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giovedì 3 maggio 2012

Il ragazzo e la bici


La strada era in leggera salita e il ragazzo pedalava a testa bassa, sforzandosi di mantenere la ruota anteriore perfettamente parallela alla striscia bianca sull’asfalto. I piedi spingevano sui pedali come volessero premerli fino a terra e poi si ritraevano rapidi assecondando il moto circolare della corona.  Il suo respiro era teso, la fronte imperlata di sudore. Vide con la coda dell’occhio una bici superarlo alla sua sinistra, e in pochi istanti allontanarsi da lui. Il ragazzo sporse il busto in avanti sollevandosi dal sedile, riversando sui pedali l’intero peso del suo corpo.  L’intensità del vento sul viso gli confermò  che stava accelerando. Eppure, l’altra bici continuava a rimanere lontana. Sempre più lontana. Un’altra bici lo superò.  Poi un’altra ancora. Il ragazzo inspirò profondamente e cercò di pedalare con foga ancor maggiore. Incurvò la schiena in posizione aerodinamica illudendosi di forare l’aria come un proiettile. Ma continuava a vedere altre bici sfrecciare alla sua sinistra con impressionante facilità. Le sue gambe erano ormai indolenzite e doloranti, il respiro ansimante. Non ce la faceva proprio a spingere di più. Sconsolato, decise di fare una sosta in un bar con l’insegna in legno che sorgeva sul lato opposto della strada.

Sorseggiava lentamente una birra al bancone, quando udì una voce roca alla sua sinistra: cosa succede, amico mio? Il ragazzò si voltò e vide dall’altra parte del bancone un uomo di mezza età dai radi capelli grigi, che mentre puliva con uno strofinaccio le macchie appiccicose di whisky lasciate dagli avventori del bar, aveva posato su di lui i suoi occhi neri e penetranti.  Nulla, rispose sbrigativamente il ragazzo. Hai l’aria triste, continuò l’altro. Il ragazzo sospirò. Quando vado in bici, tutti mi superano e non riesco a raggiungere nessuno. Il suo interlocutore sorrise. Hai provato a guardare alle tue spalle, chiese. Il ragazzo rimase interdetto per un istante, poi rispose: No, non ho mai provato. Allora fallo, disse l’uomo, questo è il consiglio che ti dò, amico mio.

Ripresa la bici, il ragazzo percorse una decina di metri e poi si voltò mentre continuava a pedalare. Vide dietro di sè uno sciame disordinato di biciclette impegnate in una corsa lenta e rilassata. Che, ne fu subito certo, non sarebbe mai stata sufficiente a raggiungere neppure lui. Rincuorato, tornò a pedalare senza badare troppo alle poche bici che continuavano a superarlo.

Avevi ragione,  vedevo soltanto le poche bici più veloci, e mi ero dimenticato di quante siano più lente della mia, esordì il ragazzo quando il giorno dopo tornò nel bar. L’uomo al bancone sorrise. E c’è un’altra cosa che mi ha colpito, disse il ragazzo. Cosa, chiese l’altro. I visi delle persone che ho visto pedalare alle mie spalle erano visi sereni come di rado mi è capitato di vederne. L’uomo al bancone fissò per un istante il ragazzo sul viso, poi disse: Perché quelle persone hanno il tempo di osservare cosa hanno intorno.

Il ragazzo tenette a mente le parole dell’uomo al bancone, e quando fu di nuovo in strada con la sua bici, sollevò lo sguardo dalla striscia dell’asfalto. E si accorse delle distese di verde al di là della pista ciclabile, vide la linea oscillante che separava le spighe di granturco agitate dal vento dal cielo limpido ed eterno di fine maggio, sbattè le palpebre seguendo il battito delle ali delle farfalle variopinte che abbellivano l’aria primaverile come fiori sospesi ed eterei. 
Ma non smise di pedalare con energia. Il segreto è proprio lì, gli aveva spiegato l’uomo al bancone prima che abbandonasse il locale. Non cercare di essere il più veloce e piuttosto non dimenticare di osservare cosa hai intorno. Ma, bada, non rallentare mai.


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