In una triste serata di fine maggio, una di quelle serate tanto
temute che accartocciano i piani della vita come le pagine di un vecchio diario, Gennaro
aveva preso i tramonti infuocati tra il valico delle colline e gli stormi di
gabbiani che si librano sul cielo ardesia delle prime luci dell’alba, aveva
preso il riflesso della luna piena sul mare calmo della notte, i granelli di
luce pulsante dei cieli stellati, le farfalle sospese come fiori sui campi di
grano agitati dal vento, li aveva presi tutti, li aveva rimossi con perizia dalla superficie liscia delle pareti del suo mondo tirandoli via come etichette adesive
dai bordi ormai scollati. Dopodiché li aveva impilati l’uno sull’altro e
infilati in una cartellina di cartone azzurro con una chiusura ad elastico.
Era dunque un mondo bigio e cinereo quello che gli era
rimasto, in cui si ostinava a passeggiare mesto portandosi la cartella azzurra sotto
il braccio. A volte, seduto su una panchina arrugginita a mirare il nulla, gli
capitava di stringere la sua cartella forte sul petto, fiero di un tesoro che
era solo suo e non lo avrebbe abbandonato. E sospirava aspettando il momento in
cui sarebbe tornato a riattaccare sulle pareti del suo mondo le immagini che
aveva con sé.
Ma poi arrivò l’inverno, e durante una delle sue meste passeggiate fu
colto da un temporale improvviso. Tornò a casa fradicio, e ahimè, la sua
cartellina di cartone era anche zuppa e aveva ora la consistenza della carta
velina. La aprì e vide che le sue preziose immagini erano ora imbrattate e
confuse, con i colori dei tramonti e delle stelle che scivolavano via dalla superficie
come tempere diluite. Disperato, era lì
per gettarle, ma si accorse di non esserne in grado. Le strinse forte al petto,
scolorite e inutili.
Tornò la primavera e Gennaro riprese a passeggiare per il
suo mondo grigio con la cartellina sgualcita sotto il braccio. Un giorno la
panchina arrugginita su cui era solito sedersi non era vuota. C’era una
ragazzina dalle ossa minute, i capelli raccolti e gli occhioni limpidi come
rugiada.
Cosa stringi al petto, chiese la ragazzina a Gennaro quando
lui si fu seduto.
Niente, rispose lui timido.
E’ una cartella
rovinata e scolorita, disse lei.
Gennaro alzò le spalle e se ne andò.
Il giorno dopo la ragazzina era ancora seduta lì. Gennaro
fece per passare avanti, ma poi, senza spiegarsene il motivo, finì per sedere
di nuovo al suo fianco.
Mi chiamo Martina, disse lei.
Io sono Gennaro, rispose lui.
Lei gli chiese di nuovo cosa fosse quella cartella.
Sono cose vecchie, niente di importante, disse Gennaro
evitando di guardarla negli occhi.
Se non hanno alcun valore, perchè continui a stringerle al
petto, chiese lei. Gennaro era lì per rispondere quando Martina con una mossa
fulminea gli strappò via la cartella dalle braccia.
Ridammela, protestò Gennaro. Ma la ragazzina si era già
alzata in piedi e aveva tirato via l’elastico. Una dopo l’altra aveva passato
in rassegna quelle immagini imbrattate e confuse, con colori slavati e ormai
spenti, e si era voltata verso Gennaro con un’espressione interrogativa sul
viso. Dopodichè, con un gesto improvviso aveva lanciato quelle pagine per aria.
Il vento aveva disperso rapidamente le vecchie immagini di Gennaro tra gli
angoli remoti di quel mondo cinereo e livido.
Perché lo hai fatto, chiese Gennaro disperato, e corse via
piangendo.
Quando il giorno dopo tornò a sedersi sulla panchina
arrugginita, stavolta senza la cartella, Martina gli strinse forte la mano.
Perchè tenevi tanto a quella cartella, gli chiese.
Perchè c’erano le immagini del mio mondo lì dentro, rispose
lui, adesso tu le hai gettate via e guarda cosa mi è rimasto. Non ci sono altro
che pareti livide intorno a me, il cielo stesso è una parete, ed è così plumbeo e ferrigno
che non lo distinguo più dal marciapiede. E’ un grigio che mi acceca, e non c’è
nulla che io possa fare.
In quella cartella avevi solo vecchi fogli, disse Martina, non
ha alcun senso illuderti di poter riattaccarli alle pareti. Hanno i bordi
accartocciati e finirebbero per non fare presa, cadrebbero a terra.
E dalla borsetta di feltro che aveva al suo fianco estrasse
un astuccio viola rotondo. Lo aprì, e ne tirò fuori un pastello di cera azzurro.
Lo diede a Gennaro, e guidandogli la mano, gli fece disegnare una linea
orizzontale sulla parete davanti.
Guarda, gli disse, adesso c’è una linea che separa il cielo
dal marciapiede, adesso puoi distinguerli. E, sempre tenendo la mano di Gennaro
nella sua, iniziò a colorare di azzurro la parete grigia davanti alla loro
panchina. Quando ebbero riempito di un colore ancora abbozzato e vago una
porzione sufficiente della parete, Martina estrasse un pastello bianco, e
disegnò una virgola sulla superficie ormai azzurrognola.
Basta poco a disegnare un gabbiano, disse, è più facile di
quel che credi.
Da quel giorno, Gennaro ha ricominciato a disegnare le
pareti del suo mondo. Con colori nuovi, con tratti differenti. Martina gli
tiene la mano mentre prova a tratteggiare i contorni sfocati del tramonto, le
linee oblique delle spighe di grano, l’alone tremolante del fuoco e delle
stelle. Man mano che Gennaro disegna e colora, a poco a poco la sua pelle si fa
più ruvida, il suo sorriso più stanco, i suoi capelli più radi. Un giorno dovrà
smettere e non gli resterà altro che rimirare il suo cielo stellato. Sa già che
non sarà perfetto, che le stelle non saranno poi così luminose, che non sarà
grande come avrebbe voluto. Ma sarà felice lo stesso.
Perché pare che le stelle siano infinite, e quelle che non riusciamo
a vedere possiamo solo limitarci a sognarle.
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