Se il gentile lettore non ha mai visto Psycho di Alfred
Hitchcock, lo invitiamo ad abbandonare immediatamente la lettura di questo post
per non rovinare l’eventuale futura visione di uno dei più bei film mai
realizzati. Altrimenti, resti pure con
noi.
Si parla della scena pre-finale, quando Vera Miles scende
nella cantina della casa dell’albergatore, vede la madre di Norman Bates seduta
di spalle, prova a parlarle sfiorandole la spalla ma la sedia ruota su se
stessa e si accorge che la madre di Norman è in realtà uno scheletro putrefatto,
che sfoggia in modo grottesco una dentatura ancora sana. Vera Miles lancia in
un grido acuto, urta inavvertitamente una lampadina che inizia ad ondeggiare rivestendo
lo scheletro della donna di un inquietante luce-ombra che sembra quasi
animarlo. E poi entra lui, Norman, con la vestaglia a fiorellini e la parrucca
grigia sulla soglia della scalinata, che alza il pugnale in aria con il ghigno
beffardo di chi gode per la vittima imminente.
Quella scena è una vera discesa all’inferno. Per chi scrive, tra le più agghiaccianti della storia del cinema. E in particolare è proprio l’immagine
di Norman ghignante in vestaglia e parrucca a gelare il sangue e sconfinare
nelle paure ataviche più profonde. Il terrore, quello autentico e non semplicemente
pilotato dai trucchi affabulatori di un bravo narratore, nasce dalla mancanza
di certezza, della possibilità di confinare ciò con cui veniamo a contatto in una
categoria ben definita e rassicurante. Il Norman di quella scena non è giovane
nè vecchio, non è uomo nè donna, è un ibrido che per un terribile secondo non
riusciamo assolutamente ad identificare. Un mostro, dunque, nella vera accezione
del termine; spaventoso perché non ha nessuna maschera fasulla che lo archivierebbe nella rassicurante famiglia degli orchi da fiaba, nè viene da un'altra galassia o mondo parallelo, ma potrebbe essere una persona qualunque, magari il nostro vicino. O addirittura noi stessi. Ma soprattutto, Norman con vestaglia e parrucca è un clown, un
buffone vestito da donna che in altri contesti ci avrebbe fatto sorridere o
storcere il naso per la sua puerilità. Nell’immaginario infantile, il clown è un personaggio ambiguo e inquietante, quello che ci faceva divertire
ma che nascondeva nel suo ghigno segreti con cui nessun bambino vorrebbe venire
in contatto. La forza di quella scena sta nella capacità di
Hitchcock di restiituire a noi adulti una paura, quella del clown, che è forse
la più radicata e inestirpabile che ci portiamo appresso dall’infanzia. Per un
terribile secondo, torniamo tutti ad avere sei anni.
Beh, il cinema potrà anche durare un altro millennio, ma qualsiasi
mostro digitale di futura generazione difficilmente potrà eguagliare il terrore
atavico che suscita Norman Bates in parrucca e vestaglia...
La scena di cui abbiamo parlato nel video in basso. Se avete
il coraggio...
Una decina di anni fa mi ero preso una sbandata incredibile per la protagonista di Fucking Åmål, uno dei miei film preferiti.
Straordinaria, magnifica, talentuosa, bellissima Rebecka Liljeberg. Avevo
registrato il film a notte fonda su Rai 2, e non facevo altro che rivederlo,
andando avanti e indietro con il telecomando del VHS alla ricerca dei suoi
primi piani. Ero ammaliato da quel viso pulito da fata dei boschi, dall’incredibile
espressività dei lineamenti, dai suoi silenzi impacciati carichi di fascino.
Sapevo che al minuto x della registrazione i suoi magnifici occhi neri
roteavano impacciati e si inumidivano di rabbia, che al minuto y aveva i
capelli legati a coda e sorrideva, che al minuto z voltava il baschetto bruno e
il suo profilo veniva accarezzato dalla luce del primo pomeriggio e rivolgeva
uno sguardo in macchina, e quindi a me che la guardavo sul teleschermo.
Con l’immaginazione sfrenata che si ha solo a vent’anni,
sognavo di partire ex-abrupto per Stoccolma, la città dell’attrice all’epoca
ventunenne, suonarle alla porta di casa e dirle: “Ciao, vengo dall’Italia e sono
innamorato di te, non fa niente che non mi vuoi, però voglio essere il tuo vicino
e riempirti di regali ed attenzioni finchè cambierai idea”. Mi avrebbe cacciato,
ma vedere per qualche istante il suo viso prima sorpreso, poi vagamente
infastidito, infine bonario come lo si è con i matti, sarebbe valso l’intero
viaggio.
Come ogni infatuazione, quella per Rebecka Liljeberg non
durò a lungo. I sogni sbiadirono presto la loro forza cromatica, e il senso del
reale e le scollature di alcune compagne di corso all’università tornarono per
fortuna ad insinuarsi nelle mie giornate.
Ma, quando si dice i casi della vita, qualche mese dopo ero
al festival del cinema di Venezia con un’associazione giovanile cui ero
iscritto, davo un’occhiata all’austero programma di seriosissime opere in
concorso, e il nome di Rebecka Liljeberg fece capolino nel cast del film Il
bacio dell’orso, del regista russo Sergei Bodrov.
Rilessi il nome tre o quattro volte, ma sarà lei? certo che
è lei, coglione, quante attrici di nome Rebecka Liljeberg vuoi che esistano?? Immediatamente
rinacque in me l’ardore di quelle serate spese a consumare le testine del
videoregistratore sul nastro di
Fucking Åmål.
Ok, era sicuramente lei, ma la domanda fondamentale a quel
punto era: Rebecka era al lido? Cercai di informarmi con i colleghi dell’associazione,
nessuno sembrava sapere chi diavolo fosse Rebecka Liljeberg. Ma dai, è quella
di
Fucking Åmål , non puoi non saperlo, dicevo. Ahh, ok, rispondevano, boo, non
lo so se c’è. Un attimo, si avvicinava un redattore vagamente gossipparo,
parlate del cast de Il bacio dell’orso? Ho visto il regista Sergei Bodrov
vicino al Palagalileo. E ‘sti cazzi, rispondevo io, ma Rebecka c’è? E chi è
Rebecka? Ok, lascia perde’.
Poi pensavo che era un gran colpo di fortuna che lei fosse
quasi sconosciuta, così non avrebbe avuto centinaia di fan rompicoglioni alle
costole, e avrebbe potuto dedicarmi più tempo. A patto che, effettivamente,
Rebecka fosse al lido.
Ebbene, Rebecka c’era. Pedinai uno dei redattori che doveva
incontrare il regista di quel film russo, e la vidi uscire dalle porte
scorrevoli dell’hotel Excelsior, dove si tenevano gli incontri con la stampa. Indossava
una t-shirt bianca e pantaloni neri larghi hip hop. Ci misi due secondi ad
accertare che fosse lei. Non c’era tempo per essere timidi e mi avvicinai a
passo rapido, vagamente agitato, riflettendo sul fatto che, quando attendi
impaziente qualcosa e poi finalmente ti capita, pensi sempre che avresti bisogno
di un minuto in più. Soltanto un minuto in più per distendere il battito
cardiaco e riorganizzare le idee.
Era davvero bassa, sotto al metro e cinquanta. La chiamai
per nome e non si girò. La richiamai a voce più alta e finalmente si accorse di
me. I’m your greatest fan ever, I saw all your movies, le dissi e le tesi la
mano, anche se non era vero, avevo visto solo Fucking Åmål e poi di film ne
aveva girati soltanto due. Lei mi sorrise e mi strinse la mano cortese,
biascicolò qualcosa come ohh nice, poi scese per un istante un imbarazzante silenzio, in cui mi sembrò di leggere sul suo sguardo un’espressione
del tipo “e adesso che vuole ‘sto pirla?”. Non volevo che il nostro incontro
finisse lì, e continuai a farle domandine generiche del tipo “è la tua prima
volta a Venezia? Quali sono i prossimi programmi?”. Lei rispondeva diligente e
con un sorriso di maniera, come chi va di fretta ma non vuole essere scortese.
Poi tirai giù lo zainetto che mi portavo appresso come uno scolaretto, ne tirai fuori un piccolo
block-notes e una penna, e le chiesi un autografo. Mentre mi scriveva una piccola dedica in inglese, l’impietosa luce bianca del
sole di mezzogiorno svelava piccole rughe precoci sul suo viso, e notai che le
guance e i fianchi erano più rotondi di quanto mi aspettassi. Era una Rebecka
più umana, una ragazza carina ma imperfetta come se ne vedono tante, che non
reggeva di certo il confronto con la Rebecka sullo schermo. Dopo l’autografo le
augurai il meglio per il futuro, lei ringraziò sorridendo ancora una volta e ci
salutammo.
Smisi presto di pensare a Rebecka Liljeberg, stavolta
definitivamente, ma quell’episodio rimane per me piacevolissimo ed emblematico.
Non tanto per l’esito dell’incontro in sè, ma per la fiducia verso le piccole
grandi sorprese che la vita può riservarti. Ti piace un’attrice straniera semisconosciuta
e naturalmente pensi che non avrai mai
modo di incontrarla, e invece pochi mesi dopo ti ritrovi faccia a faccia
proprio con lei, a scandire in maniera univoca tre interi minuti della sua
vita. Non di più, ma va bene così.
Dopo Il bacio dell’orso, Rebecka Liljeberg si è ritirata dal
mondo del cinema, ha ripreso gli studi e si è laureata in medicina. Oggi ha trentuno
anni, vive a Stoccolma con il fidanzato e ha tre figli.
In omaggio a questa grande ex-attrice, ecco nel video in
basso un’inarrivabile scena di Fucking Åmål (peccato per l’orrendo doppiaggio
italiano...).
Habemus papam di Nanni Moretti (visto con oltre un anno di
ritardo in un cinema danese) sembra uno di quei film nati da un’ intuizione
folgorante trasformata presto in ostinato capriccio, di quelli che solo
cineasti all’apice della carriera possono permettersi nonostante, a carte
in tavola e mente lucida, l’idea iniziale riveli poi la propria debolezza e
pretestuosità. In un certo senso,
Habemus papam rappresenta infatti la materializzazione di uno di quei deliranti sogni
morettiani generosamente centellinati nel cinema del regista romano, basti
pensare al musical ambientato in pasticcieria in Aprile o al lupo mannaro di
Sogni d’oro. Moretti dev’essere stato
affascinato dall’immagine di un papa in crisi che incontra uno psicologo, nonché dall’idea di un torneo di pallavolo tra gli attempati cardinali tra le mura
vaticane. E invece di farne una semplice clip come quelle già leggendarie de Il caimano, stavolta
ci ha costruito attorno un’intera opera.
Il problema è che, nel momento in cui
si mettono in scena massimi sistemi come religione, scienza, psicanalisi,
darwinismo e crisi esistenziale, le ambizioni del film crescono a misura
esponenziale e con loro il rischio di fallimento. Habemus papam non è un film
riuscito. I temi affrontati avrebbero richiesto ben altro coraggio, ispirazione
e forza espressiva. Moretti racconta invece la sua incredibile vicenda con occhio minimalista e senza alcuna ricerca di realismo, con i porporati
descritti come bonari buontemponi e Roma come una città colma di gente generosa
e sempre disposta a farsi in quattro per aiutare un anonimo anziano in
difficoltà. Una favola, dunque, ma semplicistica e fortemente irrisolta. Se nel
precedente Il caimano Moretti aveva
avuto per la prima volta il coraggio di farsi da parte e lasciare l’intera
scena al protagonista Silvio Orlando, qui se la spartisce con Michel Piccoli.
Con il risultato che il film non riesce a scavare nelle inquietudini di questo
papa né a dare un vero senso al suo criptico psicanalista. Certo, non mancano i
momenti straordinari, come quando il papa rivela timidamente il suo sogno
giovanile di diventare un attore, o l’immagine evocativa del balcone vuoto con
le tende rosse mosse dal vento, o la scena dei cardinali che ondeggiano e
battono le mani al ritmo di Todo Cambia di Mercedes Soza, o Moretti che arbitra la partita di
pallavolo dei cardinali mentre sproloquia sulla spietatezza del darwinismo. Ma
sono perle disperse in un generale grigiore. Forse Moretti voleva proprio
mettere in scena la pretestuosità dei massimi sistemi davanti alle debolezze
della vita. O forse il film va preso per quello che è, un divertissement. Che
però divertente lo è solo a metà.
La Nazionale di calcio è una grande maestra di vita. L'istituzione più venerata e rispettata che abbiamo in Italia. Non esiste alcun politico, nè filosofo o artista o scrittore che abbia la stessa capacità della Nazionale di calcio di incidere nella coscienza dell’italiano medio. Qualsiasi comizio, aforisma, poesia o dipinto non sarà mai in grado di segnare l’immaginario degli italiani come una rovesciata di Balotelli, una punizione di Pirlo, un colpo di testa di Cassano. Finiscano in rete o meno.
Bisognava lasciar decantare qualche giorno questo Campionato Europeo, lasciare che la ferita della finale iniziasse a cicatrizzarsi. E capire che il vero regalo di Prandelli e colleghi non è stato quello di restituire splendore ad una maglia infangata dal disastroso mondiale sudafricano, nè quello di valorizzare talenti del pallone sregolati (Balotelli e Cassano) o attempati (Pirlo), nè quello di confermare clamorosi ricorsi storici (la gagliardissima vittoria con la Germania in semifinale). Il vero dono della squadra di Prandelli agli italiani sta proprio nel quattro a zero della sconfitta finale. Perché per una volta il risultato così netto azzera qualsiasi risibile arrampicata sugli specchi dei tradizionali difensori a oltranza della maglia azzurra. L’Italia non ha perso la finale per errori arbitrali, favoritismi agli avversari, fuorigioco inesistenti, scelte tattiche sbagliate, espulsioni ingiustificate, rigori sfigati; l’Italia ha perso perché ha incontrato un avversario, la Spagna, inequivocabilmente più forte. Punto.
Il messaggio è arrivato con nitidezza schiacciante, e gli italiani hanno finalmente scoperto una qualità di cui non sono certo prodighi: l’umiltà. Riconoscere che la Nazionale Italiana è una grande squadra, certamente superiore alle previsioni iniziali, ma che c’è di meglio. Festeggiare le vittorie ma anche lasciar da parte una pomposità un po’ cialtrona e avere il coraggio di ammettere la propria inadeguatezza di fronte a chi è innegabilmente migliore. Frasi che in altri contesti farebbero storcere il naso, suonerebbero trite e moraliste e si depositerebbero in superficie per evaporare in fretta. Ma che nel momento in cui si traducono in uno spaventoso risultato negativo della Nazionale in una finale di un Campionato Europeo, hanno la forza di marchiarsi a fuoco nella coscienza di ogni italiano. Questa sconfitta ci ha reso più maturi. Nel calcio come nella vita. Bisogna saper perdere per poter imparare a vincere. Riconoscere i propri limiti è l’unico modo per riuscire a superarli, e diventare finalmente adulti. Ma, ancora, le nostre sono solo parole. Lasciamo che siano le incertezze di Chiellini, le parate di Casillas e i fuochi d’artificio di Jordi Alba e Torres a raccontarcelo meglio.