In alto i due video delle premiazioni di Quentin Tarantino per la migliore sceneggiatura originale agli Academy Awards: nel 1995 per Pulp Fiction (con Roger Avary) e pochi giorni fa per Django Unchained. Ancora un ragazzetto imberbe nel video di diciotto anni fa, omaccione quasi obeso nel 2013. In entrambi i casi, i video colpiscono per la totale spontaneità con cui Tarantino riceve il premio e ringrazia il pubblico. Un tono informale che, a differenza di tanti colleghi del mondo dello spettacolo troppo ossessionati dall'idea di mostrarsi diversi, non ha nulla di ricercato e studiato a tavolino. E ci porta a riflettere su quella che e' una delle tante caratteristiche eccellenti di questo personaggio unico: l'autenticita'.
In uno showbusiness in cui ogni singola parola, colore di cravatta o ciuffo di capelli di un divo e' dettato da spietate regole di marketing, da quasi un ventennio Tarantino persegue il suo percorso assolutamente personale e autarchico, fiero di un amore per il cinema totalitario e incondizionato.
Ma non si tratta dell'ennesimo outsider traboccante di orgoglio, relegato a necrotiche operette di nicchia che fanno gongolare i critici braille. "Non voglio essere un prodotto del mio ambiente, voglio che il mio ambiente sia un prodotto di me", diceva Jack Nicholson in The Departed di Scorsese. E lo stesso sembra valere per Quentin Tarantino. Che non segue i trend. Semplicemente, li crea. Il ragazzo prodigio di Knoxville - ex commesso in un videostore- è infatti il caso più unico che raro di un cineasta che, senza scendere ad alcun compromesso, plasma il mainstream a sua immagine e somiglianza. E soprattutto, spinto dall’autenticità della sua "malattia" cinefila ("Cerco di realizzare i film che mi piacerebbe vedere come spettatore", è la semplice e schietta motivazione del suo fare cinema), ha il coraggio mettersi in discussione ad ogni film. Dopo l’enorme successo di Pulp Fiction (forse il film che ha generato più epigoni nell’intera storia del cinema), avrebbe potuto riproporsi al suo vasto pubblico con una pellicola dello stesso genere, magari un sequel, e raddoppiare il successo. E invece si è preso una pausa di tre anni per poi tornare sugli schermi con un film come Jackie Brown, completamente diverso dal precedente. Un discorso simile si potrebbe fare per Kill Bill e Inglorious Basterds.
Studiato dai teorici del post-moderno per il suo enciclopedico gusto citazionista e la puntuale destrutturazione delle tre unità aristoteliche, è invece (erroneamente) identificato dai più come autore pulp e modaiolo, artefice di una violenza grottesca, iperrealista e stilizzata. Ma dire che Tarantino è un regista pulp è come definire Picasso un disegnatore di caricature. Per quanto ci riguarda, Tarantino è soprattutto un grande storyteller, capace come pochi altri nella storia del cinema di creare personaggi che nascono già mitici, riccamente delineati e dalla morale ambigua, soprattuto donne – sempre rappresentate come forti e lontane da qualsiasi clichè (e non è un caso che, nonostante la violenza, i suoi film siano sempre molto apprezzati dal pubblico femminile). Come sottolinea giustamente lui stesso nel suo discorso agli Oscar di quest'anno, "Se qualcuno tra cinquant'anni riscoprirà i miei film, sarà grazie ai personaggi che ho creato". Insuperato narratore di interni, sublime scrittore di dialoghi, padrone assoluto dei tempi del racconto – ora dilatati, ora improvvisamente accelerati – in grado di tenere incollati allo schermo per la durata spesso consistente dei suoi film.
Questo è Quentin Tarantino. Altro che pistolettate, schizzi di sangue e battutine cool.