Tante volte abbiamo sentito dire che ci sono fili invisibili
che uniscono le persone che si vogliono bene. Non si vedono, ma tutti sanno che
ci sono.
C’è un certo Pasquale che ha il potere di vederli, quei
fili. A sentire le sue descrizioni, ognuno di loro sembra fatto di nylon, ha sfumature
bluastre, e vien fuori da un poro qualsiasi della pelle. Lo vede spuntare ad
esempio dal sopracciglio sinistro di un uomo sulla trentina seduto al
ristorante con la sua bella davanti, lo vede attraversare i pochi centimetri che lo
separano dal labbro inferiore di lei, ora aperto ad un sorriso impacciato e
commosso mentre osserva l’anello che lui, finalmente, le sta offrendo davanti
al piatto di capesante gratinate. Lo vede
unire il neo sul collo della sua anziana vicina di casa con il mignolo
artritico del consorte ottantenne seduto in poltrona con il plaid sulle gambe e
il giornale davanti mentre lei si dà alle pulizie domestiche. Lo vede spuntare dal mento della cugina diciottenne affacciata alla
finestra del terzo piano, e scender giù fino alla strada e finire sul gomito
destro del suo riccioluto compagno di banco che strimpella la chitarra per lei.
A volte quei fili sono più solidi e resistenti dell’acciaio,
a volte si sfibrano come seta usurata. E si rompono anche. Le distanze non
contano, ci sono fili che rimangono tesi anche quando uniscono persone in
diversi continenti scavalcando montagne oceani e foreste, altri che si rompono con un semplice strattone anche tra persone che vivono sotto lo stesso tetto.
Molti dicono che quei fili nascono dal cuore, ma Pasquale sa
bene che non è così, che sono solo sciocchezze da agenda Smemoranda. Quei fili
nascono dallo stomaco, e ne tirano le pareti quando diventano tesi. Per questo
si ha quel senso di vuoto dentro quando la persona a cui sei unito è lontana ma
il filo continua a tirare.
Molti dicono anche che il mondo è pieno di solitudine e indifferenza. Eppure, ogni volta che Pasquale attraversa la città si trova a
fronteggiare un groviglio inestricabile di fili che spuntano dalle finestre dei
palazzoni ai lati della strada, dagli abitacoli delle auto in coda davanti al
semaforo e persino dai passanti che si riversano sui marciapiedi con le buste
bianche della spesa. Un vero e proprio
percorso ad ostacoli per Pasquale, che saltella, inciampa, scavalca, abbassa la
testa per districarsi e non essere strangolato dai fili più tesi e robusti. A
volte ne è infastidito ed è preso da manie distruttive, si appende ad uno di
loro con tutto il suo peso ma finisce solo per farsi del male al palmo della
mano, oppure prova a calpestarli, a strapparli con le mani.
Capita anche che ci riesca. Come quella volta con Camilla,
una graziosa dirimpettaia il cui filo che la univa al panettiere sotto casa era
per Pasquale motivo di autentico struggimento. Quel filo maledetto gli passava
proprio davanti alla finestra, uscendo dall’appartamento al piano inferiore e
perdendosi tra le ginestre del balconcino di Camilla. All’inizio aveva provato
a tagliarlo con un paio di forbici, ma
non ci era riuscito. Una sera li aveva sentiti litigare dal piano di sopra. Non
era riuscito a cogliere le parole, ma si era reso conto che Camilla rispondeva imbronciata
al tono insolente delle domande di lui. Dopodichè aveva udito il portone di
casa sbattere, e Camilla era tornata a casa sua risalendo le scale di corsa.
Quella sera il filo che usciva da casa del panettiere e finiva nell’appartamento
di Camilla sembrava più fragile e allentato che mai. Pasquale si era sporto
dalla finestra e l’aveva afferrato con una presa secca. Immediatamente il filo
si era spezzato. Pasquale l’aveva dunque tirato a sè e collegato con il filo che gli penzolava dalla coscia destra con
un semplice nodo a fiocco. Finalmente c'era un filo che lo univa a Camilla!
Ma Pasquale aveva capito ben presto di non essere poi
così bravo a maneggiare i fili degli altri. Si era aspettato che facendo un bel
nodo stretto, le due estremità finissero per fondersi come i lembi
di pelle di una ferita curata. Ma dopo un paio di uscite serali con Camilla si rese conto che non solo il nodo era ancora lì, ma sembrava essersi
allentato. Alla fine, stanco, decise di dargli uno strattone. Gli rimase il
mano il suo filo mentre quello di Camilla scivolò via rapido come il cordone di
lattine vuote che certi sposi attaccano alla loro vettura il giorno del matrimonio.
Pasquale ha ancora il suo filo, quello che gli spunta dalla coscia destra e aveva provato senza successo ad annodare al filo di Camilla. Ma tale filo è spezzato da anni, da una plumbea serata invernale di qualche anno prima, una serata da geloni e neve rancida in cui la sua lei gli aveva chiuso la porta in faccia lasciandolo al freddo. Da quel giorno il filo reciso lo segue mesto come lo strascico di un vestito da sera, quando si riversa sulle strada e si fa in quattro per districarsi nella ragnatela dei fili degli altri. A volte si siede su una panchina, prende il filo in mano e lo agita in aria come un lazo, sognando magari di accalappiare qualcuno come fanno i gauchos sudamericani con tori e cavalli. Ma sa bene che si tratta di un’illusione. Il filo che ha in mano è reciso da tempo. A poco a poco si ritirerà all’interno dello stomaco e sparirà.
Si stende sulla panchina e guarda il cielo. Due nuvole
grigio perla giocano ad oscurare i raggi del sole che gli piombano sul viso e
lo costringono a chiudere gli occhi. Pasquale pensa al suo filo reciso morto e
penzolante come un tulipano dallo stelo spezzato. Pensa che senza un filo che ci unisce a qualcuno, siamo tutti destinati a vagare senza meta come trottole impazzite. E alla fine sorride. Si
chiede se spunterà sotto l’ascella o sulla punta del naso o tra le dita dei
piedi. Il prossimo filo, intendo.
Nessun commento:
Posta un commento