Sono anni che, quando attraversiamo in autobus una città
immersa nella notte e resa viva dai lampioni e dalle luci al neon delle insegne
dei locali, ci troviamo senza volerlo a fischiettare il motivo musicale di Luce
dei miei occhi. Film di Giuseppe Piccioni, colonna sonora (ammaliante come
sempre) di Ludovico Einaudi.
Un film sbagliato forse, melomane, artificioso, retorico, ridondante,
addirittura iettatorio secondo Paolo Mereghetti. Ma ricco di suggestioni memorabili. Scene come
quella iniziale (vedi il video in basso), con il tassista Luigi Lo Cascio che attraversa
una Roma notturna e quasi irriconoscibile, ci sono entrate nel cuore.
Il taxi e la città. Il dentro e il fuori. La Roma bluastra e
taciturna di Giuseppe Piccioni non è una Roma da cartolina. Non ricorda quella caotica
e colorata di Fellini, nè quella borgatara di Pasolini e Citti, tantomeno la
Roma iperrealista e coatta di Verdone e colleghi.
E’ una Roma da fantascienza, con il taxi che diventa una
navicella spaziale in un pianeta sconosciuto, come quello visitato da Morgan, l’eroe
del protagonista.
Ma è anche una Roma acquario, dove poche anime silenti
sembrano fluttuare come pesci, e le
vetrate di ristoranti e autobus imprigionano la luce di lampade da tavolo e
illuminazioni stradali. Si può essere vicini alle vetrate di un acquario, lasciarsi
sedurre dai colori delle piante marine e dai movimenti sinuosi e lenti dei
pesci che lo abitano. Ma il più delle volte si resta spettatori: arrampicarsi
come folletti sulla barriera di vetro, prendere
un bel respiro e lanciarsi con un bel tuffo carpiato in quella vasca dall'interno così visibile eppur così misterioso non è, in molti casi, possible.
Il tassista Luigi Lo Cascio è lo spettatore della Roma
acquario: chiuso tra le pareti rassicuranti e mortifere del suo sottomarino-taxi, non avrà mai il coraggio di superarle. Non diventerà mai un pesce.
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