. L’Italia della buona pasta e dei monumenti da cartolina, un pavoneggiamento di banalità che forse fa gongolare quegli stranieri per cui lo Stivale non è altro che un immenso villaggio vacanze. Ed è proprio ad un mediocre animatore da camping che fa pensare il Matteo Renzi di questo video, basti sostituire Obama con un più abbordabile divo americano delle grandi masse e il patetico show è bell’e pronto.  Ok, era solo un hook, un modo brillante per introdurre discorsi più seri che non sono riportati nel video di repubblica.it, dirà qualcuno. Ma non è dunque possibile fare un po’ d’ironia sull’Italia senza bistrattarla come sterile collezione di cliché? E’ forse troppo pretendere qualche annotazione più acuta e originale sul nostro Paese che non vada semplicemente a ripetere alle orecchie degli stranieri ciò che hanno già udito milioni di volte? Racconta al popolo ciò che già sa e vuole farsi sentire, e il popolo sarà con te, diceva qualcuno, è il principio base del populismo, e forse Renzi lo conosce molto bene. 
In uno show che riecheggia a tratti l’imbarazzante monologo di Silvio Berlusconi sull’Italia del sole e dei musei (la storica seduta del 2003 al Parlamento Europeo, quella dello Schultz kapò per intenderci), c'è anche una conferma forse inconscia, quasi un lapsus freudiano, dell'immagine obsoleta e cartolinesca che Renzi ostenta del suo Paese: il Matteo nazionale vuole introdurre Antonio Meucci e per farlo chiude il siparietto cabarrettista con un “but Florence is not only a city of culture”. Ebbene, qualcuno dovrebbe forse chiedere al signor sindaco di Firenze cosa sia per lui la cultura, perchè ad emergerne è una visione conservatrice, schematica e tutto sommato ignorante. Non sappiamo se Renzi sia ignorante o meno. Di certo, è ignorante l’atteggiamento da imbonitore da fiera paratelevisivo con cui va a menzionarla, la cultura. Forse per Renzi la cultura è solo quella dei biglietti del museo e delle guide turistiche, se pensa, ad esempio, che l’enorme bagaglio di conoscenze sull'elettromagnetismo maturate dal suo illustre concittadino e che hanno portato all’invenzione del primo telefono non sia cultura, ma sia altro. 
Infine, lascia riflettere l’incontro Renzi-Obama, il loro primo e ultimo incontro durato solo one seconds durante una sedicente United States National Conference of Mayors. Un Renzi più umano e dunque simpatico, penseranno in tanti, che lascia da parte il fare spavaldo e saccente dei talk show e si fa piccino di fronte ad uno dei giganti della politica mondiale. Ma la mimica gesticolante da Bagaglino e l’insistito deviare su ristoranti tagliatelle e tortellini lasciano intendere un’indole sottilmente servile piuttosto che una sana umiltà. Un'ostentata ricerca della risatina di pancia a tutti i costi, che però non riesce certo a camuffare una sacrosanta verità: l’imbarazzo davanti al potente è quello dei servi, non degli umili. Così come caratteristica intimamente servile è lo sfoggio di un orgoglio narcisista quando il potente è assente. Ancora una volta, è l’italietta a metà tra folklore e orrore di cui parlava Jerzy Stuhr nel Caimano ad emergere, tanto più desolante perchè suggerita da un acclamato esponente delle nuove generazioni.
Che sia solo questione di qualche decennio, il tempo che l’andropausa inizierà a rodere il suo orgoglio come una tarma, e nei suoi siparietti appariranno ciulatine con cameriere e culone inchiavabili?


sabato 27 aprile 2013

Maccio Capatonda



L’abruzzese Marcello Macchia (in arte, Maccio Capatonda) è diventato famoso in tutta Italia con una serie di brevi video inizialmente trasmessi in tv dalla Gialappa’s e poi diventati oggetti di culto su youtube, dove registrano migliaia di visualizzazioni ogni mese.  Finti trailer concepiti come parodie dei più popolari generi d’intrattenimento, dal thriller al melodramma, dalla fiction agiografica alla commedia natalizia. Ma anche finti servizi di cronaca nera, spot pubblicitari in stile Carosello, videoclip, miniserie, sketch e tanto altro. Una mole impressionante di video caratterizzati da ribaltamenti iberbolici del senso comune, svarioni linguistici, giochi tautologici e derive nonsense, dove interpreti dalla discutibile fotogenia creano personaggi strepitosi come il plurirattristato Mariottide (pungente parodia dei lagnosissimi cantautori partenopei), il citrullo Herbert Ballerina, il viscido Rupert Sciamenna e l’isterica Anna Pannocchia.
In particolare Mario, una serie in diciotto puntate prodotta da MTV, è in un certo senso il suo canto del cigno. La serie racconta la storia del pluritelegattato conduttore di un telegiornale nazionale che viene acquistato dalla Micidial Corporation, una losca multinazionale che impone i propri sponsor e che è forse responsabile della sparizione del precedente direttore. Mario si trova dunque costretto a condurre il telegiornale in condizioni sempre più ristrettive e umilianti, e allo stesso tempo deve indagare sui misteri della Micidial. Oltre a portare avanti l'intricata vicenda, ogni puntata offre anche numerosi servizi giornalistici in puro stile Capatonda.
Mario e in generale i video di Maccio Capatonda sono sicuramente perfetti per una serata pizza e birra con gli amici, magari con un proiettore e un laptop connesso a youtube. 
Eppure, ci sembra di scorgere nei giochi linguistici e nel nonsense di Maccio Capatonda ben altro che un semplice divertimento goliardico. In un Paese in cui la cui comicità è fossilizzata tra i soliti regionalismi nord/sud e la scatologia da cinepanettone, Maccio Capatonda è forse l'unico a proporre qualcosa di assolutamente nuovo. E graffiante. Prende di mira conflitto d’interessi,  lo strapotere manipolatorio del mezzo televisivo, la corruzione e la malpolitica, la meschinità e l’ipocrisia, la retorica nostalgica da come eravamo, l’instupidimento generale e l’oscenità da prime time. In altre parole, prende di mira l’Italia. E lo fa con uno stile inedito, caleidoscopico e sulfureo, tra echi di commedia demenziale alla David Zucker e deviazioni surreali che forse non sarebbero dispiaciute a Buñuel. Si ride con ferocia, e alla fine ci resta in faccia un ghigno che fa male; il mondo-incubo raccontato da Maccio Capatonda non è poi così lontano da quello reale. 
Quella di Maccio Capatonda è la comicità più tagliente e originale che si sia vista in Italia dai tempi dei primi Fantozzi. Che qualcuno se ne accorga e gli dia lo spazio che merita. 



domenica 21 aprile 2013

Le feste danesi



I danesi amano le feste, che non sono un semplice svago ma una componente fondamentale dell’idillio sociale del loro Paese, un autentico sigillo di benessere. Le adorano al punto che le organizzano con mesi di anticipo, pianificandole nei minimi dettagli con la stessa serietà con cui affronterebbero l’incontro con un Capo di Stato o con il CTO dell’azienda di cui sono dipendenti.  Non ci riferiamo a festicciole del sabato sera, ma ad eventi di scala più grande che coinvolgono decine di persone, ad esempio Sommer fest o Julefrokost.
Tali eventi non si esauriscono in una cena o in un buffet di poche ore, ma hanno un programma molto elaborato. Di solito si comincia con un’attività pomeridiana, il bowling o il tiro con l’arco o l’arrampicata sportiva o la gita in canoa o la corsa sui go-kart o il tiro alla fune o lo sci nautico nel fiordo o chi più ne ha più ne metta. I vari centri sportivi disseminati ad ogni angolo delle varie città sono ben organizzati per accogliere gruppi di dimensione eterogenea e garantire loro un’offerta con assicurato livello di divertimento e soddisfazione. Si privilegiano gare in cui i visitatori vengono divisi in diverse squadre che si scontrano le une con le altre. Di solito, a metà dell’evento c’è una pausa di mezz’ora in cui ci riunisce davanti ad un tavolo pieno di patatine e snack al formaggio, si beve una o due Carslberg e si parla e si ride tutti insieme prima di tornare a gareggiare.  Il tempo dedicato all’attività pomeridiana ad un certo punto scade, e ci si sposta in autobus o con la macchina in un ristorante o in un parco (se siamo in primavera o estate), dove avrà luogo la seconda parte della festa, una cena o un barbecue.  Ad esempio lo Julefrokost –il pranzo/cena di Natale- è tipicamente un buffet con  frikadeller, flæskesteg,  fiskefilet con remoulade, pane nero con aringhe, calamaretti surgelati e uova sode, pølser con ketchup maionese o senape, risalamand (un dolce a base di riso e amarene), e il gløgg (una specie di variante locale del vin brulé). Di solito non si ha la possibilità di scegliere autonomamente il posto a sedere, ma questo viene assegnato con criterio casuale (pescando un numero a cui è associato un posto a tavola) o pseudo-casuale (cioè deciso in anticipo dagli organizzatori in modo da far sedere vicini individui che hanno scarsa possibilità di interagire nella loro quotidianità e dar loro modo di conoscersi meglio). In alcuni modelli particolarmente avanzati di organizzazione, il posto a sedere viene cambiato durante il corso della serata in modo da stabilire un nuovo grafo di connessioni tra persone. Ma la cena/buffet/barbecue non si esaurisce nel mangiare e nel chiacchierare con i propri vicini di posto. Gli organizzatori  preparano anche una serie di giochi di gruppo per riempire i tempi vuoti di una serata che altrimenti potrebbe addirittura risultare noiosa. Ad esempio il gioco dei mimi, in cui i gruppi ai diversi tavoli si sfidano nell’indovinare un personaggio o il titolo di un film, o quiz musicali in cui riconoscere il titolo di una canzone, o giochi di abilità (ad esempio, costruire un castello di carte o di stecchini). Alla fine la squadra migliore (e a volte anche la peggiore) viene premiata,  l’intrattenimento termina con studiato tempismo e la festa prosegue secondo i dettami di un programmatico volemose bene.
L’obiettivo degli organizzatori  è naturamente rinforzare lo spirito di gruppo e allo stesso tempo garantire all’invitato un’esperienza totalitaria e piacevole che mantenga alto il suo livello di benessere. Un’organizzazione molto pignola è assolutamente necessaria a garantire la positività dell’evento. Senza calcolare al minuto il tempismo delle varie attività c’è il rischio infatti che l’invitato si trovi a subire tempi morti o si senta addirittura smarrito.  Il divertimento servito su un piatto d’argento, insomma, da un gruppo di organizzatori che hanno sudato per garantire tutto ciò con tale efficacia.
Ma la socialità studiata a tavolino si basa in realtà su due assunti impliciti sottilmente inquietanti.
Il primo è la concezione che la socialità non sia la naturale conseguenza del vivere comune, ma deve essere in un certo senso stimolata dal sistema per poter esistere. Il sistema ti dice come fare a diventare un uomo sociale,  con una certa invadenza ti prende per mano come farebbe una maestra d’asilo per accompagnare un bambino timido dagli amichetti da cui tende ad isolarsi. Non basta creare le condizioni affinché un gruppo di individui possa incontrarsi, ma bisogna intervenire esplicitamente affinché tale incontro avvenga nella maniera più efficiente e corretta. Ciò suggerisce una sottile sfiducia nei confronti delle capacità autonome dell’individuo, quasi ad indicarne la dipendenza dalla società come un bebè dal seno della mamma.
Il secondo è che tale sistema deve offrire un modello standard di convivialità a cui ogni individuo non può che conformarsi.  E si tratta di un modello tarato su un livello medio-basso per andare incontro ad una cerchia assai vasta. Un divertimento di pancia basato su blandi vezzi competitivi, rigurgiti goliardici e programmatica scompostezza. Divertiti come gli organizzatori dicono di farlo, accetta fino in fondo le loro regole, non c’è via d’uscita, le squadre e i gruppi sono formati a priori, il tuo posto a sedere è già assegnato e quindi stai al gioco, non puoi fare altro.
Una festa danese avrebbe dunque la stessa spontaneità di un rito liturgico millenario, se non fosse per la presenza di un potente denotatore, un magnifico deus-ex-machina che nelle feste danesi è importante quanto l’ossigeno e in parte riscrive quanto detto finora: l’alcol.
Ci vuole l’alcol, tanto tanto alcol per far funzionare la festa. Litri di acquavite ed ettolitri di fadøl. L’alcol scardina le griglie, scontorna i contorni,  strappa via le maschere, smuove i tavoli come un ciclone, ritaglia origami con le regole, getta secchiate di colore sul cielo plumbeo del Nord Europa.
L’alcol è l’unica valvola di sfogo da un sistema che con l’invadenza di un genitore troppo apprensivo ti dice persino in che modo devi festeggiare.
Ma soprattutto, l’alcol rende l’uomo danese un uomo sociale. Spontaneamente sociale. Persone che prima neanche ti salutavano diventano improvvisamente amici affezionati, pronti a schierarsi al vostro fianco e combattere per le vostre idee fino alla morte. Musoni dal tono di voce funereo si trasformano in irresistibili buffoni che si lanciano in brindisi megalomani e sulfurei,  bionde rigide e silenti sono ora estroverse e logorroiche come tante Littizzetto maggiorate.
Ogni senso della misura e del decoro sparisce, si lanciano noccioline sul professore che adesso balla la macarena sul tavolo, ci si lascia cadere a terra come colpiti da infarto, tranquillamente si sputa o si vomita nei bicchieri, qualsiasi cespuglio o muro esterno può diventare un orinatorio pubblico.
Ma inevitabilmente l’effetto di questo magnifico elisir svanisce.  L’euforia  e l’illusione di libertà lasciano il posto ad un mal di testa che rimbomba nelle tempie. Silenziosamente si striscia al proprio posto come scolaretti rimproverati, con indolenza si reindossano le maschere. La festa è finita, la Babele di frizzi e lazzi è spazzata via e ciò che rimane è la sterile impalcatura delle convenzioni. Sorridi, in poche ore i postumi della sbronza si dilegueranno e tornerai ad essere una pedina del perfetto meccanismo della società danese, passivo ed efficiente. Fino alla prossima sbronza.
Ci dispiace, ma noi non siamo così.
Noi siamo di quelli che del mondo cogliamo le sfumature e non solo i colori netti. Noi siamo di quelli che non si divertono a comando, che non ridono alle risate pre-registrate delle sitcom americane. Noi siamo di quelli che non hanno paura di stare in disparte per cogliere squarci di bellezza trascurati dai più, siamo di quelli che provano a soffiar via la polvere del banale dalle cose intorno. Noi siamo di quelli che si innamorano di un errore o di un dettaglio, dello scampolo di sorriso impacciato, di uno sguardo inumidito di passione e rabbia.
Ci spiace dirlo, ma siamo di quelli che non si accontentano, di quelli che non sanno stare al posto assegnato. Ahimè, neanche da sobri.


martedì 16 aprile 2013

Qualunquismi da blog


I politici sono tutti ladri.

I politici pensano solo ai cazzi loro.

Destra e sinistra sono la stessa monnezza.

Il problema dell’Italia è Berlusconi.

Il problema dell’Italia sono i comunisti.

Il berlusconismo ci ha resi poveri culturalmente.

Berlusconi è un criminale che e' sceso in politica per non andare in carcere.

Berlusconi è un grande leader vittima dei giudici comunisti che sono invidiosi del suo successo.

Beppe Grillo e' un populista, un fascista, un demagogo.

Beppe Grillo è la vera politica.

Bersani è un morto che parla.

Bossi è ignorante e ladro.

La Russa ha la faccia da delinquente.

Berlusconi va con le mignotte, con le minorenni, e con le mignotte minorenni.

L'Europa germanocentrica ci priva della nostra autonomia nazionale.

L'Euro ci ha impoveriti tutti e bisogna tornare alla lira.

Meno male che siamo nell’eurozona altrimenti vivremmo nelle caverne.

L'Italia ha bisogno di una classe politica onesta e competente.

Il Parlamento è pieno di troie.

Il Movimento Cinque Stelle doveva allearsi con il PD per formare il governo e far fuori Berlusconi.

Il PD doveva allearsi con il PDL per formare il governo e far fuori Grillo.

Gli italiani sono così stupidi che ancora votano Berlusconi.

Gli italiani sono così stupidi che guardano il Grande Fratello invece di Fazio.

I poliziotti sono picchiatori fascisti che non tutelano i cittadini.

I critici non capiscono un cazzo.

I preti sono pedofili.

Il Vaticano è un'associazione a delinquere.

La Juventus vince perché si compra gli arbitri.

Il mangiare buono sta solo in Italia.

Il tempo bello sta solo in Italia.

Italiani e spagnoli sono tanto simili.

I sudamericani hanno il ritmo nel sangue.

Nel Nord Europa non esiste la corruzione.

I popoli del Nord sono molto chiusi.

Quando si vive all’estero bisogna adattarsi alla cultura locale.

Le danesi e le svedesi sono delle grandi gnocche.

In inverno fa freddo.

In estate fa caldo.

In Danimarca fa freddo tutto l’anno.

sabato 13 aprile 2013

Danimarca paradiso kafkiano




Immaginate di essere con un vostro amico in una via del centro di Silkeborg, una cittadina dell’entroterra danese. Cosa vedreste? Selciato a motivo regolare e, ai lati della strada, boutiques HM e Butler, un’ottica Synopsis , una caffetteria Baresso, un negozio di giocattoli BR, una cioccolateria Frellsen, il supermercato Netto, un negozio Fona per l’elettronica, un 7 Eleven, una chiesa luterana dalla torre bianca sullo sfondo. Immaginate adesso che il vostro amico decida, con il vostro consenso, di bendarvi, e vi conduca tenendovi per mano alla sua automobile. Adesso andiamo a Viborg, dice lui. Voi avete ancora la benda sugli occhi, ma sentite sotto di voi il motore e vi accorgete che l’auto si sta muovendo. Dopo circa un’ora, il vostro amico vi avverte di essere arrivati. Vi aiuta a scendere e vi conduce per mano in una via del centro di Viborg. Dopodichè, finalmente vi toglie la benda. La luce del primo pomeriggio vi inonda il viso, ma dopo qualche istante riuscite a mettere a fuoco ciò che avete davanti. Quale sarebbe a questo punto la vostra reazione? Se siete in Danimarca da poco, scoppierete a ridere e rimproverete il vostro amico per essersi preso gioco di voi. Infatti, ciò che vedete è  un selciato a motivo regolare e, ai lati della strada, boutiques HM e Butler, un’ottica Synopsis , una caffetteria Baresso, un negozio di giocattoli BR, una cioccolateria Frellsen, il supermercato Netto, un negozio Fona per l’elettronica, un 7 Eleven, una chiesa luterana dalla torre bianca sullo sfondo.  Non vi siete mai mossi da Silkeborg, pensate voi. Ma il vostro amico non vi ha ingannato: siete proprio a Viborg. Il centro di Viborg è un clone di quello di Silkeborg. E lo stesso potrebbe valere per Randers, Hadsund, Herning, Hjorring, Frederikshavn, Grenaa e molte altre cittadine. Che non sarete mai in grado di distinguere.
La Danimarca è un paese kafkiano dove le città sono tutte uguali. E per questo non esiste via d’uscita, se non salire su un aereo e virare a sud del mondo.  
Non ha senso visitare da turista l’entroterra danese. Visitata una cittadina, le hai visitate tutte. Così come le zone residenziali in centro sono una trafila di case in mattoni rossi dai tetti spioventi  e finestre bianche all’inglese, che sia Aalborg, Ahrus, Odense o Hostelbro, mentre in qualsiasi periferia primeggiano casermoni squadrati di colore bejge dalle finestre con l'aspetto di loculi mortuari. Talmente indistinguibili gli uni dagli altri che gli stessi abitanti devono controllare il numero civico per stare certi di entrare nel posto giusto.
Siete in qualsiasi città danese e volete un caffè? Andate al Baresso.
Dovete comperare il castello Lego di Harry Potter per vostro figlio? Andate al BR.
Una spesa con prodotti di qualità? Andate al Salling.
Una spesa con prodotti economici? Andate al Netto o al Super Brugsen.
Avete bisogno di una connessione Internet? Contattate la Stofa.
Cercate una teiera in acciaio? Andate all'Imerco.
E se per caso i modelli dell'Imerco non vi piacciono? Problemi vostri, la concorrenza non esiste, o se esiste è rappresentata da pochissime altre catene ad estensione nazionale. L'artigianato è inesistente. Qualsiasi prodotto immaginabile,  dalle tende veneziane alle lampade al neon, dai cesti di vimini ai comodini, dalle prese della corrente alle maniglie delle porte, in Danimarca è fornito da un oligopolio ristrettissimo di catene operanti a livello nazionale. Che offrono prodotti identici. Tutte le case hanno le stesse maniglie, le stesse chiusure ad incastro per le finestre, gli stessi rubinetti, lo stesso pavimento, le stesse sedie, persino gli stessi cessi. 
Anche i cibi sono tutti identici. Le frikadeller hanno lo stesso aspetto e sapore in qualsiasi ristorante, così come la flæskesteg, il fiskefilet con la remoulade, i rundstykker con il burro, gli smørrebrød con aringhe e pane nero, gli stjerneskud, il salmone in umido. Tutto preparato esattamente secondo lo standard, senza variazioni. Quante volte in Italia siamo soliti pensare cose del tipo: “L’impepata di cozze come la fa Vincenzone al ristorante Moro non la fa nessuno”. Concetti del genere sono probabilmente impensabili nella cultura danese. Le frikadeller sono frikadeller e basta, le prepari Knud o Lars o Pernille o Lisbeth che sia.
Le catene commerciali offrono tutto ciò di cui si ha bisogno, ma non offrono scelta. Perchè scegliere vuol dire esprimere preferenza, ed esprimere preferenza  vuol dire dichiarare la superiorità di un’offerta rispetto ad un’altra. Esprimere preferenza vuol dire rendere qualcuno scontento, vuol dire togliergli la serenità cui ha diritto. D’altronde, la Danimarca è il Paese che ha formulato la famigerata legge di Jante, che si riassume nei seguenti punti:
1. Du skal ikke tro du er noget! - Non credere di essere qualcosa di speciale.
2. Du skal ikke tro du er lige meget som os! - Non credere di valere quanto noi.
3. Du skal ikke tro du er kloger en os! - Non credere di essere più furbo di noi.
4. Du skal ikke innbille dig at du er bedre en os! - Non immaginarti di essere migliore di noi.
5. Du skal ikke tro du ved mere en os! - Non credere di saperne più di noi.
6. Du skal ikke tro du er mere en os! - Non credere di essere più di noi.
7. Du skal ikke tro at du duger til noget! - Non credere di essere capace di qualcosa.
8. Du skal ikke grine af os! - Non ridere di noi.
9. Du skal ikke tro at nogen kan lige dig! - Non credere che a qualcuno importi di te.
10. Du skal ikke tro du kan lære os noget! - Non credere di poterci insegnare qualcosa.

Sono “regole” repressive che uccidono l’iniziativa personale e/o privata, che viene percepita come sbagliata e immorale, come un deprecabile attacco al celebrato idillio sociale della patria di Andersen.
Sarà anche vero che un sistema del genere, inculcato fin dalla tenera infanzia, aiuta lo sviluppo di una società stabile, equalitaria, coesa e serena. 
Ma con gli occhi dello straniero, la serenità tanto strombazzata dai danesi non ci sembra affatto il risultato di un’autonoma e matura presa di coscienza nazionale, quanto di un subdolo lavaggio del cervello.
Reprimi ogni impulso di essere diverso e migliore degli altri, e sarai sereno. Coglione e sorridente come il personaggio di una sitcom americana.  Sei nel Paese più felice del pianeta, ti dicono tutti, lascia perdere il resto del mondo, è pieno di guai. Lavora trentasette ore a settimana, va' a lavoro in bicicletta perchè non inquini, anche se piove a dirotto e il vento ti prende a schiaffi , torna a casa alle quattro, fa' la spesa al Netto e regalati un blando hygge serale guardando How I met your mother grazie all’IP tv della Stofa, ubriacati nelle bettole del centro il sabato sera. A luglio vola a sud a comperarti la tua settimana di sole in Grecia, Italia o Spagna. A dicembre va' allo Julefrokost con i colleghi e prepara giochi dementi in cui tutti rideranno anche se non c’è nulla da ridere, perchè è una festa e nelle feste bisogna ridere, altrimenti la coesione e l’armonia del gruppo vanno a farsi benedire...
Mi spiace, ma non ci caschiamo. Questo sistema è fasullo ed ipocrita. Perchè gli uomini sono e rimangono animali feroci, e il compito della società è quello di arginare la loro esuberanza, ma non di lobotomizzarli.
I danesi sono sereni come lo è un cavallo selvaggio a cui è stata iniettata una damigiana di sedativo e ora osserva con occhioni da ebete i suoi simili a cui tocca correre all’ippodromo per campare.  
Per quanto ci riguarda, noi siamo dalla parte di chi continua a correre e sudare, di chi si scorda dei puntini sulle i, di chi colora gli album in bianco e nero con vistose uscite dai contorni.
Questa specie di Truman Show non ci va giù. Anche perchè, a differenza del film di Peter Weir, in Danimarca il cielo che ci sovrasta è più vero e incazzato che mai.