Molte persone, anche adulte, hanno paura del buio.
Giuseppe, invece, ha paura del silenzio. Lo terrorizza l’istante in cui apre la porta di casa quando torna da lavoro, e la trova oscenamente muta. E allora si precipita immediatamente sullo stereo in soggiorno e preme il tasto ON. Sospira, il fruscio della radio è per lui un siero benefico. Sceglie una stazione a caso, regola la manopola del volume e si lascia cadere sul divano. A volte collega l’ipod alle casse e mette su gli Oasis, i Pixies e Christina Aguilera. Poi accende la televisione e fa zapping cercando MTV o qualche canale fracassone. Cena a base di pane e yogurt mentre sullo schermo vanno in onda i videoclip delle band più trendy del momento, e le loro canzoni, la loro musica, il loro rumore, si insinuano placidi e rassicuranti tra le quattro pareti del suo bilocale. Teme ancora gli istanti di pausa tra una canzone e l’altra, e quando il momento della pausa arriva Giuseppe stringe gli occhi temendo che il silenzio lo assalga alle spalle come un ninja affondandogli la sua subdola lama in gola, ma poi la musica riparte e tira un sospiro di sollievo.
Ci sono sempre musica e rumore a casa di Giuseppe, anche quando dorme, vuole che gli scombussolino i sogni e non lascino neanche loro in balia del silenzio.
Ma un giorno c’è un black-out. Tragicamente televisione e stereo ammutoliscono e la casa è improvvisamente più silenziosa di una chiesa di campagna in una giornata di agosto. In preda al panico, Giuseppe si precipita verso la cucina, tira giù due piatti dalla credenza e inizia a sbatterli l’uno contro l’altro mentre batte a terra il piede destro al ritmo di un generico OH-OH-OH. I piatti si scontrano con un rumore acuto che gli trasmette scariche di benessere. Ma poi Giuseppe sbatte i piatti un po’ troppo forte e questi vanno in frantumi. Immediatamente afferra altri due piatti, ma poi pensa non voglio distruggere la cucina, e trova un’altra soluzione. Inizia a cantare. A squarciagola, stonato. Canta Nel sole di Al Bano, Se telefonando di Mina e Champagne di Peppino di Capri. Presto ha il mal di gola, si accorge che sta per diventare afono e cerca di escogitare per tempo un’altra soluzione ma non gli viene nessuna idea.
Qualcuno bussa alla porta d’ingresso, e Giuseppe si precipita ad aprire. E’ Priscilla, la sua dirimpettaia. Che diavolo succede, chiede, cos'è tutto questo fracasso. Giuseppe la afferra per un braccio facendola trasalire, chiude la porta di casa e la trascina in soggiorno.
Ti prego, parla!, le urla.
E cosa dovrei dire, chiede lei sorpresa.
Quello che vuoi, purché tu lo faccia ad alta voce e senza pause, risponde Giuseppe.
Incuriosita e convinta che si tratti di un gioco, Priscilla accetta la proposta. Inizia a raccontare la sua giornata, le persone che ha incontrato, la cena con le amiche del liceo, il film con Jean Paul Belmondo che ha visto ieri sera, gli ultimi scandali della politica locale. Lo fa con una voce squillante che a poco a poco finisce per rassicurare Giuseppe, che torna a sedersi sul divano e sospira.
Io lo so perché hai paura del silenzio, dice improvvisamente Priscilla lasciando Giuseppe di stucco.
Cosa dici, chiede lui.
Hai paura del silenzio perché hai paura di ascoltare, dice Priscilla. Eppure una volta non ne avevi paura. Sapevi bene che solo il silenzio è una parte fondamentale dell'ascolto, sapevi che il silenzio è come gli spazi bianchi di un foglio scritto che danno un senso compiuto ai filamenti d’inchiostro che qualcuno ha deciso di porvi sopra.
Poi, ascoltare ti ha fatto soffrire. E hai deciso di non farlo più, hai voluto versare il calamaio su quel foglio scritto rendendo illeggibili le parole. Adesso hai paura che il silenzio possa dare di nuovo un senso alle parole che hai voluto cancellare, perché quelle parole ti fanno del male.
Ma se pensi di cancellare quelle parole ricoprendole di musica e rumore, ti sbagli. Puoi seppellirle, metterci sopra strati di terra e cemento, ma quelle parole resteranno sempre lì in basso, a farti del male. E’ solo dissotterrandole, è solo cercando di rimuovere l’inchiostro superfluo che puoi provare a farle asciugare al sole. Fino a farle sbiadire, forse.
Poi Priscilla dice di essere in ritardo per un appuntamento e va via. Giuseppe resta solo e improvvisamente le parole che gli hanno fatto male tornano su rapide come bolle in una vasca idromassaggio. Sono le parole affilate di un monologo che inizia con “E’ stato tutto uno sbaglio”. Il lungo monologo di Camilla, la sua Camilla dagli occhi nocciola e il viso da ragazzina, seduta a gambe incrociate sulla sua poltrona Frau, mentre lui ascolta incredulo e cerca di marchiare nella memoria ogni tratto di lei, dal tono della voce alla ciocca ribelle di capelli, dal neo sopra l’occhio sinistro alle labbra lucide e spesse. Consapevole del fatto che non la vedrà mai più.
La casa è di nuovo in silenzio, ma adesso Giuseppe non è più smanioso. Perché le parole che lo hanno fatto soffrire sono venute fuori e sono più assordanti di un concerto dei Metallica con amplificatori a diecimila watt. Hanno già riempito casa, rimbalzano violente e incuranti tra le pareti come mille palline da tennis.
Giuseppe ne ha paura. Prende uno zaino da campeggio e ci infila dentro una coperta e un cuscino. Esce di casa facendo sbattere la porta e suona nell'appartamento di Priscilla.
Se non ti dispiace, questa notte mi fermo a dormire da te, dice a Priscilla quando lei apre la porta d’ingresso. Le parole che mi hanno fatto male sono tornate su improvvise e hanno preso possesso di casa mia, rimbalzano assordanti tra le pareti e non mi lasciano più spazio. Domani tornerò a casa e so che saranno più deboli, e dopodomani lo saranno ancor di più. Alla fine saranno tenui come un eco dimesso, e verranno assorbite dalle pareti. Ma stasera sono ancora tanto rumorose.
Priscilla è dapprima stupita, poi sorride e lui si accorge della fossetta sulla sua guancia destra.
Fammi dormire da te, continua Giuseppe, resterò in un angolino e mi farò piccolo piccolo. Però ti prego, raccontami qualcosa, ho bisogno di parole nuove perché mi sono liberato di quelle vecchie e sento un vuoto allo stomaco. Ma stavolta non urlare, aggiunge Giuseppe, sussurrale soltanto.