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domenica 30 giugno 2013

Le pareti del tuo mondo

In una triste serata di fine maggio, una di quelle serate tanto temute che accartocciano i piani della vita come le pagine di un vecchio diario, Gennaro aveva preso i tramonti infuocati tra il valico delle colline e gli stormi di gabbiani che si librano sul cielo ardesia delle prime luci dell’alba, aveva preso il riflesso della luna piena sul mare calmo della notte, i granelli di luce pulsante dei cieli stellati, le farfalle sospese come fiori sui campi di grano agitati dal vento, li aveva presi tutti, li aveva rimossi con perizia dalla superficie liscia delle pareti del suo mondo tirandoli via come etichette adesive dai bordi ormai scollati. Dopodiché li aveva impilati l’uno sull’altro e infilati in una cartellina di cartone azzurro con una chiusura ad elastico.
Era dunque un mondo bigio e cinereo quello che gli era rimasto, in cui si ostinava a passeggiare mesto portandosi la cartella azzurra sotto il braccio. A volte, seduto su una panchina arrugginita a mirare il nulla, gli capitava di stringere la sua cartella forte sul petto, fiero di un tesoro che era solo suo e non lo avrebbe abbandonato. E sospirava aspettando il momento in cui sarebbe tornato a riattaccare sulle pareti del suo mondo le immagini che aveva con sé.
Ma poi arrivò l’inverno,  e durante una delle sue meste passeggiate fu colto da un temporale improvviso. Tornò a casa fradicio, e ahimè, la sua cartellina di cartone era anche zuppa e aveva ora la consistenza della carta velina. La aprì e vide che le sue preziose immagini erano ora imbrattate e confuse, con i colori dei tramonti e delle stelle che scivolavano via dalla superficie come tempere diluite.  Disperato, era lì per gettarle, ma si accorse di non esserne in grado. Le strinse forte al petto, scolorite e inutili.
Tornò la primavera e Gennaro riprese a passeggiare per il suo mondo grigio con la cartellina sgualcita sotto il braccio. Un giorno la panchina arrugginita su cui era solito sedersi non era vuota. C’era una ragazzina dalle ossa minute, i capelli raccolti e gli occhioni limpidi come rugiada.
Cosa stringi al petto, chiese la ragazzina a Gennaro quando lui si fu seduto.  
Niente, rispose lui timido.
E’ una cartella rovinata e scolorita, disse lei.
Gennaro alzò le spalle e se ne andò.
Il giorno dopo la ragazzina era ancora seduta lì. Gennaro fece per passare avanti, ma poi, senza spiegarsene il motivo, finì per sedere di nuovo al suo fianco.
Mi chiamo Martina, disse lei.
Io sono Gennaro, rispose lui.
Lei gli chiese di nuovo cosa fosse quella cartella.
Sono cose vecchie, niente di importante, disse Gennaro evitando di guardarla negli occhi.
Se non hanno alcun valore, perchè continui a stringerle al petto, chiese lei. Gennaro era lì per rispondere quando Martina con una mossa fulminea gli strappò via la cartella dalle braccia.
Ridammela, protestò Gennaro. Ma la ragazzina si era già alzata in piedi e aveva tirato via l’elastico. Una dopo l’altra aveva passato in rassegna quelle immagini imbrattate e confuse, con colori slavati e ormai spenti, e si era voltata verso Gennaro con un’espressione interrogativa sul viso. Dopodichè, con un gesto improvviso aveva lanciato quelle pagine per aria. Il vento aveva disperso rapidamente le vecchie immagini di Gennaro tra gli angoli remoti di quel mondo cinereo e livido.
Perché lo hai fatto, chiese Gennaro disperato, e corse via piangendo.
Quando il giorno dopo tornò a sedersi sulla panchina arrugginita, stavolta senza la cartella, Martina gli strinse forte la mano.
Perchè tenevi tanto a quella cartella, gli chiese.
Perchè c’erano le immagini del mio mondo lì dentro, rispose lui, adesso tu le hai gettate via e guarda cosa mi è rimasto. Non ci sono altro che pareti livide intorno a me, il cielo stesso è una parete, ed è così plumbeo e ferrigno che non lo distinguo più dal marciapiede. E’ un grigio che mi acceca, e non c’è nulla che io possa fare.
In quella cartella avevi solo vecchi fogli, disse Martina, non ha alcun senso illuderti di poter riattaccarli alle pareti. Hanno i bordi accartocciati e finirebbero per non fare presa, cadrebbero a terra.
E dalla borsetta di feltro che aveva al suo fianco estrasse un astuccio viola rotondo. Lo aprì, e ne tirò fuori un pastello di cera azzurro. Lo diede a Gennaro, e guidandogli la mano, gli fece disegnare una linea orizzontale sulla parete davanti.
Guarda, gli disse, adesso c’è una linea che separa il cielo dal marciapiede, adesso puoi distinguerli. E, sempre tenendo la mano di Gennaro nella sua, iniziò a colorare di azzurro la parete grigia davanti alla loro panchina. Quando ebbero riempito di un colore ancora abbozzato e vago una porzione sufficiente della parete, Martina estrasse un pastello bianco, e disegnò una virgola sulla superficie ormai azzurrognola.
Basta poco a disegnare un gabbiano, disse, è più facile di quel che credi.

Da quel giorno, Gennaro ha ricominciato a disegnare le pareti del suo mondo. Con colori nuovi, con tratti differenti. Martina gli tiene la mano mentre prova a tratteggiare i contorni sfocati del tramonto, le linee oblique delle spighe di grano, l’alone tremolante del fuoco e delle stelle. Man mano che Gennaro disegna e colora, a poco a poco la sua pelle si fa più ruvida, il suo sorriso più stanco, i suoi capelli più radi. Un giorno dovrà smettere e non gli resterà altro che rimirare il suo cielo stellato. Sa già che non sarà perfetto, che le stelle non saranno poi così luminose, che non sarà grande come avrebbe voluto. Ma sarà felice lo stesso. 
Perché pare che le stelle siano infinite, e quelle che non riusciamo a vedere possiamo solo limitarci a sognarle.   


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