Giornata di recuperi. Un raccontino scritto di getto circa dieci anni fa. Leggendolo ora, emergono in maniera nitida le ingenuità della giovane età. Scrittura approssimativa, sarcasmo troppo programmatico e insistito, deformazione iperbolica che non graffia quasi mai. Però mi ha fatto piacere rileggerlo. Un certo ritmo ce l'ha, alcune frasi ed espressioni mi piacciono. Ed era forse un tentativo, seppur maldestro, di indagare sull'ipocrisia di certe convenzioni sociali che si sforzano di avvicinare persone distanti come galassie.
Pensando a Lando Buzzanca.
La sua voce così sottile che nessuno poteva sentire di cosa stesse parlando. Ma era come se irradiasse segnali destabilizzanti che inconsciamente spingevano chiunque ad abbandonare il locale. Con la coda dell’occhio Franco aveva scorto coppie e gruppi di gente alzarsi dai tavoli di legno, rivestirsi nelle leggere giacche primaverili e dirigersi verso l'uscita del pub. Beati loro.
Comodamente seduta davanti a lui su uno sgabello traballante, in un tavolino angolato ricoperto di scritte incise nel legno, Paola continuava imperterrita a parlargli di lei, il bicchiere di aranciata vuotato da tempo. Dalla sua borsettina foderata di moquette viola estrasse tre album di fotografie spessi come vocabolari; Franco si chiese come potevano entrare in una borsa così minuta. Capì subito che averla sopportata fino quel punto era stato uno sforzo pressoché minimo rispetto a quello che lo attendeva. Le oltre cinquecento foto che gli mostrò erano una sintesi dei suoi ventinove anni di immacolata esistenza nel segno della gioia delle piccole cose, dei regali infiocchettati, dei gelati alla panna. C’era lei neonata e paffutella che col ditino sfiorava la sua torta di compleanno, le guanciotte tonde come le aveva tutt’ora. Lei col pulitissimo grembiule di prima elementare, “ero felicissima perché la maestra mi aveva scritto bravissima sul disegno della mia famiglia”, e minacciò Franco di mostrargli tale opera d’arte. C’era Billy, il suo primo, indimenticato cane, un animale grigiastro e spelacchiato la cui bava alla bocca sembrava trasudare dalla carta fotografica. Franco le chiese se era un bastardo e lei si offese un po’, pensando che stesse insultando la creatura per la quale continuava a nutrire un affetto infinito e il cui ricordo l’avrebbe accompagnata per sempre. Franco le spiegò che per “bastardo” intendeva semplicemente un cane non di razza, vide che il concetto non le era famigliare e preferì scusarsi per la sua bestemmia, piuttosto che cercare di inculcarle una strana verità.
Ma la galleria non finiva lì: le feste degli anni del liceo, con i tavoli imbanditi di tartine e bottiglie di cocacola, le faccette imberbi e un po’ fatue dei suoi amici. C’erano le foto-famiglia, con lei sorridentissima che abbracciava una coppietta di allegri individui bassi come hobbit, i suoi genitori. E ancora gli zii, i cugini, i cognati, i nonni, i bisnonni, ogni maledetta combinazione del loro intricatissimo albero genealogico. Tutti con sorrisi ebeti a trentadue denti, tra pacchi regali foderati di rosso e alberi di natale e dolcetti alla crema; un’onda di positività e buoni sentimenti che sommerse Franco fino a farlo boccheggiare di nausea come se avesse ingoiato mestoli di zucchero.
“E’ l’una di notte, il pub deve chiudere”
“Ma dai, chiude tra un’ora, prediamo un’altra aranciata, devo ancora mostrarti le foto dei miei cuginetti gemelli…”
I cuginetti gemelli no...
Si alzò.
“Domani devo essere in ufficio alle otto, sono desolato…”
Sono desolato, mamma mia...
Gli occhioni marroni di Paola si velarono di una luce che più che delusione era compatimento, come a dispiacersi della straordinaria compagnia che Franco stava rifiutando.
“Va bene, andiamo se vuoi” disse con un insolito tono atono e leggermente seccato che accese in Franco una scintilla di maligna soddisfazione.
Camminarono per il corso deserto senza proferire parola, e Franco pregustava il dolce miele della liberazione: dài che è stufa di me, dài che non gli piaccio, dài che mi odia. Ma quando raggiunsero il portone della casa in cui lei viveva con i suoi, si voltò e lo fissò intensamente negli occhi.
“Sono stata bene stasera”.
Immediatamente Franco schivò lo sguardo e cercò la sua espressione più annoiata e insofferente e di circostanza, e rispose “Anch’io grazie” con un tono che pareva di un cyborg.
Bacio meccanico sulla guancia e addio Paola, che si eclissò tra le ingombranti ante del portone a batocchio. Franco si allontanava a passo rapido come a sfuggire dalle radiazioni di buonismo che sembravano permeare quel luogo infausto, quando alle spalle sentì ancora la vocina stridula della ragazza:
“Franco, aspetta!”
Un brivido gli risalì la schiena come se qualcuno gli stesse sfiorando la curva lombare con un dito. Si girò e la vide avvicinarsi con una strana corsa scoordinata, come se avesse imparato a camminare da poco.
Lo raggiunse e sorrise di nuovo. Quella risata timidina con i dentini color latte simile ad una bimba un po’ scema che parla del fidanzatino dell’asilo.
“Ho dimenticato di farti vedere una cosa”.
Dall’orrenda borsa viola estrasse di nuovo uno dei pesanti tomi di fotografie. Con le dita grassocce sfogliò le ultime pagine e gli mostrò l’immagine di un gattino bianco con gli occhi chiari e il musetto inclinato, talmente dolce, tenero e carino che a Franco venne voglia di massacrarlo di botte.
“Questo è Birillo, il mio nuovo gattino. Papà l’ha riportato a casa la settimana scorsa”.
Una vampata di odio, un moto di pura irritazione risalì prepotente dal petto fino a fargli girare la testa. Avrebbe voluto strapparle dalle mani quel maledetto album e gettarlo a terra e saltarci sopra con i suoi stivali e gridarle all’orecchio con tutta la forza dei polmoni: “Stronza, hai ventinove anni e nella vita non hai combinato un cazzo e stai qui a parlarmi di gattini, cuginetti e festicciole di compleanno coi parenti!!! Come cavolo puoi pretendere che a qualcuno interessino queste stronzate???”.
In seguito non sarebbe mai riuscito a spiegare com’era riuscito a reprimere quella rabbia che pareva indomabile, e ad inarcare le labbra a imitare un sorriso e dirle:” Carino”. Ma quando la salutò di nuovo si era già voltato e la rabbia gli risalì accecante. Non vide mai la reazione di Paola alla sua risposta, tremava alla sola idea che avesse potuto ridere di nuovo.
Prima di conoscere Paola non aveva mai pensato di poter disprezzare così una ragazza non brutta e che non gli aveva fatto nulla di male. A livello puramente sensoriale Paola era una ragazza persino carina, anche se un po’ in carne; viso rotondo e occhioni grandi, capelli neri a baschetto, naso diritto alla francese. L’immaginaria linea che disegnava il suo fisico si allargava un po’ in prossimità delle anche; i pochi chili di troppo erano dovuti certamente all’eccesso di gelati e dolciumi assortiti. Forse si ostinava a mangiarli perché costituivano per lei una metafora della sua esistenza fasulla: dolce dolce dolce, tra genitori e parenti e amici e graziosi animaletti. Tutti dolci dolci dolci. Ogni giorno della sua vita era stato un delicato tassello di quel mosaico perfetto che è la vita nel cosmo. Sereno e sorridente e spensierato come nella più melensa delle sitcom. Il papà era ricco e non faceva altro che portare a casa regali alla sua amatissima figliola. La realtà giungeva distorta e attutita come se le pareti di casa fossero ricoperte dai pannelli di gommapiuma di una sala insonorizzata. Per lei anche il mondo esterno, sì come casa sua, era gioioso e colorato e luminoso come la Cartoonia di Roger Rabbit, dove niente nella vita è così brutto, e potrai gioire dopotutto.
Franco era rimasto orfano a tredici anni e i genitori, deceduti in un incidente stradale, gli avevano lasciato diversi milioni di debiti dovuti al mutuo casa non ancora pagato. Gli zii materni si erano piazzati in casa sua e avevano badato a lui fino ai diciott’anni, poi lo avevano scaricato costringendolo a mendicare e a cercare un lavoro e a pagare da solo le ultime tasse che restavano del mutuo dei suoi genitori. Aveva fatto l’operaio in un cantiere edile, l’imbianchino, l’aiuto meccanico, il commesso, l’assistente idraulico, il pizzaiolo, il cameriere in un bar, il camionista. Aveva dovuto cambiare una decina di appartamenti, perché spesso non ce la faceva a pagare l’affitto mensile e i proprietari lo cacciavano. Per sbarcare il lunario spesso aveva dovuto chiedere l’elemosina in una via del centro, patendo l’agguerrita concorrrenza degli artisti di strada con chitarra, fisarmonica o diablo.
Ultimamente però se la passava meglio; grazie alla sua dimestichezza con l’informatica era riuscito ad ottenere un posto di impiegato in una compagnia internet, ad uno stipendio quasi decente. Riusciva a pagare l’affitto senza problemi. Chiunque gli avrebbe dato però ben più dei suoi ventisei anni. Nelle rughe precoci, le occhiaie pesanti e la calvizie incipiente c’erano i segni inequivocabili di una vita difficile, sempre sull’orlo della sopravvivenza.
Era single e un suo collega aveva fatto in modo che conoscesse Paola, “un’amica così dolce e simpatica”, che era stata al liceo con lui. Una ragazza carina e incredibilmente ancora single. Incredibilmente.
Tornato a casa dopo la funesta serata, Franco si lasciò cadere a peso sul letto sfatto del suo monolocale-stanza, e maledisse il suo collega per avergli fatto conoscere quella cogliona. Sorrise pensando al neologismo: cogliona…
Lui. La sua vita dolorosa e infelice. Lei. Il suo oceano di stronzate dolciastre e vellutate da eterna infante. Si chiese se nel neurone che forse ancora vagava in quella cassa di risonanza che era il cervello di Paola ci fosse traccia di insoddisfazione, di una qualche inquietudine per la sua condizione così fuori dalla realtà, che per lei si esauriva nel sorriso accondiscendente di genitori e parenti e nei regali che riceveva ogni giorno. Avrebbe voluto sfondare la porta di casa sua, prenderla per un braccio e strattonarla con forza fuori dall’appartamento, sotto gli sguardi agghiacciati dei genitori, e gettarla con forza sul marciapiede e gridarle:”Qui non c’è nessuno che ti sorride e ti aiuta e ti fa regali, questa è la realtà, la vita, la sopravvivenza…”
Il suono pimpante di arrivo sms lo distrasse dai suoi pensieri vendicativi. Afferrò il cellulare posato sul comodino e lesse il nome PAOLA. Di nuovo quella sensazione di freddo improvviso nelle vene, la prima tentazione fu quella di cestinare subito il messaggio. Ma con l’incauto coraggio di un atleta che vuol sfidare i limiti delle proprie capacità fisiche, premette il tasto di lettura. “Franco, ti ringrazio della serata, sono stata proprio bene e spero che lo sia stato anche tu! Possiamo vederci tutte le volte che vuoi! A presto allora! Baci! :-)”.
Scoppiò a ridere, forte, fino alle lacrime. E quelle lacrime erano puro distillato di rabbia.
Possiamo vederci tutte le volte che vuoi! A presto allora!
Dunque tutte le volte che vuoi implica a presto. Provò a calarsi nell’immaginazione distorta di Paola, e si sentì profondamente in imbarazzo per il solo fatto che avesse potuto elucubrare un sia pur minimo interesse da parte sua verso di lei.
Di nuovo un segnale di arrivo sms. PAOLA. Adesso ha proprio rotto i coglioni, pensò Franco con assoluta limpidezza di pensiero. “Dimenticavo: buonanotte e sogni d’oro! A presto!”.
E’ ovvio, senza la buonanotte mi sarei sentito offeso. Sarà certo una notte stupenda nel crogiolarmi col tuo ricordo, pensò. E insiste con questo cazzo di A presto!. Spense il cellulare per evitare ulteriori sorprese.
Si sdraiò supino sul materasso flaccido, chiuse gli occhi e provò chissà quale strategia mentale per rilassarsi ed eliminare quei ricordi recenti nel flusso agitato dei suoi pensieri. Non ci riusciva. Passò la notte a rigirarsi nel letto alla ricerca di una posizione così comoda da illudere la tachicardia che gli rimbombava nel petto che fosse ora anche per lei di prendersi una pausa.
Alle prime luci dell’alba, decise di ucciderle il gatto.
Birillo, il gattino bianco e tenero e dolce, doveva morire.
Quella sentenza di morte gli balenò nel cervello come la più giusta e inequivocabile delle soluzioni all’indignazione di quello che aveva subito la sera prima. L’unico possibile effetto placebo. Una sacrosanta vendetta.
Nudo sotto la doccia, fu colto da uno sprazzo di lucidità: dall’esterno quella soluzione poteva apparire del tutto ingiustificata; una ragazza ti invita ad uscire e ti offre un’aranciata (sigh…) e ti saluta cordialmente e tu le ammazzi il gatto. Ma ormai aveva deciso. Forse è così che nascono i maniaci, pensò, e fu invaso da un improvviso moto di pietà per i vari Jack Lo Squartatore, O.J. Simpson e Pietro Pacciani.
Accese il cellulare e rimase in attesa qualche secondo di eventuali messaggi. Osservava il piccolo display con l’ansia di uno studente che teme l’affissione dei risultati di un esame.
E puntualmente arrivò quel suono divenuto infausto. Un tuffo al cuore. PAOLA. “Buona giornata! Ti auguro una mattinata proficua e ricca di soddisfazione! Perché oggi pomeriggio dopo il lavoro non passi a casa mia? Mami e papi saranno felici di conoscerti!”. Sempre quei cazzo di punti esclamativi. Tra i blocchi di noia isterica che ormai gli pesavano nel cervello come macigni si fece strada un’idea che al principio scacciò subito come immonda; ma poi tornava a far capolino come la scintilla di un fuocherello non estinto. Sarebbe andato davvero a casa di Paola, e ne avrebbe approfittato per rapire il gattino che poi avrebbe ucciso comodamente nel suo monolocale. Infatti fino a quel momento non aveva ancora pensato a come uccidere Birillo, e quella gli sembrò un’occasione da non perdere.
Il suo pollice sembrava lottare contro un’istintiva ritrosia mentre digitava sul cellulare la risposta al messaggio di Paola. “D’accordo. Passo lì alle sei”.
Quando lesse sul display “Messaggio inviato”, capì che il danno era fatto. Si era imbarcato in quell’impresa e non poteva più tornare indietro.
In ufficio non combinò granchè, progettava siti web ma non faceva altro che pensare alle modalità di attuazione del suo crimine, con le molteplici domande annesse: come fare a rapire il gatto? Bisogna distrarre Paola e famiglia: ma come? Decise che avrebbe trovato in loco il modo di risolvere quei problemi. Il collega che gli aveva presentato Paola gli chiese della serata, e lui per restare al gioco gli rispose che era andato tutto ok, senza aggiungere troppi dettagli. Le lancette dell’orologio ticchettavano lente, avrebbe voluto che il tempo scorresse accelerato così da ridurre la carica di ansia che cresceva ad ogni istante. Gli parve di avvertire l’insostenibile disagio di un condannato a morte mentre vive le ultime ore prima dell’esecuzione. E finalmente giunsero le cinque e mezza. Sgattaiolò fuori dall’ufficio senza salutare nessuno e si diresse al fatidico appuntamento. Con se portava la borsa di lavoro con all’interno solo appunti e qualche rivista; aveva pensato di infilare lì il gattino.
Il portone dell’elegante palazzo rorocò era aperto, e potè quindi evitare lo strazio di dover citofonare. Saliva le scale con passo risoluto, cercando di arginare in un’improbabile sicurezza di sé il disagio e la noia e la rabbia che gli rodevano dentro come calcoli renali. Di piano in piano leggeva le etichette dei campanelli, sperando di non trovare il cognome di Paola, come uno scolaretto che conta i minuti di ritardo della maestra ben sapendo che quella arriverà di certo. Inevitabilmente, al terzo piano trovò l’appartamento giusto. Tirò un sospiro che sembrava voler assimilare tutto l’ossigeno del cosmo. Si parte, pensò.
Din don!
Paola aprì all’istante bruciando quelli che Franco sperava fossero i suoi ultimi due secondi di libertà. Lo sguardo entusiasta della ragazza gli fece risalire la nausea in gola come il rigurgito di un pasto mal digerito.
“Franco, benvenuto!”
Lo abbracciò e lo baciò sulle guancie, gli strattonò un braccio per portarlo dentro. Franco avvertì con la disperazione di una condanna il clank del portone che si chiudeva.
“Mami! Papi! E’ arrivato! Mami, ci siete?”.
E sparì per qualche istante nella porta che dava sul corridoio, movendosi con evidente eccitazione nella sua tuta rosa da dodicenne.
Franco non potè riprendere fiato che Paola era tornata con mami e papi, che sembravano più agitati della figlia e avevano la stessa aria gnoccolona delle centinaia di foto di cui erano protagonisti. Il vecchio sorrise rivelando un orrendo spacco a V tra i denti davanti, la madre, una donnicciola biondastra e un po’ strabica, gli strinse la mano e subito sgattaiolò fuori dall’ingresso salone minacciando di preparargi un frullato di banane, la sua specialità. Paola lo trascinò in uno slalom rischioso tra poggiapiedi rivestiti di raso, statuette nepalesi, matrioske, tavolini di ebano con centrini e cristalli swarowski, tutti assemblati con il più autentico sprezzo del buon gusto. In un angolo c’era un albero di Natale inghirlandato e con palline multicolore. Ed era fine aprile. “Ti piace l’albero? Io e papi abbiamo deciso di lasciarlo qui tutto l’anno, è così carino!”.Raggiunsero il divano in pelle di camoscio e si sedettero, scostando una grossa e inquietante bambola di porcellana. A gambe incrociate e con la schiena diritta, Paola lo osservava con troppa fermezza nello sguardo; Franco cercò di guardare verso la finestra alla ricerca di un pur minimo sollievo, ma il pesante tendaggio di velluto rosso impediva qualsiasi scappatoia. Sentì un leggero colpo alla spalla. Si voltò e c’era il vecchio che sgomitava; strizzò l’occhio e disse: “Vi lascio un po’ soli!”.
L’odio fu tale che per un istante decise di uccidere lui invece del gatto, e immaginò di afferrarlo per la nuca, trascinarlo oltre le tende e sbattergli ripetutamente la faccia sulla finestra fino a sentire il rumore degli incisivi incastrati nel vetro.
Mentre la rabbia sbolliva e si esauriva in un certo rossore delle guancie, Paola si era lanciata nella sua estenuante logorrea, il solito profluvio di aneddoti e descrizioni senza la minima briciola di interesse. La voce così sottile che sembrava sparire nel rumore del frullatore che veniva dalla cucina, il tono così rapido e dolciastro che Franco dovette tenere le mani incollate alle ginocchia, per evitare che partissero istintivamente verso il collo della ragazza. Raccontava la storia della matrioska riportata da sua zia Mina dal viaggio in Russia, ma avrebbe anche potuto rivelare i mandanti dell’omicidio Falcone o un inedito segreto di Fatima, e tali argomenti sarebbero diventati così obsoleti che la storia umana avrebbe preferito archiviarli. Dopo un tempo che a lui parve infinito tornarono nel salone mami e papi. Mami aveva un piccolo vassoio con quattro bicchieri lunghi e stretti riempiti di un liquido pastoso e giallo chiaro. “Frullato di banane!” disse la donna. Posò il vassoio argentato sul tavolinetto di vetro davanti al divano, e Franco vide che sopra di esso c’era un pupazzetto di pezza. Lo riconobbe; è l’orsetto che esce in omaggio nelle confezioni di detersivo. Paola lo afferrò e se lo portò vicino alla guancia.
“Questo è il portafortuna della famiglia, qui dentro tutti e tre ne abbiamo uno!” e rise, seguita dai gioiosi commenti di approvazione di mami e papi, che nel frattempo si erano seduti nelle poltroncine di fronte.
Era troppo. Doveva urlare, picchiare, sfasciare e andarsene. Oppure doveva stare al gioco, se voleva perseguire il suo obiettivo. La situazione, l’ambiente, quella gente era così ridicola che l’unico modo per salvarsi era mostrarsi ancor più ridicolo di loro.
Franco sorrise. Tanto. Esageratamente. Gli facevano male i tendini delle labbra.
“Oh, ma è fantastico, è anche il mio portafortuna! La notte dormo con coccolino sotto al cuscino!”.
OHHHHH!!
Sembrava che in quell’enorme ripostiglio che chiamavano salone fosse atterrato un ufo. Una luce di gioia miracolata negli occhi di tutti.
“Però, che ragazzo simpatico….”
“Al giorno d’oggi ragazzi così non se ne trovano più…”
“Paola, avete proprio tante cose in comune…”
Franco sembrava trarre giovamento dall’esasperazione di quel comportamento da imbecille, sembrava placare la sua stessa sete di vendetta, nella mente si forgiavano gioielli di idiozia ad una tale velocità che spesso doveva scartarne qualcuno.
“Sapete, ho un portachiavi a forma di scoiattolo che sembrava così triste, e l’ho appeso nella mia auto accanto all’arbre magique, si annoiava troppo senza un albero tutto per lui!”
“Io odio la torta millesfoglie; si chiama così ma arrivo alla quindicesima sfoglia ed è già finita, uffa!”
“Mia madre cucinava sempre gli strozzapreti, ma a me faceva senso mangiarli... poveri preti!”
Ovunque cenni di approvazione, soddisfazione generale che pulsava nell’aria, Paola commossa. E pensare che sembrava un ragazzo così timido, bastava solo che prendesse un po’ di confidenza ed eccolo mostrare senza filtri la persona squisita che è!
Lanciato ormai a capofitto in un tunnel di non ritorno, Franco provò a guardarsi dall’esterno e fu sommerso in un attimo dall’imbarazzo. Quel sorriso così rancido con i denti ormai secchi visto che non aveva più serrato le labbra. Avrebbe anche potuto camminare carponi o raccontare barzellette sulla cacca, e quella gente si sarebbe divertita, purchè avesse continuato a mantenere quell’aria da Joker demente di quarta categoria. Quando tornò a provare un minimo di amor proprio, chiese a Paola dove fosse Birillo, il gattino.
“E’ di là, in camera mia, dopo andiamo a giocarci un po’!”, gli rispose con le pupille dilatate dall’ammirazione.
Franco si voltò verso la madre. “Signora mi scusi, dov’è il bagno?”
La donna, entusiasta di poter essere d’aiuto ad un giovane così straordinario:
“E’ di là, adesso ti indico dove…”
“No, mamma, glielo indico io…” intervenne Paola.
“Facciamo una cosa” disse Franco ”una semplice conta e chi vince mi indica dov’è il bagno, ok?”. I sorrisi sulle facce di tutti evidenziarono la soddisfazione davanti a quella proposta.
Cempompì polonì polonastri cempompì polonì…
Franco contava in modo da comprendere anche lui, e alla fine fece in modo da risultare vincitore.
“Mi spiace ma ho vinto io, il bagno me lo ritrovo da solo! Voi restate qui che torno subito…”
E mentre si allontanava con la sua borsa a tracolla, spiegò ulteriormente quel sorriso che ormai non riusciva più a staccarsi dalla faccia come una figurina incollata con l’attack.
Appena fu nel corridoio tirò un sospiro di sollievo. Prima porta: letto matrimoniale. Seconda porta: cameretta di Paola, immersa nel rosa shocking di pareti e lenzuola e decine di peluches Trudy delle dimensioni più variegate. Entrò e si chiuse la porta alle spalle.
“Micio micio miciooo…”
Vide che poco distante dai suoi piedi c’era un cestino di vimini con un cuscinetto azzurro e un fiocchetto dello stesso colore. Il minuscolo gatto bianco poltriva al suo interno. Franco fu attraversato da un lampo di soddisfazione per averlo trovato così presto. Senza pensarci due volte lo prese e lo infilò nella sua borsa, che richiuse. Il micio si era svegliato e aveva provato ad opporre resistenza, ma le sue unghiette erano troppo sottili per graffiare. Mi dispiace, piccolino, ogni guerra ha le sue vittime innocenti, pensò Franco.
Attraversò il corridoio di corsa ed entrò nel salone con aria mogia. Il suo sorriso era ruotato di mezzo giro.
“Mi dispiace tanto, ma mi hanno chiamato dall’ufficio e ho una relazione da completare per domani. Devo andarmene subito…”
Vide distintamente le spalle di Paola, mami e papi scivolare giù fino ad assumere una postura curva.
“Oh, che peccato…”
“Già sono veramente mortificato…”, disse Franco che in un attimo baciò tutti e tre e si precipitò a passo rapido verso l’uscita. “Grazie di tutto!”.
L’ultima cosa che scorse furono gli occhi di Paola che recuperavano una qualche luce di gioia. La ragazza disse:
“Ci vediamo presto allora!”.
Sbattè il portone e, ancora sul pianerottolo, tirò un profondo sospiro di sollievo. Per fortuna nessuno si era accorto del timido miagolio di Birillo che proveniva dalla sua borsa.
Una volta giunto nel suo monolocale, aprì la borsa e il micio sbucò fuori allegro e pimpante, e cominciò a saltellare sulle mattonelle di marmo e sul letto. Il peggio è passato, pensò Franco, ora viene la fase successiva. Come ammazzare il gatto? Avrebbe potuto chiuderlo in una busta e sbatterlo più volte contro le pareti. O ficcarlo in lavatrice e accendere il comando di centrifuga. O affogarlo nella vasca. O semplicemente dargli una forte botta in testa.
Poi lo avrebbe spedito in un pacchetto anonimo a casa di Paola. Immaginava la ragazza sfilare incuriosita e felice il fiocco della confezione, pensando di trovare dolcetti o giochetti o pupazzetti inviati da chissà quale ammiratore segreto. Invece avrebbe visto il cadaverino puzzolente e semiputrefatto di Birillo. Sarebbe svenuta, forse. Al risveglio avrebbe urlato, si sarebbe gettata a terra a strapparsi i capelli e graffiarsi le guancie dalla disperazione, incredula di fronte a tale abisso di malvagità. Avrebbe vomitato pure l’anima dal disgusto, sarebbe diventata anoressica e complessata, barricata nei tre metri quadri della sua cameretta per paura che qualcuno al di fuori potesse sfiorarla con un dito. Intanto papi si sarebbe rotto ben presto le palle di quella situazione, di una ventinovenne tardona che urla e piange tutto il giorno, e per evitare un esaurimento nervoso avrebbe fatto le valigie per fuggire lontano. A casa sarebbero rimaste sono mami e Paola. Mami non lavora e quindi Paola avrebbe dovuto rimboccarsi le maniche, vincere tutte le sue fobie e scendere ai patti col mondo. Avrebbe passato giornate d’angoscia a mendicare qualche spicciolo, fino a trovare un modesto posto di commessa in un una boutique cinese, a orari assurdi e mal pagata. Avrebbe sperimentato la fame, il sonno, la fatica, la sofferenza, la vita. E presto si sarebbe resa conto di che razza di idiota fosse stata prima. Magari avrebbe finito per essere riconoscente al misterioso attentatore del suo micio. In fondo Franco lo faceva per il suo bene.
Perso nelle sue accattivanti meditazioni, con gli occhi incollati al suo riflesso nello specchio del bagno, Franco si lasciò distrarre solo dal trillo della sua sveglia che suonava ogni ora. Rientrò nel salone-camera e diede un’occhiata all’apparecchio posato sul suo comodino. Le otto. E’ ora di muoversi. Prese la mazza da baseball souvenir da un viaggio negli States di un suo vecchio amico, e si guardò intorno alla ricerca del gattino.
Il letto vuoto dalle lenzuola blu perennemente in disordine. Il tavolino con lettere e bollette e avvisi di pagamento sparsi. L’armadio laccato dalle ante scardinate. Ma il micio non c’era. Guardò sotto il letto, nell’armadio, tornò in bagno e verificò ogni centimetro quadrato della sua modesta abitazione, persino la tazza del cesso. Sparito. Cazzo.
Si accorse che la finestra della sala-camera era aperta, di poco. Si affacciò e diede un’occhiata fuori. Vide dai due metri d’altezza del suo primo piano le auto che nel buio della sera inoltrata falcavano l’asfalto con violenza. Il gatto doveva essersi arrampicato sulla balaustra fino a scendere a terra. Che coglione che sono, pensò. E adesso come cazzo lo ritrovo.
Il tempo di uno schiocco di dita ed era già sul marciapiede che costeggiava timidamente la nazionale, curvo con gli occhi incollati a terra come se gli fosse caduto un diamante di Bulgari. Il lastricato, l’asfalto asciutto violentato dalle ruote. L’effetto doppler delle auto che sfrecciavano. Accanto ad un palo della luce c’era Birillo. Raggomitolato come un riccio, tremante e timoroso di quel territorio sconfinato così diverso dalla cameretta di Paola. Sul viso di Franco il solito sorriso di sollievo, mi è andata bene oggi, pensò. Afferrò di nuovo il gattino che stavolta non sembrava opporre resistenza e lo infilò di nuovo nella sua borsa. Adesso basta con i giri, caro Birillo, è ora di morire.
Si girò diretto verso casa quando vide Paola a pochi metri da lui, che camminava rapida a testa bassa. La prima tentazione fu quella di nascondersi, ma lei lo vide prima e accelerò il passo. Lo raggiunse trafelata e sconvolta.
“Oddio Franco è successa una cosa tremenda, è sparito Birillo, forse è uscito dal portone di casa, sono passato a casa tua a dirtelo ma non ti ho trovato, ti prego, aiutami a mettere degli annunci di scomparsa!”. Gli occhioni lucidi di chi ha appena pianto e teme una tragedia imminente, i pugni stretti vicini alle cosce. Per un istante Franco rimase rigido, immobile. Non sapeva proprio cosa fare, come smuoversi in modo convincente da quell’inattesa paralisi. Bloccato e confuso non si accorse neanche del miagolio insistente di Birillo, che stavolta sembrava poco propenso a farsi rapire di nuovo, e con le zampine cercava di arrampicarsi sul tessuto di quello scomodo alloggio che era la borsa di Franco.
“Ehi ma… hai qualcosa nella borsa… mi sembra…”
Vide il musetto bianco di Birillo emergere dall’apertura dell’allaccio della borsa, ad annusare l’aria fresca di una sera di primavera. Le pupille di Paola sgranate, l’espressione addolorata spazzata via come una foglia in un ciclone.
“Birillo, sei TU! Mi era sembrato di sentire la tua voce…”
Con solo tre dita lo estrasse dall’apertura della borsa nonostante l’incavo ristretto gli stirasse un fastidioso contropelo. Il micetto sulla sua faccia, inzuppato dalle lacrime di sollievo che scendevano copiose.
Franco come un bimbo colto col dito nella marmellata. E adesso come glielo spiego. Mentre Paola continuava a piangere di gioia come in una puntata di Carramba, Franco non riusciva a trovare una scusa che fosse valida al suo gesto. Adesso questa penserà che c’è qualcosa di strano in me, pensò, lo racconterà al papà, quello capirà, mi denuncerà e io perderò il lavoro. Sono di nuovo nella merda. Non finì di autocompatirsi che si ritrovò serrato nell’abbraccio di Paola, che con la mano destra reggeva il gattino ora a pochi centimetri dal suo collo. Con la faccia piantata sul petto di Franco, Paola continuava generosamente a versare litri di lacrime.
Ma che cazzo fa.
Quando finalmente si staccò da lui permettendogli di respirare, lo fissò con gli occhi che sembravano acini d’uva schiacciati.
“Grazie, grazie Franco, grazie davvero…”
Nel giro di due anni Franco divenne dirigente nella sede romana della multinazionale gestita dal papi di Paola. Il papi pensò infatti che offrire un posto di lavoro di tutto rispetto nella sua azienda era il minimo che potesse fare per l’uomo che aveva salvato da morte certa l’adorato gattino della sua figliola, fuggito di casa per la loro riprovevole incoscienza. All’inizio Franco aveva rifiutato per evitare di avere ancora a che fare con quella gente, ma quando seppe che lo stipendio mensile era pari a quello che avrebbe percepito in un anno nella compagnia internet, fu costretto a dir di sì.
Addio squallidi monolocali, ora vive in un enorme attico in centro con parquet e lampade flos e divani natuzzi e tv al plasma.
E’ pero costretto a recarsi da Paola quasi ogni santo giorno, e naturalmente deve recitare la parte dell’idiota, ma ora lo fa così bene che a volte teme di esserlo diventato. Come quegli adolescenti che si inventano assurde esperienze di sesso con tale convinzione che alla fine ci credono anche loro. Mami vorrebbe che i due si mettessero insieme visto che son fatti l’uno per l’altro, papi dice “non preoccuparti, sono giovani, arriverà il momento…”.
Franco sta al gioco ma si imbestialisce quando qualcuno in azienda lo indica come il genero del capo.
A volte, quando riesce a liberarsi dalle grinfie possessive di Paola che si fa sempre più invadente in attesa che lui si decida a fare il grande passo, gli torna in mente una frase che lo aveva molto colpito negli anni della scuola. E’ una massima scritta da Francesco I di Savoia dopo la sconfitta a Pavia per mano di Carlo V: Tutto è perduto fuorché l’onore.
Per lui è stato esattamente il contrario.
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