Spulciando tra vecchi, vecchissimi file word, è uscita fuori la strampalata storiella che riportiamo sotto, scritta di getto nel lontano 2004. Il titolo è quello che vedete sopra.
Sulla tovaglia non ancora sparecchiata un’enorme busta di patatine al formaggio.
Marco decide che per nessuna ragione al mondo l’aprirebbe.
Marco apre la busta di patatine, ne afferra una manata e se la porta in bocca.
Come le pale di un tritarifiuti i suoi denti massacrano quelle sfoglie dorate trasformandole in pochi istanti in una pappa giallastra e salata.
La bocca sbatte, la masticata è meccanica e rumorosa. Rabbia, sonno, rancore, noia, frustrazione. Nessun appetito.
Ha lo stomaco rigirato come una frittata per la solita ricetta salcicce e dessert con panna cui viene sottoposto da zia Palmira a cadenza settimanale. E ha deciso di farsi del male.
Mentre si lascia cadere esausto con la bocca piena sul divano, si accorge che dagli occhi scivola più di una lacrima. Cazzo, di nuovo il raffreddore estivo, pensa.
I raffreddori estivi sono i peggiori, ti attanagliano la faccia e i sensi in una morsa; e non c’è palliativo immediato come potrebbe essere il calduccio del fuoco d’inverno.
Silvia è una stronza, lo ha lasciato per Richie Cunningham. E Marco è solo a casa di zia Palmira, gettato sul divano come uno straccio usato sul pavimento, bocca piena e mani sporche d’olio e faccia gonfia e lacrime da raffreddore.
Fa proprio schifo a guardarlo, ma non ditelo, c’è il rischio che ritrovi fiducia in sé stesso. Silvia glielo diceva sempre, fai schifo Marco, sei un vero cesso, con quella pappagogia e quei capelli unti e quei denti storti. Con la tua voce che sembra uscire da un pozzo di catarro e quello sguardo da triglia in catalessi. Ma due secondi dopo lo baciava sulla fronte perennemente sudata e gli diceva che era fortunata ad aver trovato un uomo meravigliosamente disgustoso come lui. Marco ne era felice, finalmente una donna che lo apprezza per ciò che è davvero, senza essere costretto a pulirsi la faccia e radersi e farsi la doccia per avventurarsi in quella giungla di false promesse che chiamano mondo civile.
Lui e Silvia si erano conosciuti al Corridore, vale a dire nel più romantico dei luoghi.
Il Corridore è il ristorante preferito di Marco, c’è il proprietario che va in giro in canottiera con i tovaglioli sotto l’ascella sudata, e ti serve la minestra con il pollice infilato dentro a insaporire l’intruglio. Quando è fuori di galera, c’è il Guercio che suona la fisarmonica per ore filate senza pausa.
Marco era a cena con i soliti compagni di sbronze. Gianni gli aveva versato un bicchiere di rosso, lui l’aveva tracannato in un sorso; dopodiché aveva ruttato soddisfatto.
Era un rutto che sembrava uscire dalle viscere della terra, una rapsodia a molteplice cambio di tonalità. Un vero assolo da maestro.
I suoi amici si sbellicarono dalle risate come se non fossero abituati a quelle performance, che Marco chiamava creazioni. Persino il Guercio smise di suonare per qualche secondo.
“C’è una che ti guarda”, gli disse Tonino sgomitando, e indicò un tavolo alla sua destra. Marco si girò e i suoi occhi incontrarono quelli di Silvia, che cenava assieme ad altre ragazze. Le amiche sembravano non essersi accorte dello spettacolo di Marco, e continuavano il loro chiacchericcio con la schiena curva sul tavolo. Silvia, invece, lo osservava con quella che gli parve infinita sorpresa e ammirazione. Da lì a conoscersi era un soffio, e Marco lo sapeva. Dimenticando le inibizioni che spesso aveva con le donne – quelle non giuste- si alzò dal tavolo.
“Perché non vieni a bere qualcosa qui da noi?”
Cazzo, pensò, sto sbagliando tutto, sono troppo precipitoso, adesso mi dirà “no, grazie” e nei suoi occhi leggerò invece “coglione, non così presto, avresti potuto dirmi qualcosa a fine serata ma in questo modo ti sei giocato la tua grande occasione…”
“Come no, magari!”
Ed era già in piedi vicino Marco. Sergio schioccò le dita e il proprietario sapeva già che doveva portare una sedia al loro tavolo. Quando Silvia si sedette Sergio le aveva già riempito un bicchiere fino all’orlo. La ragazza lo afferrò di scatto versando alcune gocce sulla tovaglia, che era un vero collage di macchie di sugo e unto, con annesse montagnole di cibo rinsecchito. Si portò una mano alla bocca.
“Cavolo…versare il vino è peccato…”
Non finì di dirlo che era lì con la faccia sulla tovaglia, che leccava come se avesse davanti la parete caramellata di Willy Wonka.
Se fino a quel momento l’interesse di Marco era stato solo da semplice approccio per una bella ragazza, con quel gesto qualcosa era successo. Dura da ammettere, ma leccare quella tovaglia che non conosceva lavaggio dall’anteguerra avrebbe fatto schifo persino a lui. Marco era scosso, incredibile ma vero, era innamorato.
L’ultima volta che si era innamorato aveva quattro anni, quando all’asilo aveva visto una bimba sollevarsi la gonna, sfilarsi le mutandine e fare pipì sopra ai giocattoli, con infinita costernazione delle maestre e ammirazione degli altri mocciosi.
Da allora erano trascorsi più di trent’anni, e mentre vedeva Silvia leccare la tovaglia e tracannare tre bicchieri di fila e ruttare soddisfatta, quell’episodio che aveva tanto segnato la sua vita tornò a far capolino tra i suoi pensieri con assoluta nitidità. E non era un caso. Silvia era la donna della sua vita, non doveva farsela sfuggire.
Dopo la cena, si offrì di riaccompagnarla a casa e lei accettò con l’entusiasmo di chi aspetta quella proposta dal primo istante. Durante il tragitto sulla sua Citroen gli aveva parlato di lei, studiava all’università, era prossima alla laurea in antropologia, era single. Marco non aveva mai messo piede in un’università, e soprattutto non aveva mai sentito pronunciare la parola antropologia; questa ragazza è troppo sofisticata per me, pensò con leggero sconforto, mi sono illuso.
Il giorno dopo si misero insieme. E per Marco iniziò un periodo di costante ansia da fibrillazione; in officina non azzeccava più una pinza, svitava i bulloni invece di avvitarli, montava marmitte al contrario. Arrivò persino a riempire una batteria di benzina invece che di acqua distillata. Era ossessionato dal tempo. Contava i minuti e poi anche i secondi che lo separavano dal fatidico orario di chiusura, quando finalmente poteva fuggire a casa di Silvia.
La sua ragazza – era orgoglioso di poterla definire così- divideva un appartamento in affitto con altre due studentesse più giovani, appena ventenni. Ma dopo un mese che loro due stavano insieme le compagne di casa la abbandonarono. Persino Marco riuscì a capire che quell’omone di quasi quarant’anni che ogni pomeriggio invadeva casa loro con la tuta sporca di grasso, e senza alcuna cortesia spalancava la credenza rubando scatole di biscotti e pacchi di pasta, aveva influito non poco nella loro scelta. Marco non si lasciò sfuggire l’occasione, e durante la merenda delle cinque le disse:
“Vieni a stare da me… tu dormi in camera mia e io nel divano in soggiorno.”
“E’ meglio di no…”
“Possiamo anche unire il mio letto e il divano e fare un letto matrimoniale…”
“Mi tenti, ma non posso…”
“Possiamo anche buttar via il divano e dormire insieme nel mio letto…”
“Sarebbe davvero meraviglioso, ma sto scrivendo la tesi e ho bisogno di concentrazione, preferisco continuare a vivere da sola per un po’…”
E gli aveva infilato in bocca un peperoncino sott’olio ripieno di capperi per zittirlo con amore.
Aveva trovato un monolocale in centro, pazienza.
Senza quelle scassaballe delle coinquiline che gli imponevano di pulirsi le scarpe nello zerbino prima di entrare, o di lavarsi le mani prima di contaminare qualsiasi oggetto della casa, di non tossire senza la mano davanti alla bocca, e una miriade di altre menàte, lui e la sua Silvia trascorsero il periodo più bello della loro storia d’amore, tra gare di rutti, starnuti faccia a faccia e tovaglioli sporchi, litri di birra e di vomito, in un’orgia di microbi e di affetto.
Indelebile nella sua memoria il loro anniversario di fidanzamento. Silvia aveva cotto due chili di spaghetti conditi a forza sette. Per la cronaca: 1) peperoni 2) cipolla 3) aglio 4) pomodoro 5) melanzane 6) zucchine 7) bietola. Aveva portato l’enorme vassoio fumante a tavola, e quando Marco era lì per impugnare la forchetta
“ALT! Oggi niente posate…si mangia con la bocca e basta.”
E lo aveva costretto a congiungere le mani dietro la schiena, e infilare la faccia nel vassoio per nutrirsi. Per un’ora si diedero capocciate in continuazione mentre la lingua di ognuno cercava di rubare all’altro il peperone più rosso, o la melanzana dall’aspetto più appetitoso. Più volte afferrarono coi denti lo stesso spaghetto da estremità opposte, e, tirando tirando, finivano per baciarsi, in una specie di imitazione pecoreccia di Lilli e il vagabondo.
Dopo la pasta, affettarono uno sfilatino da mezzo chilo per la scarpetta. Alla fine Silvia le aveva sorriso come sapeva fare lei, e con gli occhi fissi sui residui di cibo che le incrostavano i denti luminosi come alghe su gemme salmastre, Marco si chiese per quale piano divino una ragazza mora e attraente e intellettuale si fosse innamorata di lui, ma poi smise di pensarci.
Il bello dei miracoli è che accadono. Non c’è da chiedersi il perché.
E improvvisa com’era iniziata, quella storia finì. A dire il vero poteva pensarci prima che c’era qualcosa di strano in quell’ossessione della tesi. All’inizio parlava di tesi una volta tanto, poi sempre più di frequente, fino a diventare una sorta di terzo incomodo tra loro due. No, domani non posso che devo incontrare il professore per la tesi, no, più tardi no che devo scrivere l’introduzione della tesi, no, stasera no che devo cercare materiale per la tesi. Marco chiese a Filippo, il suo assistente in officina che era laureato in lettere moderne, cosa fosse questa cazzo di tesi. Il ragazzo gli spiegò che si tratta di scrivere un libro scopiazzando qua e là, e serve per laurearsi.
Quel triste giorno che sembrava tanto lieto il sole era cocente e le rondini squittivano, e Marco aveva deciso di fare una sorpresa a Silvia.
“Filippo, puoi andare, chiudiamo adesso!”
“Ma sono le tre!”
“Non preoccuparti, piuttosto dimmi una cosa…”
Si era fatto spiegare dove fosse la facoltà di antropologia. Per l’occasione si era anche tolto l’inseparabile tuta di lavoro e aveva indossato una polo verde speranza lavata meno di due anni prima. Una volta giunto nel palazzo dell’università, si era aggirato per i corridoi disorientato come un pulcino nel deserto. Quello era il regno del silenzio, dove una placida coltre di noia era scesa su masse di pallidi ragazzi occhialuti con zaini alle spalle e sguardo basso. Tutti si muovevano lentamente, come per paura che un gesto avventato potesse scuotere quel sonnolento torpore.
Come fa Silvia a stare in questo posto, si era chiesto. L’aveva vista all’angolo di un corridoio, parlava a bassa voce con un ragazzo. Subito era corso da lei ostentando il suo sorriso a denti gialli.
“Silvia!”
La ragazza si era voltata sorpresa, e Marco aveva capito che il suo sgranare gli occhi non trasudava proprio gioia. Non c’era quel sorriso trascinante che le aveva visto in altre occasioni, stavolta era un semplice inarcamento delle labbra.
“Marco, che bella sorpresa…”
Sorpresa sì, ma non mi sembra che per te sia bella.
“Ti presento Giuseppe.”
E aveva dovuto stringere la mano ad una specie di clone occhialuto del Richie di Happy Days. Dopodiché era sceso di nuovo il silenzio. Imbarazzante. Lui, lei e Richie Cunningham con gli occhiali.
“Marco, ti devo parlare…”
e strattonandogli un braccio lo aveva condotto lontano da Richie.
“Marco, ti sarai accorto che tra me e te le cose non sono più come un tempo…”
No, non me ne sono accorto, voleva dirgli, proprio ieri sera siamo stati al Corridore che ci ha fatto l’impepata di cozze al marsala e abbiamo riso e bevuto tanto. Ma non lo disse e rimase silenzioso e a bocca aperta come un baccalà.
“Marco, vedi…”
Se inizia di nuovo una frase col mio nome le tiro un cazzotto sul muso.
“Marco, io…”
Lo ha fatto ma non ce la faccio ad allungarle un pugno.
“Marco io sono innamorata di Giuseppe…”
E chi cazzo è Giuseppe? Con un cenno del viso indica Richie. Ah è lui, è vero. Peccato che quando gli ho stretto la mano un minuto fa non ci ho sputato sopra, pensò.
Ma l’ironia lo aveva abbandonato e si era accorto che le labbra gli tremavano e aveva un attacco di raffreddore. Il naso colava e se l'era asciugato con la manica della polo.
“Silvia ma non può essere… tutte le belle cose che ci siamo detti, le cene, gli scherzi, le cozze…”
“E’ stato bello ma è finito, Marco.”
Stavolta il nome alla fine della frase. E non c’era traccia di compatimento nella sua voce, i suoi occhioni neri erano fermi e risoluti.
Marco era uscito da quel palazzo maledetto a passo rapido, non sapeva neanche se era triste o incazzato o depresso. Ma gli occhi lacrimavano. Cazzo di raffreddore estivo, pensò.
Ed eccolo lì sdraiato sul divano a rimpinzarsi di patatine. Alla fine infila la testa nella busta vuota di alluminio e sembra un membro del Ku Klux Klan. I residui di patatine gli cadono tra collo e capelli. Rientra zia Palmira.
“Marcolino, ma che hai fatto? Perché ti sei messo quella busta in testa…”
Si alza di scatto e alza le braccia e urla come un aspirante westler.
“Marcolino ma che fai, mi fai paura così!”
Si toglie la busta dal viso, non vuole che la vecchia muoia d’infarto. E’ troppo affezionato a sua zia. Starnutisce e si soffia il naso con la busta.
“Sei raffreddato, Marcolino?”
Maledetta Silvia, mi ha fatto venire il raffreddore estivo, pensa per l’ennesima volta.
Zia Palmira è la sua unica parente in vita. Appena uscito dall’università aveva ricevuto una sua telefonata. Gli ricordava che era martedì, e ogni martedì prepara le salsicce e vuole che il suo nipotino venga a pranzo da lei. Marco si era strafogato di salsicce, presto aveva perso il conto. E anche il dessert alla panna. E anche le patatine fritte. Presto vomiterà, lo sa.
Dopo essersi dunque svuotato per via orale, tira lo sciacquone e sente un rutto. E’ un suono elettronico; si ricorda di aver registrato un suo rutto per metterlo come segnale di arrivo sms. Afferra il cellulare posato sul davanzale, e legge il nome Silvia. E adesso che vuole. Avverte una leggera tachicardia.
Testo dell’SMS: Se vuoi una spiegazione vieni venerdì in aula magna della facoltà.
Si guarda allo specchio. Ha i capelli pieni di briciole che sembrano una brillantina da gay. Gli occhi lucidi.
Vorrebbe telefonarle per avere una spiegazione senza dover attendere tre giorni, ma non lo fa.
Venerdì indossa dunque la polo verde e si dirige con la Citroen in quel posto dimenticato da dio. Parcheggia in un vicolo laterale e si accorge che Richie Cunningham ha parcheggiato la sua Mazda a pochi metri da lui. Scende e vede che è incravattato come un venditore di enciclopedie. Stronzo bastardo, se prova a salutarmi lo strangolo con la sua stessa cravatta, pensa Marco. Ma Richie non lo saluta.
Appena entrato nel palazzo si accorge che c’è un casino di gente. Donne in tailleur e vecchi in completo nero o grigio; quintali di fiori ovunque e agli starnuti da raffreddore si aggiungono quelli della sua allergia. Che posto di merda.
Si fa indicare l’aula magna e scopre con sconforto che è anche la meta di quel manipolo di gente. C’è la coda fuori, tutta quella gente in una stanza l’aveva vista solo al Corridore quando dentro c’era la sagra della trippa. Aggrappandosi a fatica alle giacche dei più deboli riesce a scavalcarli e ad entrare.
“Venga adesso Mansani Silvia…”
Qualcuno la sta chiamando. Davanti a lui c’è un vecchio calvo abbastanza alto che gli copre la visuale. Si mette in punta di piedi per scorgere qualcosa al di là di quel mappamondo. Sente la voce di Silvia.
“Il mio lavoro di tesi è lo studio di un soggetto psicologicamente disadattato che non ha superato la fase anale freudiana e soffre di un complesso di Edipo nella forma cristallizzata di un rispetto eccessivo…”
e bla bla bla con quei paroloni incomprensibili. La ragazza è in piedi con il microfono in mano; davanti a lei un tavolo di vecchi che la ascoltano e annuiscono con aria interessata. La voce di Silvia è fredda e sicura, anonima. Non sembra proprio l’allegra lecca-tovaglie-sporche di cui si era innamorato. Alle spalle di Silvia c’è uno schermo dove vengono proiettate diapositive con alcune delle frasi che sta dicendo.
“Questo soggetto ha subito una regressione del suo io in forme che non sono state in grado di evolversi da uno stadio infantile ad un grado superiore di inserimento socio-antropologico bla bla bla…”
Le punte dei piedi mi fanno male, pensa Marco, quasi quasi mi tolgo le scarpe. Ma per fortuna non lo fa. Le chiacchiere di Silvia sono proprio pallose, vabbè che lei indossa un abitino nero da paura, però…
“E infine questa è la foto dell’individuo oggetto del mio studio.”
Con enorme sorpresa Marco scorge la sua faccia sullo schermo. Ha lo sguardo perso e sorride come un ebete. Si ricorda benissimo di quella foto, Silvia l’aveva scattata dopo la peperonata di fine giugno. E finalmente capisce tutto. Anzi, capisce in parte. Non ha alcuna idea di dove vadano a parare le chiacchiere di Silvia, ma ha capito che ha descritto un povero disgraziato e quel povero disgraziato è lui. Bella stronza. Le sbronze, le cene, gli scherzi… e lei fingeva, stava solo studiando. Stava preparando la sua cazzo di tesi. Tuttavia non ce la fa ad odiarla, un rapido excursus nella sua memoria e capisce che Silvia è in fondo l’unica persona che lo ha reso un po’ felice. Lo faceva per motivi assolutamente differenti da quelli che pensava, era solo un suo scopo. Ma con lei era stato felice. Nel momento in cui la platea si scioglie in un applauso di approvazione e vede Richie scendere le scale di corsa e abbracciarla, capisce che quella ragazza con vestito nero che abbraccia uno spilungone biondo rigido come un attaccapanni non è la Silvia di cui si era innamorato. Quella non esiste più.
Esce dal palazzo né allegro né triste e si avvia verso la sua Citroen. Passa davanti ad una Mazda parcheggiata e si ricorda che è quella di Richie. Quasi quasi gli lascio un ricordino, pensa. Si fruga tra le tasche alla ricerca di un coltellino svizzero che di solito porta con sé, ma non lo trova. Sente che ha la vescica gonfia e cambia idea all’istante. Decide di omaggiare il biondino in maniera diversa, meno dannosa ma più umiliante. Si guarda intorno. Il viottolo è deserto, non passa nessuno. Si slaccia i pantaloni e comincia a pisciare sulle lamiere. Cerca di muovere l’arnese in modo da innaffiare l’intera fiancata come un giardiniere giudizioso che nutre le sue aiuole. D’improvviso sente una radio accendersi, si volta alle sue spalle e vede una donna seduta nella macchina accanto.
Se lo rimette dentro senza il tempo di sgrullare e si allontana a passo rapido verso la sua Citroen.
“Guarda che ti ho visto…”
Una pugnalata alle spalle. Si volta. La donna è scesa dall’auto e lo osserva con aria divertita. E’ bionda e un po’ in carne, sulla quarantina.
“Stavi pisciando su quella Mazda…”
“No signora si sbaglia… volevo solo fregarmi la radio…”
Meglio ladro che pisciamacchine.
“Ho sentito il rumore della pipì sul metallo delle portiere…”
“Si sbaglia, era un’interferenza sul canale radio che stava ascoltando…”
“Per terra c’è un rigagnolo che parte dalla macchina…”
“E’ la marmitta che perde, si fidi, sono meccanico…”
“Guarda che non c’è nulla di male.”
Questa risposta non se l’aspettava. La donna ha lo sguardo complice,e aggiunge:
“Anch’io lo faccio spesso…”
Incredibile, sarebbe un vero spettacolo, pensa Marco, che prova anche ad immaginare una dinamica dell’evento. E si accorge di avere poca inventiva.
“Ho cominciato da bambina, quando all’asilo pisciavo sui giocattoli…”
Un fulmine a ciel sereno. Dopo più di trent’anni il suo unico vero amore è a due metri da lui.
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