Checco Zalone ha la faccia apparentemente anonima dell'italiano qualunque, la baldanza del Verdone anni '80 e uno humor straniato alla Buster Keaton, con una padronanza istintiva e prodigiosa dei tempi comici. Un mix formidabile che ha fatto impazzire il pubblico italiano sin dalle prime apparizioni su Zelig.
Vedendo Quo vado?, si ha però l'impressione che il suo talento sia in un certo senso prigioniero di un successo spropositato. Il suo film parla di tante, troppe cose: pigrizia da posto pubblico, mammismo, vizi della politica, arretratezza culturale italica, riforme e mobilità , mobbing, no Tav, immigrazione, iper-civilismo dei popoli del nord, fuga dei cervelli, malessere da poco sole, global warming, mafia, famiglia allargata, matrimoni gay, integrazione culturale tra paesi e religioni diverse, razzismo, ecologia, maschilismo, malinconia da italiano all'estero, e tanto tanto altro. Una sorta di bignami su tutti i possibili argomenti di dibattito attuali (manca il terrorismo, forse solo perchè già trattato in Che bella giornata), necessariamente risolti con una battuta o gag corriva e spesso piuttosto banale. Il film stesso (meno di un'ora e mezza di durata così da massimizzare il numero di spettacoli per giornata) è concepito come una rapida sequenza di scenette comiche o presunte tali, senza un vero sviluppo narrativo o un'evoluzione dei caratteri come ancora avveniva in Cado dalle nubi (a oggi, il miglior film di Checco). Studiato a tavolino per assicurare una risata al minuto. Ma l'ansia di successo e la necessità di far contenti tutti gli spettatori obbliga Zalone e il regista Nunziante a smussare i toni più caustici ed evitare risate che non siano di presa poco meno che immediata.
Due sequenze sono tuttavia memorabili. La prima, è il dialogo su corruzione e concussione tra Zalone e il cacciatore che gli regala una quaglia per un suo timbro all'ufficio caccia e pesca, e si chiede spaventato se non stia commettendo una grave illegalità . Acuta e divertita rappresentazione della nuova isteria giustizialista, sorta di rigurgito al ventennio berlusconiano. La seconda, è quella già cult in cui Zalone intona con voce simil-Celentano La prima repubblica a mo' di nostalgico musicarello anni '60, e che mostra la volontà di cercare linguaggi anche nuovi per un'indagine antropologica sull'incapacità endemica del popolo italiano di crescere e guardare al futuro. Sequenze che dimostrano le straordinaria potenzialità di Zalone di graffiare raccontando il presente con sguardo assolutamente originale, e che sembra incredibile coesistano con gag da peggior cinepanettone come quella della pugnetta all'orso bianco, o con i soliti triti chichè sull'italiano all'estero.
Il finale del film ha il merito di essere positivo evitando la classica autoassoluzione da commedia all'italiana, ma non toglie l'impressione di aver assistito ad un'occasione sprecata. O meglio, soffocata da rigide leggi di marketing.
Negli anni 80, grandi comici come Troisi, Benigni e Verdone giravano pellicole imperfette ma originali e assolutamente personali, che hanno saputo crescere nel tempo e diventare cult anche per le successive generazioni. Nei loro film, al di là di qualche ingenuità e tempo morto, si respira una libertà creativa rigenerante che purtroppo Zalone oggi non può oggi permettersi.
Un ultimo commento sulle sciocchezze che si leggono in giro riguardo la positività del fenomeno Zalone per l'industria cinematografica italiana, che sarebbe in grado di resuscitare dalla crisi. Quale sarebbe la presunta salute ritrovata di un sistema in cui il primo film incassa cinquanta milioni e il secondo ne fa sei? Zalone è piuttosto la cartina tornasole della debolezza del cinema italiano. In termini ingegneristici, il single point of failure della nostra industria cinematografica.
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