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giovedì 17 maggio 2012

Lui e Lei



Un unico quadrato di luce nella griglia di finestre del palazzo di fronte. E’ il suo ufficio, Lui lo sa. Lei è sola e evidentemente ha un sacco di lavoro da sbrigare. Nessun altro a rompere le scatole, un’occasione perfetta. Dalla sua posizione privilegiata può osservare quando Lei smetterà di lavorare. La stanza tornerà buia e Lei scenderà le due rampe di scale e si dirigerà a passo rapido alla fermata dell’autobus.  
Sa bene che Lei prende il suo stesso autobus, e Lui farà in modo di essere lì. E’ capitato più volte che si incontrassero alla fermata, ma ognuno era con i propri colleghi e non erano riusciti a scambiare altro che un sorriso o un impacciato ciao. Ma adesso sono le sette passate, tutti i colleghi rompiscatole sono andati via da un pezzo. Solo Lui e Lei. Alla fermata, Lui le rivolgerà la parola, poi saliranno sull’autobus e si siederanno vicini. L’occasione che aspetta da mesi. Volge lo sguardo allo schermo del computer, ma le caselle rettangolari dei fogli excel non gli dicono assolutamente nulla. Chiude il programma, torna a guardare la finestra illuminata del palazzo di fronte, poi il suo orologio. Sono quasi le sette e venti.  Ma quando si muove?

Lei ticchetta con la sua penna rossa sul documento rilegato a spirale che illustra il bilancio dell’ultimo semestre, ma poi torna ad osservare lo schermo del suo laptop, aperto sul sito web della compagnia di trasporti cittadina. C’è un autobus ogni quindici minuti, fino alle otto. Poi nessun autobus fino alla mattina presto. Non è mai rimasta così tardi in ufficio. Certo, avrebbe potuto portare a casa il documento da revisionare, e mezz'ora fa si era infatti alzata dalla scrivania e infilata il suo Barbour, quando aveva scorto nel palazzo di fronte un’unica stanza illuminata, la seconda del terzo piano, e il respiro le si era fatto improvvisamente più intenso. Non avrebbe mai potuto confondersi: era il suo ufficio. Lui era ancora lì, da solo. Adesso getta lo sguardo su quella luce arancione che emerge dai contorni sfumati dal nero della sera invernale, e un brivido le risale la schiena quando pensa che forse, quasi sicuramente, le uniche persone in quel complesso di edifici interconnessi sono Lei e Lui. L'occasione che aspetta da mesi. Non si è tolta il cappotto. Appena il palazzo di fronte tornerà completamente buio, Lei sgattaiolerà via  e lo incontrerà alla fermata dell'autobus. 

Giornata pesante, eh? No, troppo banale, sembra uscito dai dialoghi di un telefilm americano. Come mai ancora in ufficio? Mah, troppo da impiccioni. Forse semplicemente Vedo che non sono il solo a lavorare fino a tardi. Lui si tormenta con ostinazione i riccioli che gli ricadono sull'orecchio sinistro mentre cerca di elaborare un modo semplice ed efficace di rompere il ghiaccio con Lei quando presto, molto presto, si ritroveranno soli alla fermata dell’autobus. Sbuffa e facendo leva sulla scrivania spinge all’indietro la sedia girevole su cui è seduto.  Quasi sbatte contro la parete alle sue spalle. Sei un idiota, dice tra se e sè. Le dirà  quel che gli verrà in mente, non ha senso pianificare. O forse le parole gli moriranno in gola? Spera che lo sguardo di Lei gli sia amico, che silenziosamente inviti le sue parole a venir su come fiori di loto su una superficie lacustre.
Lui chiude gli occhi  e si concentra sul rumore della ventola del computer, cerca di rilassarsi alla regolarità di quel suono. Tira di nuovo la sedia verso la scrivania, fissa con intensità le icone sullo schermo finché diventano sfocate e deve sbattere le palpebre, prende alcuni fogli con vecchi appunti, li accartoccia e prova a lanciarli nel cestino di fronte, il moto parabolico è perfetto ma la palla di carta finisce a terra, poco male. La stanza di fronte è ancora illuminata. Lei non vuole andarsene e Lui non sa cosa fare per alleggerire l’attesa.

L’angolo destro dello schermo del laptop la informa che sono le sette e trentotto. Lei tira su dalla sua borsa Mandarina Duck un piccolo beatycase foderato in raso e smuove la chiusura magnetica. Ne estrae uno specchietto rotondo, vede il suo viso riflesso e pensa sono un disastro. Occhiaie pesanti e capelli inguardabili. Con due dita cerca di distendere le borse sotto gli occhi, poi si sistema il ciuffo sparpagliando i capelli sulla fronte. Adesso è un po’ rincuorata. No, dai, non sono così male, è colpa della luce al neon se si vedono le rughe.  Tira su il rimmel ma lo rimette subito dentro. Cretina, dice tra sé e sé. Che penserà Lui se vede che ti trucchi per andare in ufficio? Torna a guardare fuori.  La luce nel palazzo di fronte è ancora una fredda casella arancione indifferente all’ansia che le monta nel petto ad ogni istante. Maledizione. Ma quando si muove?     

Lui cammina su e giù nervoso per i dieci metri quadri del suo ufficio. Prova a leggere i titoli dei manuali di economia aziendale ordinati sugli scaffali, ma nessuno gli resta in mente. Capisce che ormai non ha senso cercare di distrarsi. L’unica cosa in grado di attirare la sua attenzione è la luce del palazzo di fronte. Lancia un’occhiata all'orologio. Sono le sette e cinquantaquattro. E’ questione di istanti e quella luminosa finestra quadrata tornerà una delle tante altre caselle scure. E finalmente correrà alla fermata dell’autobus ad incontrare Lei. Attende quell’istante come un centrometrista il colpo di pistola dello starter. Ma quando?

Lei si lascia cadere sulla sedia sospirando. Lui è ancora in ufficio. Ha forse intenzione di rimanere lì tutta la notte? Ne dubita, non le sembra un lavoratore così dedito. Rincuorata, pensa che Lui sa benissimo che l’autobus passa alle otto. La fermata è a una decina di metri dall’ingresso. E’ convinta che Lui scenderà appena un minuto prima, non ha senso lasciare l’ufficio in largo anticipo solo per starsene lì a patire il freddo di gennaio. Lei ha lasciato il laptop acceso e l’orologio sul desktop segna le sette e cinquantasei. Dà un’occhiata alla luce nel palazzo di fronte. E’ ancora presto, forse.

Mi sto comportando come un adolescente, pensa Lui, ed è colpito da quel subitaneo sprazzo di lucidità. E' ridicolo alla mia età lasciarsi vincere da una timidezza da sedicenne. Ho quasi trent'anni, e quando voglio una cosa devo essere in grado di prendermela. Non c’è più tempo per le frasi a metà, le parole non dette, i silenzi che mettono a disagio. Lui sorride, si scopre energico ed ottimista. 
Lei mi piace, e adesso vado a dirglielo. 
Si accorge che sono le otto e tre minuti. L’ultimo autobus è già passato e Lui l’ha perso. Ma anche Lei, ancora chiusa nel suo ufficio.  Era quella l’occasione che aspettava, e adesso se ne rende conto. Altro che un timido incontro alla fermata dell’autobus, un ridicolo bonus di dieci minuti in cui parlare del più e del meno. Adesso entrambi sono bloccati in ufficio per tutta la notte. Insieme. Soli.
I due palazzi sono comunicanti, c’è un ponte che li unisce. Presto Lui sarà da Lei. Con passo energico esce dal suo ufficio e attraversa il corridoio buio. Raggiunge il ponte,  in pochi istanti è nell'altro palazzo. Scende di corsa una rampa di scale ed è nel piano dove c’è l’ufficio di Lei. L’unico ancora illuminato. Il suo passo è pesante, chissà, forse Lei lo sta ascoltando ed è anche spaventata, ma poi vedrà che si tratta di Lui, ed è certo di non farle paura. Mentre rapidamente riduce la distanza che ancora lo separa da Lei, pensa che in fondo gli ha sorriso tante volte, nei loro incontri fortuiti. Forse non sorride a chiunque, forse Lui le piace. Ha raggiunto la sua porta, non può sbagliarsi, c’è il nome di Lei sulla targhetta. Delicatamente posa la mano sulla maniglia. Tira un respiro profondo e spalanca la porta trionfale. 

***

Lei è a casa. Ha riempito una pentola d’acqua e l’ha posata sul gas. Apre una confezione di spaghetti e li riversa su un piatto cupo. Gli spaghetti si dispongono a ventaglio. Il suo appartamento è piccolo e un po’ freddo. Si sistema una mantellina sulle spalle mentre ascolta il sibilo del gas e osserva l’acqua della pentola vorticare quasi impercettibilmente. Alla fine Lui non è venuto. Lei ha atteso fino alle sette e cinquantotto, poi è corsa alla fermata anche se la luce nell'edificio di fronte era ancora accesa. Aveva raggiunto l’autobus quando le porte scorrevoli erano già chiuse. L’autista era stato gentile e l’aveva lasciata entrare. Ma Lui non c'era. Era rimasto nella sua stanza. E pensare che, per un istante, aveva addirittura creduto che Lui si fosse accorto di Lei, di quell'ufficio ancora illuminato nel palazzo di fronte al suo. 
L’acqua inizia a bollire e i suoi pensieri si affastellano come le bolle. Lui non è venuto, ok, ma non posso continuare a pensarci tutto il tempo. C’è anche altro. Il bilancio da revisionare, la riunione con il consiglio di amministrazione, ma soprattutto gli attriti con i colleghi. E le ramanzine del capo per gli sprechi. La carta rubata dagli stagisti, l’inchiostro a colori della stampante usato per stampare i biglietti dei concerti, le bollette troppo salate. Sì, le bollette soprattutto.
Merda, sospira portandosi una mano sulla fronte, mi sa che in ufficio ho lasciato la luce accesa. 


venerdì 11 maggio 2012

Lost - prima stagione




Soggiogati dai numerosi commenti entusiastici di amici e conoscenti, abbiamo vinto la nostra atavica ritrosia alle serie televisive e ci siamo sparati l’intera prima stagione di Lost
Un commento a caldo? Beh, innanzitutto la storia di questi survivors confinati in un’isola ricca di misteri è spudoratamente confezionata dai suoi autori per compiacere la fetta più ampia del pubblico televisivo. Quello che non si chiede come mai questi naufraghi abbiano sempre taglio di capelli e rasatura perfetta, indossino vestiti diversi ad ogni episodio, non dimagriscano di un grammo, non abbiamo crisi isteriche nè si lamentino granchè della dieta a base di avocado e pesce. Al confronto, Cast Away di Zemeckis è un capolavoro del genere documentario. 
Sicuramente gli autori sono abbastanza scaltri da sapere che un racconto realistico del dramma di un gruppo di sopravvissuti  non è certo materia da ascolti record, e infarciscono la vicenda di grossolani e posticci elementi mistery che sembrano studiati a tavolino per appassionare i nerd di tutto il mondo. Sequenze numeriche sfigate, neonati maledetti, segnali radio indecifrabili, botole sigillate, apparizioni di orsi polari, e tanto tanto altro: lo script procede accumulando senza freno tutti questi elementi e alla fine della serie non ha ancora spiegato nulla.  C’è da scommetterci che anche nelle serie successive, qualcosa se lo perderà per strada. 
Comunque arrivare alla fine dei venticinque episodi non è stata una gran fatica. Nonostante qualche momento di stanchezza e le inevitabili lungaggini, la serie è infatti strutturata con abilità e si lascia seguire.  Uno spettacolo innegabilmente accattivante quanto privo di fascino, insomma, dove una fotografia uniforme rende sciatta una giungla che si vorrebbe fitta di misteri, e una regia puramente espositiva non riesce a mascherare la furbesca cialtroneria dello script.
Ma quello che rende Lost uno spettacolo vincente non è tanto il forzato lato thrilling quanto l’attenzione all'umanità dei personaggi; la serie racconta sogni, debolezze, ferite e conflitti edipici di ognuno di loro, e a tratti riesce addirittura a commuovere. Alcuni, come l'ex paralitico John Locke o il finto cinico Sawyer, non si dimenticano facilmente. In tal senso, i numerosi flashback che raccontano la vita dei personaggi prima dell’incidente aereo che li ha portati sull’isola sono assai più riusciti e convincenti del racconto fasullo della loro esistenza da sopravvissuti.
Altra nota assai positiva: l’assenza di sigle snervanti ad ogni episodio. Soltanto uno schermo nero su cui appare il titolo in bianco, che in pochi secondi si avvicina allo spettatore per poi sparire. Semplice. Essenziale. Gradito.  



giovedì 10 maggio 2012

Un paese calcisticamente serio


L’Italia è un paese calcisticamente serio.
Certo, c’è chi si fa autogol per intascare i quarantamila euro di una scommessa, ma sono solo drammatiche eccezioni. Un paese calcisticamente serio sa come valorizzare i suoi talenti. E non c’è dubbio che ciò accada in Italia. Se ci sai fare con il pallone, in Italia prima o poi sarai notato e premiato alla grande. Il talento calcistico è un sicuro lasciapassare per un'esistenza bigger than life.
Questo non succede purtroppo in un paese piccolo e insignificante di nome Danimarca. In quella fredda terra nordica, puoi anche essere Pelè ma verrai trattato come un pinco pallino qualunque. Destinato a rimanere nell’ombra, a giocare in squadre dal nome impronunciabile con compagni brocchi, pagato alla stregua di uno sfigatissimo impiegato comunale.  In Danimarca, nessuno sa che farsene di un calciatore di talento. 
Una bella sfiga, dunque, essere calciatore in Danimarca. Ma c’è chi riesce ad evadere dal destino asfittico delle lande nordiche per finire dritto dritto nel paese dove i sogni di ogni calciatore diventano realtà.
Matt Lund Nielsen giocava nel Nordsjælland. Il Nordsjælland non l'ha mai sentito nominare nessuno, e difatti è una collezione di cessi. Un banda di brocchi che farebbe meglio a dedicarsi  a tutt’altro, ma con un fiore in seno: il giovane, talentuoso attaccante Matt Lund Nielsen, naturalmente completamente ignorato da uno pseudo-allenatore con due parafanghi al posto degli occhiali, che nella sua menomanza mentale lo lasciava quasi sempre in panchina. Ma una fortunata congiunzione astrale ha voluto che Zeman assistesse ad una delle improponibili partite del Nordsjælland; e in men che non si dica il giovane attaccante danese ha vinto il biglietto aereo per il Belpaese e un posto in prima squadra nel Pescara. 
Ancor meglio è andata a Jacob Laursen Barret, un diciassettenne che giocava nell’Aalborg Bk, che di recente è stato acquistato nientepopodimeno che dalla Juventus. Anche per lui, addio squadrette di provincia sfigate, allenamenti sotto la pioggia incessante, addio stipendi da impiegato: la stella del suo talento, destinata a divenire a poco a poco opaca come il cielo plumbeo della Danimarca, ora riflette luminosa il sole dell’Italia. E Jacob avrà la possibilità di giocare affianco a leggende viventi come Del Piero o Pirlo.
Matt e Laursen sono solo due dei numerosi giocatori danesi vergognosamente snobbati dal loro rozzo popolo vichingo, e giustamente valorizzati in un paese calcisticamente  sensibile come il nostro. Arrivati in Italia, Matt e Laursen hanno scoperto che inzuppare il cornetto nel cappuccino a colazione è assai più gustoso che spalmare il burro sui rundstykker, che camminare sulla spiaggia senza essere presi a schiaffi dal vento di ponente è addirittura possibile,  che uscire di casa la domenica e vedere gente per le strade può essere molto piacevole. Ma soprattutto, hanno scoperto la gioia di sentirsi parte di una squadra che sa come spronarli a tirar fuori il meglio. Matt e Laursen presto saranno ricchi e famosi, compreranno megaville con vista sul mare, andranno in giro in Porsche e Ferrari, e un esercito di veline gli si appiccicherà addosso come la brina mattutina dei loro tristi ricordi del Nordjylland. 
E pensare che, se qualche sensibile osservatore italiano non si fosse accorto di loro, sarebbero rimasti dei perfetti sconosciuti in quella terra di nessuno, a vivere in una di quelle minuscole casette a schiera dai tetti spioventi,  ammogliati con delle ex biondine ormai avvizzite e dal petto lasco, a pedalare ogni giorno sotto la pioggia e il vento per raggiungere lo stadio per l'allenamento.
Vi prego, mettiamoci una mano sulla coscienza e facciamo del nostro meglio per limitare il triste fenomeno dei talenti calcistici danesi ignorati dalla loro ingiusta madre patria. Che l'esempio di Jacob e Matt ci sia da monito. 



giovedì 3 maggio 2012

Il ragazzo e la bici


La strada era in leggera salita e il ragazzo pedalava a testa bassa, sforzandosi di mantenere la ruota anteriore perfettamente parallela alla striscia bianca sull’asfalto. I piedi spingevano sui pedali come volessero premerli fino a terra e poi si ritraevano rapidi assecondando il moto circolare della corona.  Il suo respiro era teso, la fronte imperlata di sudore. Vide con la coda dell’occhio una bici superarlo alla sua sinistra, e in pochi istanti allontanarsi da lui. Il ragazzo sporse il busto in avanti sollevandosi dal sedile, riversando sui pedali l’intero peso del suo corpo.  L’intensità del vento sul viso gli confermò  che stava accelerando. Eppure, l’altra bici continuava a rimanere lontana. Sempre più lontana. Un’altra bici lo superò.  Poi un’altra ancora. Il ragazzo inspirò profondamente e cercò di pedalare con foga ancor maggiore. Incurvò la schiena in posizione aerodinamica illudendosi di forare l’aria come un proiettile. Ma continuava a vedere altre bici sfrecciare alla sua sinistra con impressionante facilità. Le sue gambe erano ormai indolenzite e doloranti, il respiro ansimante. Non ce la faceva proprio a spingere di più. Sconsolato, decise di fare una sosta in un bar con l’insegna in legno che sorgeva sul lato opposto della strada.

Sorseggiava lentamente una birra al bancone, quando udì una voce roca alla sua sinistra: cosa succede, amico mio? Il ragazzò si voltò e vide dall’altra parte del bancone un uomo di mezza età dai radi capelli grigi, che mentre puliva con uno strofinaccio le macchie appiccicose di whisky lasciate dagli avventori del bar, aveva posato su di lui i suoi occhi neri e penetranti.  Nulla, rispose sbrigativamente il ragazzo. Hai l’aria triste, continuò l’altro. Il ragazzo sospirò. Quando vado in bici, tutti mi superano e non riesco a raggiungere nessuno. Il suo interlocutore sorrise. Hai provato a guardare alle tue spalle, chiese. Il ragazzo rimase interdetto per un istante, poi rispose: No, non ho mai provato. Allora fallo, disse l’uomo, questo è il consiglio che ti dò, amico mio.

Ripresa la bici, il ragazzo percorse una decina di metri e poi si voltò mentre continuava a pedalare. Vide dietro di sè uno sciame disordinato di biciclette impegnate in una corsa lenta e rilassata. Che, ne fu subito certo, non sarebbe mai stata sufficiente a raggiungere neppure lui. Rincuorato, tornò a pedalare senza badare troppo alle poche bici che continuavano a superarlo.

Avevi ragione,  vedevo soltanto le poche bici più veloci, e mi ero dimenticato di quante siano più lente della mia, esordì il ragazzo quando il giorno dopo tornò nel bar. L’uomo al bancone sorrise. E c’è un’altra cosa che mi ha colpito, disse il ragazzo. Cosa, chiese l’altro. I visi delle persone che ho visto pedalare alle mie spalle erano visi sereni come di rado mi è capitato di vederne. L’uomo al bancone fissò per un istante il ragazzo sul viso, poi disse: Perché quelle persone hanno il tempo di osservare cosa hanno intorno.

Il ragazzo tenette a mente le parole dell’uomo al bancone, e quando fu di nuovo in strada con la sua bici, sollevò lo sguardo dalla striscia dell’asfalto. E si accorse delle distese di verde al di là della pista ciclabile, vide la linea oscillante che separava le spighe di granturco agitate dal vento dal cielo limpido ed eterno di fine maggio, sbattè le palpebre seguendo il battito delle ali delle farfalle variopinte che abbellivano l’aria primaverile come fiori sospesi ed eterei. 
Ma non smise di pedalare con energia. Il segreto è proprio lì, gli aveva spiegato l’uomo al bancone prima che abbandonasse il locale. Non cercare di essere il più veloce e piuttosto non dimenticare di osservare cosa hai intorno. Ma, bada, non rallentare mai.