Non siamo grandi ammiratori de La solitudine dei numeri
primi, uno dei più grandi successi editoriali italiani degli ultimi dieci anni.
Ci sembra che la fortuna del romanzo del giovane Paolo Giordano sia dovuta
principalmente ad una furbissima strategia di marketing, che ha puntato a
lanciare un personaggio decisamente anomalo nel nostro panorama letterario.
Paolo Giordano, neanche ventiseienne all’epoca dell’uscita del suo libro, è
stato strombazzato come enfant prodige della nuova letteratura italiana. E il
suo successo deriva proprio dall’essere lontano dal cliché dell’enfant prodige.
Sappiamo come la storia della letteratura (e dell’arte in generale) pulluli di
ragazzi borderline dal fascino ombroso, abbandonati da famiglie difficili, vissuti
di stenti tra mille difficoltà, facili all'assuefazione a qualsiasi sostanza che crei dipendenza, magari malaticci e inetti al lavoro, che improvvisamente si rivelano dei geni del pennello o della
scrittura. Paolo Giordano, invece, è cresciuto in una famiglia benestante e
colta, è sempre stato bravissimo a scuola, si è laureato in fisica teorica con
il massimo dei voti, è iscritto ad un corso di dottorato nella stessa facoltà,
è di innegabile bell’aspetto. In più, non beve non fuma e non si droga. Si sa, ragazzi come lui fanno la gioia dei
genitori e dei futuri suoceri, ma da loro non ci si attendoni certo clamorosi
exploit artistici. La fortuna di Paolo Giordano è stata quella di dimostrare
che si può sfoggiare un grande talento “artistico” anche quando si calzano alla
perfezione i panni del "bravo ragazzo". E ciò ha fatto di lui un personaggio assolutamente accattivante per le ampie masse.
Per il resto, non crediamo che Paolo Giordano sia un genio.
Il suo romanzo ci appare come un compitino assai ben scritto, in cui vien
naturale immaginare un gran lavoro di editing dello staff Mondadori alla ricerca del giusto equilibrio tra
i toni più cupi e quelli più sentimentali, con lo
scopo di andare incontro ad una porzione di pubblico più vasta. Infastidisce,
poi, la totale assenza di dimensione storica in una vicenda che copre un periodo
ventennale, e che per questo a tratti somiglia ad una versione più ambiziosa di un
romanzetto Harmony.
Eppure, nel romanzo di Paolo Giordano c’è una pagina
straordinaria. Una breve introduzione: Mattia, il protagonista maschile, è
ossessionato dai sensi di colpa per aver abbandonato quando aveva otto anni la sorella
gemella Michela, affetta da autismo, in un parco deserto, perché stanco di dover andare alla feste
di compleanno dei suoi compagni di classe insieme a lei. La bambina non era
stata più ritrovata. Il momento strepitoso del romanzo è quando venti anni dopo
Alice, la protagonista femminile più o meno consapevolmente innamorata dell’ombroso
Mattia, crede di riconoscere Michela in una ragazza ritardata che incontra in
ospedale. E’ una vera e propria scena horror che gela il sangue, e che Giordano
racconta con ricchezza di dettagli, quasi volesse indagare il significato criptico degli anomali movimenti di quella figura misteriosa. Quella
ragazza ormai trentenne che, in piena notte, sotto le spioventi luci al neon entra
ed esce dalla porta scorrevole dell’ospedale con lo sguardo perso e una risata
fatua e indecifrabile potrebbe essere Michela oppure no, ma fa accapponare la
pelle. Ed è vertiginosa l’idea della comparsa di una figura così a
far da deux ex machina per l’evolversi
delle vicende del romanzo.
Dal libro di Paolo Giordano è stato tratto l’omonimo film di
Saverio Costanzo. Sarebbe stato facile fare un film di successo che si
limitasse a seguire pedissequamente le vicende del libro, tra l’altro
particolarmente cinematografico nella struttura narrativa. E invece Saverio
Costanzo ha sacrificato la linearità temporale del libro a favore di una
complicata struttura a flashback. E soprattutto, ha tentato una coraggiosa
rilettura horror delle vicende di Alice e Mattia, introducendo personaggi
inquietanti (vedi il clown della festa di compleanno) e usando uno stile
ipnotico ricco di ralenti e prospettive inusuali, che cita esplicitamente Dario
Argento (la colonna sonora è la stessa de L’uccello dalle piume di cristallo!).
Se a Saverio Costanzo va il merito di una rilettura non illustrativa del
romanzo di partenza, non si può dire che il suo sia un film riuscito. Troppe
ambizioni, scarsi risultati, e una freddezza che lascia perplessi. Ma ciò che è
davvero imperdonabile in un film che gioca ad ingigantire le suggestioni ed
ambiguità del libro, è la banalità con cui è stata realizzata la scena menzionata
sopra. All’immagine terrificante descritta da Giordano si sostituisce una
blanda scenetta in cui la protagonista Alba Rochwacher, in pieno giorno, vede
in un mercato una ragazza qualsiasi, senza connotati particolari, le chiede “Michela?”
e sviene. Perchè una scena così banale?
Ma Saverio Costanzo ha letto il libro di Giordano? Mah...
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