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venerdì 17 febbraio 2012

Jomfru Ane Gade


Alla lettera, la strada della vergine Anna. Che di vergine ha solo il cartello, ha detto qualcuno. Jomfru Ane Gade è la via più famosa di Aalborg e una delle più note della Danimarca e della Scandinavia in generale. Circa cento metri di bar e discopub. E basta. Scusate se è poco. Nell’intero Nordjylland è la tipica destinazione per un venerdì o sabato sera divertente. Chiunque voglia sbevazzare e ballicchiare allegramente con gli amici non ha alternativa migliore che recarsi in quella che chiamano la street (o gaden, in danese).  Nonostante l’abbondanza di locali, secondo molti l’offerta lascia un po’ a desiderare. C’è il lounge bar con luci blu soffuse e divani bianchi in pelle, e l’affumicatissimo Rock Cafè dalle pareti rosso geranio, noto raduno di metallari ed emo dalla pelle emaciata e la chioma colore inchiostro . Per il resto, il locale tipico di Jomfru Ane Gade è spoglio e polveroso, con mura di colore neutro, tavolini in legno, condotti per l’areazione in piena vista e un’ampia zona per il ballo. L’offerta musicale è per lo più commerciale e modaiola, anche se alcuni locali mettono su il rock anni ’70 e il metal più estremo.  La birra è di solito annaquata e insapore. Se si attraversa Jomfru Ane Gade in pieno giorno, si può rimanere sorpresi dall’affastellarsi delle insegne dei locali e dall’odore stagnante dell’alcol che sembra aver impregnato mura e sampietrini,  ma nulla più.
Un posto abbastanza insignificante? No. Basta aspettare. E lasciar stare pensieri da sobrio.
E’ quando la notte scende e le lancette dell’orologio roteano leggere e rapide e le luci delle lampade e delle insegne dei bar proiettano un arancione morbido e soffuso che rimbalza tra le vetrate, e il sapore acido dell’ennesima birra appena tracannata sale lentamente dal palato a svuotarti la testa, è quando le poche persone che timidamente si affacciavano ai banconi a poco si moltiplicano e nella via prima deserta si riversa la fauna più variegata, è quando il mondo ti sembra più biondo e l’odore acido di birra e piscio si tinge di inedite fragranze di J’Adore, è quando il tuo sguardo schizza via come un puntatore laser impazzito tra il solco della scollatura pronunciata di un top attillato e il ricamo dell’orlo della minigonna rosa shocking e l’abbondante epidermide al vento e le urla e i for helvede! e i din svin! ti sembrano il testo di un frastornante brano rap,  è quando ti lasci cadere a peso morto e rimani ritto in piedi perché la folla ti spintona a destra e a manca e allora devi aggrapparti alla staccionata del Giraffen prima che quella fiumana dal corso schizofrenico ti trascini via per sempre, è quando il jingle tuzzo della hit del momento ti si infila sottopelle come una sanguisuga e gambe e braccia ti schizzano su e giù come quelle di una marionetta, è quando ti illudi di avere il fascino del viveur prima che lo specchio ti tradisca e rimani incantato a fissare le gambe delle bariste del “Das Bierbar” che sfoggiano orgogliose il loro dirndl saltellando sul bancone al ritmo di Ein Rudy Völler... è quando tutto ciò accade che la street vive e non vorresti essere in nessun altro posto al mondo. E può capitare ogni weekend, dodici mesi all’anno.
Le danesi. Sono loro le grandi e assolute protagoniste. Il biondo oro dei lunghi capelli lisci. Il sorriso come un bracciale di perle. Occhi chiari e nasino alla francese. Il contrasto impossibile tra la nobile bellezza di quei visi da fate dei boschi e la rozza andatura martellante su tacchi a spillo e zatteroni. La trappola di vestiti azzurri gialli o rossi che sembrano fatti con la carta da pacchi e che le trasformano in grotteschi confettoni. Quelle belle, tante, ma anche quelle che belle non lo sono e lo sanno, ma quella sera vogliono dimenticarsene, e inzaccherate nei loro vestiti confetto senza pudore dei chili di troppo sorridono ai lampioni come fossero la luna. Ma ci sono anche le tardone, con il viso graffiato dall’età e dalla vita, che cercano di nascondere cellulite e fianchi tremolanti intrappolandoli nei jeans attillati. E sistemandosi le tette siliconate messe su per scampare alla depressione del secondo divorzio, si illudono di essere ancora belle e desiderabili. I bellimbusti in canotta con spalle larghe, mascella squadrata, incivisi sporgenti e sguardo catatonico. L’omino eschimese con cappellino a visiera che si fa largo a fatica con la sua busta del Fakta per racimolare lattine vuote nei cestini dei rifiuti. Le ragazzine che camminano scalze incuranti dei cocci aguzzi di bottiglia. Gli studentelli stranieri arrapati che sostano ad un angolo con le loro birre comprate al 7eleven e osservano con risatine compiaciute lo spettacolo scintillante e sfuggente che gli viene offerto.  Magari, nelle luci intermittenti dell’Hollywood Boulevard, uno di loro incrocerà lo sguardo di una biondina dal vestito a fiori e lei risponderà con un sorriso e lui si avvicinerà e le afferrerà delicatamente la mano e si ritroveranno in pista da ballo a dimenarsi sulle note di una canzone di Blondie, e lui lentamente scivolerà prima col dorso poi col palmo della mano sul satin del vestitino succinto della ragazza davanti agli occhi infiammati di invidia dei suoi amici fermi al bancone. Tempo un minuto e la perderà nella folla,  ciò che resta sarà un ricordo amico che gli terrà compagnia quando sarà chiuso a chiave tra le quattro pareti della sua camera.
A Jomfru Ane Gade, le stagioni non esistono. Che sia giugno o dicembre, vedrai sempre ragazze in abiti striminziti e ragazzotti in t-shirt. Lasciano giacche e cappotti nel guardaroba di uno dei locali e poi si spostano da un bar all’altro con i loro vestiti leggeri. Vanno di fretta, ma non per sfuggire al freddo della notte danese. La fretta accumuna ogni creatura di quell’umanità così varia, dalla quattordicenne fan di Justin Bieber al viscido omone obeso alla spasmodica ricerca di una ragazza ubriaca da rimorchiare. Vanno tutti di fretta perché quella è la loro notte e la vivono come se fosse l’ultima. Ne spremono ogni singolo istante, alla ricerca di quel brivido che la renderà degna di essere ricordata per sempre.
Il paradiso e l’inferno, a Jomfru Ane Gade. Lo sguardo liquido della barista del Salt Lageret e gli schizzi di vomito sulle scale del Rock Cafè. Il bacio di due sedicenni eclissati tra i divani del Dansebaren e i rutti del buttafuori del Manhattan. Il sorriso sereno di una ragazza dal viso d’angelo che con i suoi lunghi capelli biondi proietta inediti riflessi di luce sulle pareti spoglie del La bar e l’odore di merda che si espande dal cesso del Nielsen.   
A volte, quando ti butti in pista anonimo e saltelli all’unisono con gli altri sulle note di una cover di Country Roads mentre l’alcol che hai in circolo svuota via pensieri e inibizioni e le palpebre vanno su e giù al ritmo della luce bianca stroboscopica, dimentichi tutto il resto e pensi di esistere solo come una cellula di quella  creatura immensa che è Jomfru Ane Gade quella sera, una specie di enorme anfibio con il corpo esteso su tutta la via e le cento zampe allungate all’interno dei locali, e che movimenti, salti, spintoni, gomitate e urla di ognuno facciano parte della complessa attività respiratoria di quella creatura. L’effetto di una coordinazione superiore il cui moto rapsodico sfugge alla nostra misera natura di cellule. 
Alle sei del mattino, i proprietari dei locali accendono le luci e la magia del chiaroscuro cessa bruscamente. La luce bianca al neon è come un secchio d’acqua gelida, che ci risveglia dal trance di quella notte che sembrava eterna. C’è chi ha perso la speranza di alzarsi in piedi ed è gettato in un angolo con la testa tra le braccia.  Le coppiette che erano appartate al buio ora si coprono gli occhi come sotto interrogatorio. Gentilmente si viene invitati ad uscire. In estate, quando il sole sorge prima delle quattro del mattino, l’alba si accanisce implacabile sulle brutture della street ancora affollata. Come il re nudo della favola di Andersen, il popolo della notte non può più nascondersi. E quella massa di gente che sembrava costituire la linfa vitale dell’enorme anfibio ci appare ora per quello che è: un’orda di ubriachi con i primi sintomi del doposbronza.
Chi non è ancora sazio e vuole continuare la morbida illusione della notte eterna, si trasferisce al Bino’s, un bar in Kattesundet che apre alle cinque del mattino. Per il resto, inizia il mesto ritiro dalla street. La suola delle scarpe si incolla e strappa dai sampietrini ad ogni passo; colpa dei litri di birra versati, ma ci piace pensare che sia la via stessa a respirare ed espellere alcol dai suoi pori.  La notte è passata e porta via con sè ogni illusione. La vita reale torna a far capolino tra il camino in mattoni del palazzo di fronte e la nuvoletta dai contorni grigio sfumato che già si affaccia nel cielo livido, con tutto il suo carico di oppressione. Il corteo del popolo di Jomfru Ane Gade procede lento lasciando una scia di piscio sulle pareti della limitrofa Bispensgade, ridotta ad improvvisato orinatorio pubblico. Ragazzetti che pisciano e continuano i loro discorsi-mugugni gutturali  con le fanciulle che hanno conosciuto.  Una donna inverosimilmente magra, forse proveniente da un'altra era o un'altra galassia, che con indosso una specie di pelliccia fuma una sigaretta con bocchino seduta a terra. Due ragazze che camminano sbandando sottobraccio e cantano stonate l’inno dell’Aalborg Fodbold a squarciagola, una di loro ha i jeans a vita bassa griffati e una bottiglia di vodka semivuota in mano e l’altra una borsetta Blugirl giallo canarino che le pende dall’avambraccio oscillando a due centimetri da terra.
A quell’ora, il popolo di Jomfru è devastato dalla fame chimica. Ed ecco che si riversa massiccio nel Mac Donald o nel Burger King di Nytorv ad ingozzarsi di cheesburger multistrato, patatine fritte e chicken wings.  La sbobba ipercalorica scende giù e a poco a poco salgono il mal di testa e l’apatia.
Tra le nuvole si è aperto uno squarcio di cielo terso e azzurro. L’aria è troppo fredda per essere una mattinata di giugno. Due gabbiani attraversano il cielo e spariscono tra i tetti spioventi dei Boulevarden deserti. Pensi che quell’alba è in realtà il tramonto del tuo fine settimana.
La festa è finita. Il weekend è volato via e i gabbiani con lui.  
Com’esuli pensieri nel vespero migrar.


     

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