Alla lettera, la strada della vergine Anna. Che di vergine
ha solo il cartello, ha detto qualcuno. Jomfru Ane Gade è la via più famosa di
Aalborg e una delle più note della Danimarca e della Scandinavia in generale.
Circa cento metri di bar e discopub. E basta. Scusate se è
poco. Nell’intero Nordjylland è la tipica destinazione per un venerdì o sabato
sera divertente. Chiunque voglia sbevazzare e ballicchiare allegramente con gli
amici non ha alternativa migliore che recarsi in quella che chiamano la street
(o gaden, in danese). Nonostante l’abbondanza
di locali, secondo molti l’offerta lascia un po’ a desiderare. C’è il lounge bar
con luci blu soffuse e divani bianchi in pelle, e l’affumicatissimo Rock Cafè
dalle pareti rosso geranio, noto raduno di metallari ed emo dalla pelle
emaciata e la chioma colore inchiostro . Per il resto, il locale tipico di
Jomfru Ane Gade è spoglio e polveroso, con mura di colore neutro, tavolini in
legno, condotti per l’areazione in piena vista e un’ampia zona per il ballo. L’offerta musicale è per lo più commerciale e modaiola, anche
se alcuni locali mettono su il rock anni ’70 e il metal più estremo. La birra è di solito annaquata e insapore. Se
si attraversa Jomfru Ane Gade in pieno giorno, si può rimanere sorpresi dall’affastellarsi
delle insegne dei locali e dall’odore stagnante dell’alcol che sembra aver
impregnato mura e sampietrini, ma nulla più.
Un posto abbastanza insignificante? No. Basta aspettare. E
lasciar stare pensieri da sobrio.
E’ quando la notte scende e le lancette dell’orologio
roteano leggere e rapide e le luci delle lampade e delle insegne dei bar
proiettano un arancione morbido e soffuso che rimbalza tra le vetrate, e il sapore
acido dell’ennesima birra appena tracannata sale lentamente dal palato a
svuotarti la testa, è quando le poche persone che timidamente si affacciavano
ai banconi a poco si moltiplicano e nella via prima deserta si riversa la fauna
più variegata, è quando il mondo ti sembra più biondo e l’odore acido di birra e
piscio si tinge di inedite fragranze di J’Adore, è quando il tuo sguardo
schizza via come un puntatore laser impazzito tra il solco della scollatura
pronunciata di un top attillato e il ricamo dell’orlo della minigonna rosa
shocking e l’abbondante epidermide al vento e le urla e i for helvede! e i din
svin! ti sembrano il testo di un frastornante brano rap, è quando ti lasci cadere a peso morto e
rimani ritto in piedi perché la folla ti spintona a destra e a manca e allora
devi aggrapparti alla staccionata del Giraffen prima che quella fiumana dal
corso schizofrenico ti trascini via per sempre, è quando il jingle tuzzo della
hit del momento ti si infila sottopelle come una sanguisuga e gambe e braccia
ti schizzano su e giù come quelle di una marionetta, è quando ti illudi di
avere il fascino del viveur prima che lo specchio ti tradisca e rimani incantato
a fissare le gambe delle bariste del “Das Bierbar” che sfoggiano orgogliose il
loro dirndl saltellando sul bancone al ritmo di Ein Rudy Völler... è quando
tutto ciò accade che la street vive e non vorresti essere in nessun altro posto
al mondo. E può capitare ogni weekend, dodici mesi all’anno.
Le danesi. Sono loro le grandi e assolute protagoniste. Il
biondo oro dei lunghi capelli lisci. Il sorriso come un bracciale di perle. Occhi
chiari e nasino alla francese. Il contrasto impossibile tra la nobile bellezza
di quei visi da fate dei boschi e la rozza andatura martellante su tacchi a
spillo e zatteroni. La trappola di vestiti azzurri gialli o rossi che sembrano
fatti con la carta da pacchi e che le trasformano in grotteschi confettoni. Quelle
belle, tante, ma anche quelle che belle non lo sono e lo sanno, ma quella
sera vogliono dimenticarsene, e inzaccherate nei loro vestiti confetto senza
pudore dei chili di troppo sorridono ai lampioni come fossero la
luna. Ma ci sono anche le tardone, con il viso graffiato dall’età e dalla vita,
che cercano di nascondere cellulite e fianchi tremolanti intrappolandoli nei
jeans attillati. E sistemandosi le tette siliconate messe su per scampare alla
depressione del secondo divorzio, si illudono di essere ancora belle e
desiderabili. I bellimbusti in canotta con spalle larghe, mascella squadrata,
incivisi sporgenti e sguardo catatonico. L’omino eschimese con cappellino a
visiera che si fa largo a fatica con la sua busta del Fakta per racimolare
lattine vuote nei cestini dei rifiuti. Le ragazzine che camminano scalze
incuranti dei cocci aguzzi di bottiglia. Gli studentelli stranieri arrapati che
sostano ad un angolo con le loro birre comprate al 7eleven e osservano
con risatine compiaciute lo spettacolo scintillante e sfuggente che gli viene
offerto. Magari, nelle luci
intermittenti dell’Hollywood Boulevard, uno di loro incrocerà lo sguardo di
una biondina dal vestito a fiori e lei risponderà con un sorriso e lui si
avvicinerà e le afferrerà delicatamente la mano e si ritroveranno in pista da
ballo a dimenarsi sulle note di una canzone di Blondie, e lui lentamente
scivolerà prima col dorso poi col palmo della mano sul satin del vestitino
succinto della ragazza davanti agli occhi infiammati di invidia dei suoi amici
fermi al bancone. Tempo un minuto e la perderà nella folla, ciò che resta sarà un ricordo amico che gli terrà
compagnia quando sarà chiuso a chiave tra le quattro pareti della sua camera.
A Jomfru Ane Gade, le stagioni non esistono. Che sia giugno o
dicembre, vedrai sempre ragazze in abiti striminziti e ragazzotti in t-shirt. Lasciano
giacche e cappotti nel guardaroba di uno dei locali e poi si spostano da un bar
all’altro con i loro vestiti leggeri. Vanno di fretta, ma non per sfuggire al
freddo della notte danese. La fretta accumuna ogni creatura di quell’umanità
così varia, dalla quattordicenne fan di Justin Bieber al viscido omone
obeso alla spasmodica ricerca di una ragazza ubriaca
da rimorchiare. Vanno tutti di fretta perché quella è la loro notte e la vivono
come se fosse l’ultima. Ne spremono ogni singolo istante, alla ricerca di quel
brivido che la renderà degna di essere ricordata per sempre.
Il paradiso e l’inferno, a Jomfru Ane Gade. Lo sguardo liquido della barista del Salt Lageret e gli schizzi di vomito sulle scale del
Rock Cafè. Il bacio di due sedicenni eclissati tra i divani del Dansebaren e i
rutti del buttafuori del Manhattan. Il sorriso sereno di una ragazza dal viso
d’angelo che con i suoi lunghi capelli biondi proietta inediti riflessi di luce
sulle pareti spoglie del La bar e l’odore di merda che si espande dal cesso del
Nielsen.
A volte, quando ti butti in pista anonimo e saltelli
all’unisono con gli altri sulle note di una cover di Country Roads mentre
l’alcol che hai in circolo svuota via pensieri e inibizioni e le palpebre vanno
su e giù al ritmo della luce bianca stroboscopica, dimentichi tutto il resto e
pensi di esistere solo come una cellula di quella creatura immensa che è Jomfru Ane Gade quella sera,
una specie di enorme anfibio con il corpo esteso su tutta la via e le cento zampe
allungate all’interno dei locali, e che movimenti, salti, spintoni, gomitate e urla di
ognuno facciano parte della complessa attività respiratoria di
quella creatura. L’effetto di una coordinazione superiore il cui moto rapsodico
sfugge alla nostra misera natura di cellule.
Alle sei del mattino, i proprietari dei locali accendono le
luci e la magia del chiaroscuro cessa bruscamente. La luce bianca al neon è
come un secchio d’acqua gelida, che ci risveglia dal trance di quella notte che
sembrava eterna. C’è chi ha perso la speranza di alzarsi in piedi ed è gettato
in un angolo con la testa tra le braccia. Le coppiette che erano appartate al buio ora si
coprono gli occhi come sotto interrogatorio. Gentilmente si viene invitati ad
uscire. In estate, quando il sole sorge prima delle quattro del mattino, l’alba
si accanisce implacabile sulle brutture della street ancora affollata. Come il
re nudo della favola di Andersen, il popolo della notte non può più
nascondersi. E quella massa di gente che sembrava costituire la linfa vitale
dell’enorme anfibio ci appare ora per quello che è: un’orda di ubriachi con i
primi sintomi del doposbronza.
Chi non è ancora sazio e vuole continuare la morbida
illusione della notte eterna, si trasferisce al Bino’s, un bar in Kattesundet
che apre alle cinque del mattino. Per il resto, inizia il mesto ritiro dalla
street. La suola delle scarpe si incolla e strappa dai sampietrini ad ogni
passo; colpa dei litri di birra versati, ma ci piace pensare che sia la via
stessa a respirare ed espellere alcol dai suoi pori. La notte è passata e porta via con sè ogni
illusione. La vita reale torna a far capolino tra il camino in mattoni del
palazzo di fronte e la nuvoletta dai contorni grigio sfumato che già si
affaccia nel cielo livido, con tutto il suo carico di oppressione. Il corteo del
popolo di Jomfru Ane Gade procede lento lasciando una scia di piscio sulle
pareti della limitrofa Bispensgade, ridotta ad improvvisato orinatorio pubblico.
Ragazzetti che pisciano e continuano i loro discorsi-mugugni gutturali con le fanciulle che hanno conosciuto. Una donna inverosimilmente magra, forse proveniente da un'altra era o un'altra galassia, che con
indosso una specie di pelliccia fuma una sigaretta con bocchino seduta a terra.
Due ragazze che camminano sbandando sottobraccio e cantano stonate l’inno dell’Aalborg
Fodbold a squarciagola, una di loro ha i jeans a vita bassa griffati e una
bottiglia di vodka semivuota in mano e l’altra una borsetta Blugirl giallo
canarino che le pende dall’avambraccio oscillando a due centimetri da terra.
A quell’ora, il popolo di Jomfru è devastato dalla fame
chimica. Ed ecco che si riversa massiccio nel Mac Donald o nel Burger King di
Nytorv ad ingozzarsi di cheesburger multistrato, patatine fritte e chicken
wings. La sbobba ipercalorica scende giù
e a poco a poco salgono il mal di testa e l’apatia.
Tra le nuvole si è aperto uno squarcio di cielo terso e azzurro. L’aria è troppo fredda per essere una mattinata di giugno. Due gabbiani
attraversano il cielo e spariscono tra i tetti spioventi dei Boulevarden deserti. Pensi che quell’alba
è in realtà il tramonto del tuo fine settimana.
La festa è finita. Il weekend è volato via e i gabbiani con lui.
Com’esuli pensieri nel vespero migrar.