Ma che bello questo cavallo (digitale) che si lancia in una corsa spericolata su uno sterminato e buio campo da battaglia segnato dai cadaveri e dai residui di artiglieria e illuminato a sprazzi dalle improvvise esplosioni di granate che sputano nuvole di terreno paludoso. Chissà che non sia stata proprio l’immagine di questo cavallo a galoppo selvaggio su un terreno di guerra a spingere un signore di nome Steven Spielberg a realizzare War Horse. Perchè il galoppo di Joey è in realtà un volo, come menzionato esplicitamente in un dialogo del film, “un volo su un territorio sconvolto dalla guerra”, in cui non bisogna mai guardare giù se si vuol tornare a casa. E Spielberg è per eccellenza il regista del volo. Non solo per le biciclette di E.T., gli aereoplani di Empire of Sun e Always, le acrobazie di Hook, la navicella di A.I., ma perché il volo è prima di tutto il volo dell’immaginazione, quello che ci fa metter su le ali per fuggire via dalla banalità del quotidiano. O, come in questo caso, per riprendere possesso di noi stessi.
Un filmone d’altri tempi, questo War Horse. Paesaggi da restare a bocca aperta, portentose scene di massa, bella musica sinfonica, grandi sentimenti e ideali. I soliti coglioni storceranno il naso parlando di buonismo e di retorica, e si soffermeranno sulle palesi inverosomiglianze (inglesi, tedeschi e francesi parlano tutti in inglese, tutti si innamorano di Joey e cercano di aiutarlo, un inglese e un tedesco uniscono i loro sforzi sul fronte per liberare Joey dal filo spinato,...). Ma quella di Spielberg è una favola, più vicina ad E.T. che a Saving Private Ryan, e come tale va vissuta con occhio vergine e privo di strafottente cinismo. Se stiamo al gioco, e chiediamo al nostro io più zotico e incattivito di farsi da parte, scopriamo che War Horse è una vera gioia per gli occhi e per lo spirito. Un film che dimostra come la tecnica più avanzata possa essere di supporto al cinema più classico. Il galoppo di Joey sul campo da battaglia, forse la scena più bella del film, non sarebbe stato reso con tanta forza senza l’uso massiccio della tecnologia digitale, abilmente celato nell’impianto tradizionale del film. Solo un cineasta incommensurabile come Steven Spielberg sa ritornare nel 2012 al cinema classico per famiglie, oggi terribilmente demodè, ricostruendolo dall’interno.
Certo, lo Spielberg di oggi non è più quello che trent’anni fa reinventava l’immaginario collettivo ad ogni film. Ma è forse è l’immaginario collettivo ad essere giunto alla saturazione, e qualsiasi tentativo di aggiornarlo si traduce in orpelli sterili e ridondanti. In tal senso, un ritorno al cinema classico del "più grande sognatore del nostro tempo" è una sana boccata di ossigeno.
Un filmone d’altri tempi, questo War Horse. Paesaggi da restare a bocca aperta, portentose scene di massa, bella musica sinfonica, grandi sentimenti e ideali. I soliti coglioni storceranno il naso parlando di buonismo e di retorica, e si soffermeranno sulle palesi inverosomiglianze (inglesi, tedeschi e francesi parlano tutti in inglese, tutti si innamorano di Joey e cercano di aiutarlo, un inglese e un tedesco uniscono i loro sforzi sul fronte per liberare Joey dal filo spinato,...). Ma quella di Spielberg è una favola, più vicina ad E.T. che a Saving Private Ryan, e come tale va vissuta con occhio vergine e privo di strafottente cinismo. Se stiamo al gioco, e chiediamo al nostro io più zotico e incattivito di farsi da parte, scopriamo che War Horse è una vera gioia per gli occhi e per lo spirito. Un film che dimostra come la tecnica più avanzata possa essere di supporto al cinema più classico. Il galoppo di Joey sul campo da battaglia, forse la scena più bella del film, non sarebbe stato reso con tanta forza senza l’uso massiccio della tecnologia digitale, abilmente celato nell’impianto tradizionale del film. Solo un cineasta incommensurabile come Steven Spielberg sa ritornare nel 2012 al cinema classico per famiglie, oggi terribilmente demodè, ricostruendolo dall’interno.
Certo, lo Spielberg di oggi non è più quello che trent’anni fa reinventava l’immaginario collettivo ad ogni film. Ma è forse è l’immaginario collettivo ad essere giunto alla saturazione, e qualsiasi tentativo di aggiornarlo si traduce in orpelli sterili e ridondanti. In tal senso, un ritorno al cinema classico del "più grande sognatore del nostro tempo" è una sana boccata di ossigeno.