Pagine

lunedì 31 dicembre 2012

Il vecchio e la bici

Questa è una storia semplice e toccante. Orazio Di Grazia, contadino siciliano, cui il destino afflisse una cocente delusione d'amore. E' la vita senza clamore di un uomo solo e forte, che fino alla sua scomparsa all'età di ottatacinque anni, percorreva ogni giorno la tratta Catania Ognina - Nicolosi (circa 16 km) con la sua bici portando con sè un carico di alimenti.
Orazio e la sua amata scomparsa. Orazio e la solitudine. Orazio e la bici. Non aggiungiamo altro, e vi invitiamo a visionare questo breve ma intenso video.

sabato 8 dicembre 2012

Gli smartphone


Tra quindici anni rideremo degli smartphone.
E proveremo un sincero imbarazzo nell’ammettere: “Ebbene sì, ne avevo uno anche io...”. Eppure oggi sembrano a tutti oggetti strafighi, il top dell’high tech secondo i più. Alle soglie del 2013, la maggiorparte delle persone pensa ancora che sia cool andersene in giro con un ingombrante parallelepipedo tuttoschermo dall’autonomia non superiore alla giornata, e che per di più costa un occhio della testa. Roba che vien voglia di tagliarsi le vene se capita di perderlo. Gente che pensa che il paradigma always connected voglia dire cazzeggiare su facebook a ogni ora e luogo. Gente che pensa che la vera tecnologia sia quella che ti urla in faccia numeri altisonanti e inutili e non quella che ti facilita la vita.
Già il nome smartphone, telefono intelligente, fa abbastanza ridere. Dove sarebbe la presunta intelligenza di un prodotto che è solo un’accozzaglia di tecnologie più disparate, dalle connessioni GSM e GPRS e EDGE e UMTS e HSDPA e HSUPA e LTE e WiFi e Bluetooth al microbrowser ad hoc, dal navigatore GPS all’immancabile foto-videocamera ad alta definizione, che succhia via corrente come un assetato nel deserto del Gobi, il tutto pressato in un volume che viene strombazzato come minimo ma in realtà non entra ormai più nella tasca dei pantaloni?  E’ forse intelligente il principio “infiliamoci dentro tutto il possibile, così nessuno può lamentarsi”?  Uno smartphone è come un puzzle di Tetris pieno di buchi, una costruzione Lego dove i mattoncini non combaciano ma fa spavento per quanto è grossa e deforme. Uno smartphone è intelligente come lo è una massaia che riempie il carrello della spesa di chili di pasta, sughi, salse, dolciumi, surgelati, caviale, lardo di Colonnata, frittelle, patatine e snacks, quando bastava un semplice brodino per far contenti marito e figli.  
Sarà divertente, tra quindici anni, davanti ad una birra con gli amici, ricordare la follia degli smartphone, del loro prezzo esagerato, della schiavitù autoinflitta della ricarica quotidiana, del loro ingombro, della loro invadenza nella nostra vita, della loro palese inutilità nel novantanove percento dei casi. Tutto ci sembrerà così naif e ridicolo, e ci chiederemo: “Ma davvero mi sono prestato a tutto ciò?”.
Comunque, detto questo, per Natale mi compro un Nokia Lumia 920. 


domenica 18 novembre 2012

I sogni ovunque


Molti hanno un sogno nel cassetto.
Tu, invece, i sogni li hai ovunque. Li hai nella credenza e nel frigo, li hai nelle pentole posate sulle piastre dei fornelli, incastonati tra i volumi della libreria, sul comodino accanto all’abat-jour. Li hai nella scarpiera tra le superga blu elettrico e gli stivali di cuoio, li hai nell’armadio, appesi tra la giacca di tweed e l’impermeabile grigio, li hai nel lavabo tra le pile di piatti che ti ostini a non lavare.  
A volte te ne dimentichi, e quando apri l’armadio e scansi via le grucce alla ricerca del maglione di lana caprina, non ti accorgi che stai scansando uno di loro, e finisci per sbattergli le ante in  faccia.
Altre volte, invece, ti fermi a parlare con lui.
Non è facile dialogare con un sogno. E’ come  parlare con il mare, quando sei sulla riva e con la spuma delle onde ti solletica giocoso il dorso dei piedi, ma poi alzi lo sguardo e lo scopri silente e azzurro, freddo, seducente e lontano. Anche il sogno è vicino e lontano. Ti accarezza bonario con le sue dita sottili come fili di seta, ma se provi a guardarlo negli occhi finisci per perderti nei riflessi infiniti di un labirinto di specchi.
Sono spesso indisciplinati, i sogni. Vorresti rimanessero in frigo, in libreria, nelle pentole, per sollevare i coperchi e sbirciare di tanto in tanto come bambini curiosi. Ma invece saltano fuori e te li ritrovi per il corridoio, a intralciare i passi nervosi della tua giornata fatta di panni da lavare, corse al supermercato e bollette in scadenza. A quel punto cerchi di ignorarli, di non dar peso alla loro presenza, come si fa con i ragazzini viziati alla ricerca di attenzioni. Ma alla fine cedi. Ti lasci cadere sul divano, loro si avvicinano a te saltellando e si dispongono a semicerchio. Ti osservano pazienti. Ma tu non sei il loro cantastorie.

Cosa volete da me, ti vien da chiedergli. Loro sono forse stupiti da quella domanda, ondeggiano come campanelli al vento guardandosi, forse, l’uno con l’altro. Non ti sei accorto di nulla, dice uno di loro, da un po’ di tempo siamo sbiaditi. Ti massaggi le tempie con l’indice e il medio mentre rifletti sulle parole del sogno. E’ vero, ultimamente sono sbiaditi. Può qualcosa sbiadire per la noncuranza, per il poco tempo che ci hai dedicato, chiedi a te stesso. No, la noncuranza è amica della polvere, dello sporco, del degrado, ma non sbiadisce le cose, non le rende diafane e quasi trasparenti.
E allora perché, da un po’ di tempo, quando provi a guardare un sogno negli occhi finisci per guardarci attraverso? Forse la tua vista si è fatta più acuta? Li ami e li odi, ma non vuoi che svaniscano.  Perché quando guardi al di là dei sogni vedi solo il muro della parete davanti, bianco, anonimo, terrificante. Cosa sarebbe casa tua senza di loro? Solo uno spoglio sgabuzzino di oggetti polverosi. Potresti vagare di stanza in stanza sfiorando con la punta delle dita infissi e soprammobili, accendere la televisione e guardare omini calvi e ballerine,  potresti sedere alla scrivania e prendere appunti sulle spese e i conti da pagare. E scopriresti di essere solo, ti accorgeresti che non c’è nulla al di là dei contorni degli oggetti, dei supermercati e delle bollette, delle pareti bianche che ti tengono prigioniero.
Perché dunque avete perso il vostro colore, e adesso riesco a guardare attraverso di voi come se foste di vetro, ti vien dunque da chiedere. Il sogno che avevi davanti, quello più loquace ed estroverso, quello che di solito prende sempre la parola, stavolta tace. Sto parlando con voi, continui, fate finta di non sentire? E finalmente il sogno risponde. E’ strano, volevamo chiederti la stessa cosa, dice. La risposta ti infastidisce. Precipiti in un vortice di domande che non avranno mai risposte. Ti alzi e afferri il sogno per l’orecchio, lo trascini per tutto l’appartamento fino all’ingresso, lui non oppone resistenza. Apri la porta e lo sbatti fuori di casa. Torni al divano, gli altri sono ancora lì, non si sono mossi dal semicerchio. Non sembrano scossi. Forse qualsiasi cosa tu faccia non può far del male a loro. Al più, sei solo tu a soffrirne. Hai un sussulto e il sogno che hai appena cacciato è ora alle tue spalle, provi a sfidarlo con lo sguardo, se non fosse quasi trasparente potresti giurare che ha sorriso. Sei un idiota, dici a te stesso, davvero pensi sia possibile scacciare un sogno trascinandolo per le orecchie fuori di casa? Secondo te basta una stupida porta di legno per tenerlo lontano?
Sconfitto, torni a sedere sul sofà. Lasci cadere la testa all’indietro e sospiri. Siete sbiaditi ma ci siete, dici, e loro continuano ad osservarti, silenziosi, oscillando come fuochi fatui. Non ti abbandoneranno, dici a te stesso. Perderanno a poco a poco colore, ma rimarranno con te. Seducenti e inafferrabili. 

Sei stanco e vuoi andare a letto. Spegni la luce, e come quelle lampade fluorescenti il cui alone luminoso è solo visibile al buio, i sogni tornano ad avere un colore intenso. Iniziano a svolazzare per la tua camera da letto come canarini appena liberati dalla gabbia, birbanti come scolaretti quando la maestra è assente.   Ti infili nelle coperte e chiudi gli occhi, ma poco conta che tu li tenga chiusi o aperti, i sogni sono sempre davanti a te, come se adesso fossero le tue palpebre ad essere trasparenti. A poco a poco il loro svolazzare turbinoso ti confonde,  i colori e lo strascico di brillanti e rugiada che ogni sogno si porta appresso si accavallano come le carte di un abile prestigiatore.
E non sei più tu in quel letto scomodo dalle assi di legno curve e il materasso schiacciato.
Ora sei un astronauta che saltella leggero da un pianeta all’altro come fossero gigantesche palle di gomma fluttuanti nello spazio. Ora sei un attore che con il suo istrionismo  ipnotizza la folla attonita del più gremito teatro del mondo, sei un cantante la cui voce suadente ed eterna si inisuna placida tra le corde del cuore della gente, sei un calciatore, che segna in rovesciata il goal decisivo della finale dei mondiali mentre gli spalti si sciolgono in un boato trionfale.  Sei tutto questo e tanto altro, sei un esploratore che sovrasta superbo con la sua mongolfiera mari e foreste,  sei un re in un castello dalle pareti d’argento e le colonne d’alabastro, sei un pilota di Formula 1, sei un equilibrista e un domatore di leoni.
Sei a casa tua e sei ovunque, sei con tua nonna e con tuo nonno, sei con i tuoi amici d’infanzia che con i cappellini da festa sul capo ti invitano ad unirti ad un festoso girotondo, sei con Lei, di notte, sdraiato in riva al mare, sulla sabbia resa azzurra dal riflesso del plenilunio, e nei suoi occhi verdi c’è il desiderio di sentire le sue labbra al sapore di ciliegia e salsedine unirsi, lentamente, alle tue.

*****

Le prime luci dell’alba filtrano insolenti tra le veneziane in alluminio, e apri gli occhi. La stanza non è più buia. E i sogni non ci sono più.  Turbinando gioiosi tra le pareti della tua camera a poco a poco sono scesi vicino al letto, sono diventati piccini come lillipuziani, si sono arrampicati a fatica sulla tua coperta bianca e saltellando tra piumone e lenzuola sono saliti sul tuo viso e sono entrati nella tua narice sinistra. Hai inalato i tuoi sogni e loro ti sono esplosi dentro come mille fuochi d’artificio, solo per te. Ma ora lo spettacolo è finito. Ti metti a sedere sul letto e sospiri. La camera è vuota e un po’ fredda. Ti alzi e cammini nervoso per il tuo appartamento. Non ti è mai sembrato così spoglio. Ora che i sogni non ci sono, vedi solo un mucchio di oggetti polverosi intrappolati tra pareti che non ti sono mai sembrate così opprimenti. Ti lasci cadere sul divano, davanti a te la parete ti guarda, ma non ha nulla da dirti. Ti scende una lacrima sul viso.
Era dunque tutta illusione quella che, per una notte o per una vita, ti lasciava dimenticare che non hai nulla. Solo cianfrusaglie e una prigione,  che forse non sono solo le pareti di casa, che forse ti seguirà anche fuori.

Ma poi ti alzi e ti avvicini alla finestra, bruscamente tiri su le veneziane e guardi fuori attraverso il vetro reso opaco dalle tue impronte e dalle macchie di acqua piovana. Davanti, c’è il selciato del tuo cortile, deserto.  Il vento scuote insolente il morbido manto verde delle due querce al di là della strada. Il rumore sordo del portone che sbatte, ne esce una donna che infilata in un giubbotto rosso di cardigan cammina a passo rapido sui suoi tacchi alti coprendosi parte del viso con una sciarpa viola in lana merinos. E lo vedi, il sogno, attaccato alla coda della sciarpa che si agita al vento come una bandiera. Escono due bambini con cappellino di lana verde che si rincorrono saltellando tra strada e marciapiede. Nelle loro risatine stonate riconosci il tintinnare della voce del tuo sogno, di quello loquace, di quello che non riuscivi a zittire. Passa una ragazza dai lunghi capelli castani mossi, con le cuffie dell’ipod alle orecchie e un viso delicato e fragile dall’aria mogia. E i piccoli lillipuziani sono lì, saltellano dietro la ragazza cercando di aggrapparsi al laccio penzolante dei suoi stivali in pellame color mogano.
Attraverso quel vetro sporco vedi tutto questo e vedi te stesso, parzialmente riflesso, vedi la tua immagine quasi diafana sovrapporsi al mondo che hai davanti. Forse sei tu che rischi di svanire, di diventare trasparente e vacuo, se ti ostini a rimanere lì, tra quelle quattro pareti. E invece i sogni non sono svaniti. Sono solo fuggiti via. Non ha più senso cercarli nell’armadio, nel frigo, nelle pentole o sotto le coperte.
Sorridi. Ti infili una giacca ed esci di casa. In fondo, sei ancora in tempo a raggiungerli.

domenica 4 novembre 2012

Chiacchieroni e chiacchierelli


I chiacchieroni si ostinano a recitare il loro monologo pomposo credendo che si tratti di un dialogo. Parlano quasi sempre di loro stessi, a voce alta, ingigantendo meriti inesistenti o comunque modesti. Sono poco curiosi degli altri, ragionano a pregiudizi e a partito preso. Non si curano delle reazioni che possono suscitare, anzi, fanno facilmente i bastian contrari, perché ciò attira l’attenzione, da’ sugo al monologo, imbellisce il loro ego abbarbicato e fragile.  Cercano di illudersi di essere intelligentissimi, e che tutti abbiano da imparare da loro. Spesso diventano grotteschi, fanno sorridere, sono persino simpatici se presi a piccolissime dosi.
I chiacchierelli sono più subdoli. A differenza dei chiacchieroni, parlano a voce bassa. Se sei al ristorante con loro, rischi di confondere la loro voce con il rumore dei passi dei clienti, con il parlottare nei tavoli affianco.  Le loro chiacchiere sono un rumore di fondo imperituro e costante, che non cessa mai. E sono puro didascalismo; qualsiasi cosa detta da un chiacchierello, potrebbe benissimo non essere detta. Il chiacchierello è un paladino della banalità, è pura espressione della maggioranza silenziosa, è la quintessenza del qualunquismo ricoperto da una patina di riflessività fasulla. Il chiacchierello è affetto da un specie di fame sociale, non si accontenta di parlare con una sola persona se ce ne sono tante attorno, vuole conoscere più gente possibile. E, soprattutto, vuole piacere a tutti i costi: per questo il chiacchierello è solito adulare il prossimo, esaltarlo, magnificarne le doti umane estetiche morali. Alle spalle, poi, può tranquillamente parlarne male, se questo va più a genio di un altro interlocutore. L’autostima del chiacchierello dipende esclusivamente dagli altri: il chiacchierello adora lamentarsi, spesso si dichiara timido, stupido e brutto, sperando di sentirsi dire ma no, non è vero, e magari ricevere anche un complimento.  Il chiacchierello vuole sapere gli affari di tutti, con curiosità fuori luogo e quasi morbosa, per due motivi: per paragonare l’esperienza degli altri all’esperienza propria, sperando ardentemente  che nel confronto non abbia da perderci, e per mantenere sempre inesauribile il repertorio  di pettegolezzi che ne rappresenta la caratteristica ontologica.
Cosa succede se un chiacchierone incontra un chiacchierello? Naturalmente vanno subito d’accordo. Il chiacchierone si esibirà nel suo monologo, il chiacchierello gli scondinzolerà intorno saltellando e scuotendo le braccia ammirato e compiacente. Il chiacchierone si sentirà realizzato, e non saprà mai che in sua assenza il chiacchierello lo sputtanerà senza remore se ciò potrà servire a compiacere un altro interlocutore.
Chiacchieroni e chiacchierelli sono in fondo molto simili. Hanno comportamenti differenti, ma con una radice comune: sono solo modi diversi di reagire ad un Edipo irrisolto. Quello che sussurra loro di essere ancora bambini capricciosi e viziati, che ingalluzzisce il loro ego precario, che gli ricorda quanto sono insicuri, che la notte rende scomodi i cuscini.
Chi più chi meno, siamo tutti un po' chiacchieroni e/o chiacchierelli.
Alcuni lo sono un po' troppo.

martedì 30 ottobre 2012

Dubbio made in Italy

Colpisce questo video realizzato dai due giovani Stefano De Marco e Niccolò Falsetti,  vincitore del concorso Videominuto 2012. Una sorta di manifesto dei loro coetanei all’estero. Un video da vedere due volte (la prima seguendo le immagini e la voce off, la seconda leggendo le didascalie) per cogliere le due facce dell’italiano all’estero: quella esteriore e spavalda di chi difende orgoglioso la sua scelta, e quella più intima e sofferta di chi ne sente il disagio profondo. Nella brevissima durata di un minuto ci si identifica con questo ragazzo in blusa e zainetto che si muove rapido in una Londra grigia e asettica riflettendo su una vita da straniero a cui si è ormai abituato; ciò che gli resta dell’Italia sono “la nostalgia del sole, delle campagne sterminate, dell’olio buono,  del vino del contadino”, e le insegne delle tante trattorie e gelaterie italiane dove il Belpaese è solo un marchio che vende, una grande collezione di clichè. Forse un po’ troppo reazionario, semplicistico e romantico. Ma scuote. E commuove, anche.   


lunedì 22 ottobre 2012

Roma acquario


Sono anni che, quando attraversiamo in autobus una città immersa nella notte e resa viva dai lampioni e dalle luci al neon delle insegne dei locali, ci troviamo senza volerlo a fischiettare il motivo musicale di Luce dei miei occhi. Film di Giuseppe Piccioni, colonna sonora (ammaliante come sempre) di Ludovico Einaudi.  
Un film sbagliato forse, melomane, artificioso, retorico, ridondante, addirittura iettatorio secondo Paolo Mereghetti.  Ma ricco di suggestioni memorabili. Scene come quella iniziale (vedi il video in basso), con il tassista Luigi Lo Cascio che attraversa una Roma notturna e quasi irriconoscibile, ci sono entrate nel cuore.
Il taxi e la città. Il dentro e il fuori. La Roma bluastra e taciturna di Giuseppe Piccioni non è una Roma da cartolina. Non ricorda quella caotica e colorata di Fellini, nè quella borgatara di Pasolini e Citti, tantomeno la Roma iperrealista e coatta di Verdone e colleghi.
E’ una Roma da fantascienza, con il taxi che diventa una navicella spaziale in un pianeta sconosciuto, come quello visitato da Morgan, l’eroe del protagonista.
Ma è anche una Roma acquario, dove poche anime silenti sembrano fluttuare come pesci,  e le vetrate di ristoranti e autobus imprigionano la luce di lampade da tavolo e illuminazioni stradali. Si può essere vicini alle vetrate di un acquario, lasciarsi sedurre dai colori delle piante marine e dai movimenti sinuosi e lenti dei pesci che lo abitano. Ma il più delle volte si resta spettatori: arrampicarsi come folletti sulla barriera di vetro,  prendere un bel respiro e lanciarsi con un bel tuffo carpiato in quella vasca dall'interno così visibile eppur così misterioso non è, in molti casi, possible.
Il tassista Luigi Lo Cascio è lo spettatore della Roma acquario: chiuso tra le pareti rassicuranti e mortifere del suo sottomarino-taxi, non avrà mai il coraggio di superarle. Non diventerà mai un pesce.


sabato 15 settembre 2012

Storiella teramana

Stanno a mangiare due mazzarelle giù allo Stronzo quando vedono Alfredo fuori al bar seduto su uno sgabello con una bottiglia di birra in mano, sguardo nel vuoto. 
Guarda, ci sta Alfredo, dice Giovanni. Sta da solo, sta a fare lo scompagnone, aggiunge Marco alzando  la voce e con la mano vicino alla bocca a mo’ di megafono per farsi sentire. Ma Alfredo non batte ciglio, con la mano stretta sul collo della Peroni dalla quale tira giù sorsi pesanti a intervalli regolari. 
Lascialo stare, dice Giovanni, mi sa che l’ha lasciato la sposa. 
Ma la sposa chi, chiede Marco. S’è rifatto la sposa il mese scorso, risponde Giovanni. Ma vaffangulo va, in quindici anni che lo conosco non l’ho mai visto con una femmina, dice Marco.  Sei un coccia a bicchieri, non ti ricordi Monica, chiede Giovanni.  Ah, è vero, annuisce Marco dopo un istante di riflessione. Ma quella era una zezzona, aggiunge. Zezzona o no, era la sposa.  E questa di adesso? Che cazzo ne so, non l’ho vista mai. Te lo dico io, quello racconda una frega di cazzate. E allora perché sta là fuori solo solo? Quello fa finta, solo per far credere che aveva la sposa... 
Passa lo Stronzo  a ritirare i piatti delle mazzarelle e chiede: ma lo conoscete quello là fuori? Sci, è un amico nostro, risponde Giovanni. E’ due ore che sta la’, ogni tanto entra  a comprare una bottiglia e poi si risiede, dice lo Stronzo. Aspetta, mo ci vado a parlare, dice Marco. 
Marco esce dal bar e si avvicina all’amico seduto allo sgabello.
Alfredo, ma com’è ‘sto fatto che ti ha lasciato la sposa, chiede Marco.
All’interno del bar lo Stronzo, con la panza e i capelli bianchi col riporto, scoppia a ridere tra i suoi baffetti e si volta verso Giovanni, ‘ngulo, delicato l’amico tuo, dice.  Ma Alfredo non si scompone, continua a fissare il nulla con la bottiglia ormai vuota in mano. 
Dai Alfre’, che cazzo te ne frega, te ne trovi una meglio, dice Marco, pure a me l’anno scorso mi ha lasciato la sposa, e ti dico, meglio soli che male accompagnati. 
Silenzio. Anche Giovanni e lo Stronzo osservano curiosi la scena. 
Dai Alfre’, vieni a mangiare due mazzarelle con noi, lasciala perdere cullì. 
Nessun cenno di risposta. Nessun movimento. 
Marco comincia ad innervosirsi. Alfre’, porco mo se ne va, rispondi!, dice.
Si avvicina e con la mano gli scuote una spalla. Alfredo ha un sussulto e si alza in piedi. Si volta verso Marco. E’ molto più alto di lui, ha un’espressione gelida sul viso. Marco ne è quasi intimorito, indietreggia di un passo.
Non mi ha lasciato la sposa, dice Alfredo scandendo con perizia ogni parola. L’ho lasciata io, la sposa, aggiunge con orgoglio. 
Silenzio, di nuovo. Marco cerca di fare lo spavaldo ma è  intimorito dallo strano comportamento di Alfredo.
Ahh, vabbe’, sicuramente hai fatto bene, dai entra, dice. E gli da’ una pacca sulla spalla.
Non mi toccare per piacere, soggiunge Alfredo, gelido.
E la madonna, sussurra Marco sorpreso, ma che t’ho fatto?
Tu hai accimentato la sposa mia, dice Alfredo a denti stretti. 
Marco spalanca la bocca incredulo. Ma stai scherzando? Ma stai fuori di coccia? Io non so manco chi è la sposa tua.
Lo sai, lo sai, dice Alfredo alzando leggermente la voce. 
Ma che dici? Ma che so? Anzi, mo te lo dico, tu secondo me la sposa manco ce l’hai, tu ti inventi un sacco di cazzate, dice Marco. Le ultime sillabe di ‘cazzate’ le pronuncia quasi sussurrando, pensando di essere un po’ troppo duro.
Simona, la conosci, coglione? chiede Alfredo.
Marco alza le spalle e fa lo gnorri. No, chi è?
Alfredo si avvicina e punta il fondo della bottiglia in direzione viso di Marco.
Quant’è vera la madonna ti spacco la bottiglia sulla coccia, dice.

La minaccia di Alfredo gli rinfresca bruscamente la memoria. Ieri sera alle nove stava vicino a piazza Verdi a comprare il fumo da un cellangulo di quattordici anni che gli aveva chiesto quaranta euro, e lui ce ne aveva trenta, ma c’era pure una ragazza, bianca bianca, magra magra, con i piercing sulle labbra e sul naso, un po’ zezzona, lei ha ricacciato venti carte e il cellangulo ha dato un tocco anche a lei. Alla fine Marco e la ragazza si sono attrezzati un prefone insieme, e mentre fumavamo seduti sui gradini della piazza la ragazza rideva, diceva cose senza senso, non finiva una frase senza scoppiare a ridere di nuovo, e alla fine si era avvicinata di più a Marco e gli aveva dato un bacio, e Marco il bacio se l’era preso con un po’ di repulsione, perché gli fanno senso i piercing. Poi gli aveva chiesto il numero, lui glielo aveva dato, se ne era fregato di avere quello della ragazza. Che si chiamava Simona, sì, adesso si ricorda. Poi l’aveva salutata e se ne era andato a casa. Lei gli aveva mandato un paio di messaggi, diceva che dovevano rivedersi, e mentre li leggeva Marco aveva la testa altrove, pensava: sono solamente io il coglione che va a dare trenta euro a un cellangulo di quattordici anni.

Ma adesso Marco è davanti ad Alfredo. Che sta ingazzato come una bestia. 
Alfre’, ho capito chi è, ma veramente, non lo sapevo che era la sposa tua, dice Marco pensando che forse Alfredo ha visto i messaggi inviati da quella fattona.
Alfre’, comunque non è successo niente, ci siamo fatti un prefone insieme e basta, continua.
Un prefone insieme, sci, dice Alfredo, tu hai provato a pomiciartela, cazzo di amico che sei, fai schifo.
Stavolta è Marco ad alzare la voce. 
Alfre’, primo: è lei che a provato a pomiciare con me, non io. Secondo: la sposa tua è una zezzona, e a me le zezzone non mi piacciono. 
Forse non doveva dirlo. No, non doveva. Alfredo lancia un urlo acuto e una bestemmia, poi spacca la bottiglia sullo sgabello che cade a terra e si lancia verso Marco puntando pericolosamente sulla sua faccia i cocci aguzzi che gli restano in mano. Marco perde l’equilibrio e si appoggia alla pensilina per non cadere a terra.
Quant’è vera la madonna io ti sgozzo!, urla Alfredo.
Immediatamente intervengono Giovanni e lo Stronzo a separarli, afferrando Alfredo per le braccia mentre continua ad urlare io ti ammazzo, pezzo di merda!
Smettetela, non fate i bambini, non è successo niente, dai, dice lo Stronzo mentre trattiene Alfredo che continua a ripetere la sua tiritera di insulti verso Marco, che ora ascolta a testa bassa, con atteggiamento quasi colpevole.
A poco a poco le parolacce e le bestemmie di Alfredo si fanno più flebili. Dai, siete bravi ragazzi, è stato un malinteso, non prendetevela per le sciocchezze, i guai nella vita sono altri, dice lo Stronzo con aria paternalistica e le braccia sulle spalle di Alfredo.

Adesso Alfredo è più calmo. Sei proprio un frichino, dice alla fine, ti fai difendere dallo Stronzo per non prenderci le mazzate. 
Giovanni prova a sussurrare un no ad Alfredo, che si accorge tardi del suo labiale.
Come mi hai chiamato, chiede lo Stronzo.
Alfredo abbassa la testa con evidente imbarazzo. 
Come mi hai chiamato, chiede di nuovo lo Stronzo, con voce bassa ma tesa come una corda di violino.
Non mi riferivo a te, France’,  è Giovanni, Giovanni è lo stronzo, noi lo chiamiamo così, dice Alfredo, e indica l’amico. 
Uno schiaffo fulmineo in pieno viso lo ammutolisce. Alfredo non reagisce, abbassa il viso come un bambino dopo la punizione di un papà severo. 
Lo Stronzo, con il viso rosso come un peperone, rientra lentamente nel bar.
I tre amici sono ora muti, immobili.
Dai, paghiamo e andiamocene, dice Giovanni.
Ma la porta del bar si spalanca di nuovo con un clank maestoso, e lo Stronzo, con il viso rubicondo ferocemente deformato dall’ira, afferra lo sgabello su cui prima era seduto Alfredo, lo solleva e lo lancia con spropositata rabbia addosso al ragazzo, che miracolosamente fa in tempo a spostarsi e lo prende solo di striscio, sulla spalla sinistra, cosa che non gli impedisce di lanciare un gridolino acuto di dolore.
Vent’anni, sono vent’anni, urla lo Stronzo con occhi di bragia mentre il riporto gli cade sul lato sbagliato svelando impietosamente la sua calvizie, sono vent’anni che nessuno mi chiama Lo Stronzo!
Afferra di nuovo lo sgabello e si lancia all’inseguimento di Alfredo, che nel frattempo, con la mano sulla spalla dolorante,  scappa via a gambe levate. Anche Marco e Giovanni se la svignano, in direzione opposta a quella di Alfredo.
Le urla dello Stronzo riecheggiano per i vicoli del centro: vent’anni che nessuno mi chiama lo Stronzo, e poi arriva un cellangulo di vent’anni... Dove sei??? Dove cazzo sei??? 
Giovanni, che abita lì vicino, rientra a casa. D'altronde, Giovanni rientra sempre presto sennò la mamma si incazza.  Marco è da solo, non ce la fa più a correre, ha il fiatone. Ormai le urla dello Stronzo sono svanite, forse è tornato al ristorante, forse ha raggiunto Alfredo e gli ha spaccato lo sgabello sulle corna, forse è morto. Marco è rimasto scosso. Da Alfredo, dallo Stronzo, dalla corsa col fiatone per le vie del centro. Non correva da anni, adesso ha bisogno di relax. Dallo Stronzo non ha pagato, ha ancora venti euro nella saccoccia e sono solo le dieci. Con un po’ di fortuna, fa ancora in tempo a beccare il cellangulo di piazza Verdi. 

mercoledì 5 settembre 2012

Take This Waltz



Cara Sarah Polley,
ma perché non hai lasciato che il tuo film finisse nel momento in cui Michelle Williams, su invito dello stesso marito tradito, esce di casa e corre via alla ricerca dell’uomo che ha capito di amare, ma poi raggiunge l’oceano, il placido e spietato oceano, e davanti a quella distesa infinita e invalicabile non può far altro che lasciarsi cadere a terra e voltare lo sguardo verso lo spettatore in sala? Era lì che ci voleva un bello stacco su nero su cui far salire i titoli di coda; la protagonista ha tentato la fuga dalla prigione in cui ha capito di vivere ma ha scoperto che via di fuga non c’è, e allora, confusa, non può far altro che voltarsi con una silenziosa richiesta di aiuto, così come faceva il Jean Pierre Leaud de I quattrocento colpi di Truffaut, anche lui davanti al mare, il mare, sempre il mare...
Ma invece hai voluto che, quando Michelle Williams si volta verso lo spettatore, la sua espressione confusa si tramutasse in un sorriso felice, perché davanti a lei c’era lui, l’uomo che cercava. E soprattutto, hai voluto appiccicare al tuo film quell’ultimo quarto d’ora che sembra un sequel involuto e accelerato col tasto forward del videoregistratore, con Michelle che va a vivere con il suo amatissimo belloccio, si diverte un mondo prima che il grigiore di una nuova routine torni a farla soffrire, fa una visita all’ex marito, alla fine capisce che è meglio stare soli che male accompagnati. Ma perché, perché, perché la necessità di dire così tanto, quando nell’ora e mezza precedente raccontavi così poco, ma lo facevi così bene?
Davvero, lo fai benissimo.
E lo sai perché?
Perché racconti quello che poteva essere il più banale dei triangoli sentimentali ma allo spettatore sembra di non aver mai visto nulla di simile.
Perché scrivi dialoghi in punta di penna ma che gettati sul viso senza trucco della protagonista non ci sono mai sembrati così veri.        
Perché fai crescere i tuoi personaggi senza fretta, prendendoli per mano, senza invadenza, suggerendoci il loro dolore senza sbattercelo in faccia, con rispetto e pudore anche quando ci mostri i dettagli anatomici di una donna al gabinetto.
Perché per una volta il marito tradito è un personaggio assai più ricco, sfumato e nobile dell’avventuriero dal fascino irresistibile.
E allora, di nuovo, perché rovinare tutto negli ultimi quindici minuti? Per un’ora e mezza hai cercato un equilibrio difficilissimo fatto di colori pastello, visi, lacrime e sorrisi, parole e silenzi dosati al nanosecondo. Sei stata un'acrobata, una ballerina su un palco di cristallo fragilissimo,  una farfalla che si posa su una bolla di sapone. Sai bene che un bacio tra i due protagonisti avrebbe fatto crollare il palco e scoppiare la bolla, e difficilmente la farfalla sarebbe tornata a volare. E allora perché un minuto dopo il loro illogico ritrovamento, i due protagonisti sono già pronti ad orge sfrenate con sconosciuti?  Perché metterci di mezzo l’alcolismo della cognata? Perché “parodiare” una delle scena più belle del film, quella in cui Michelle Williams e Luke Kirby sono sulla giostra insieme e la forza centrifuga li avvicina e li allontana e sono tentati a lasciarsi andare ma alla fine non lo fanno, solo per dirci che Margot è più felice quando è sola?
Ok, Margot non è tagliata per la vita di coppia, grazie per l'informazione, ma chissenefrega. In quel quarto d’ora finale vuoi dire tanto ma nessuno te l’ha chiesto. Vuoi arricchire il ritratto dell’infelice protagonista ma non fai che renderla banale. La ridondanza è nemica dell’arte, la spoglia dei suoi misteri, la rende insipida e ovvia.
Ma tu, da mostro di talento qual sei, tutto questo lo sai perfettamente. E allora su, a noi puoi dircelo... un compromesso con la produzione? Non te lo perdoniamo, cara Sarah Polley, di aver rovinato un quasi capolavoro. Ma continueremo a seguirti con fiducia. Nel prossimo film tornerai a danzare e il palco non crollerà, ne siamo certi.  


sabato 25 agosto 2012

Benigni


Si digita "Benigni" su youtube e accanto alle decine di clip del Robertone nazionale vien fuori questo cortometraggio realizzato nel 2009 dal trio di registi finlandesi Elli Vuorinen, Pinja Partanen, e Jasmiini Ottelin (vedi il video in basso). Benigni è dunque una parola finnica, che vuol dire semplicemente benigno, almeno stando a google translator.
Girato in animazione a passo uno, Benigni racconta la storia di un uomo di mezza età, bolso e compassato, che vive solo in un appartamento di un palazzo popolare. La sua routine quotidiana è fatta di lunghe fumate alla finestra, suonate di xilofono, lettura di comics e sonnellini in poltrona. Un giorno si accorge che l’escrescenza che gli si è formata sull’adipe dell’ascella destra è notevolmente cresciuta di dimensioni e, magia, sembra avere vita propria, tant’è che ad un certo punto ne spuntano anche due occhi azzurri che la fanno sembrare un alieno spielberghiano. Dapprima l’uomo è tentato di sbarazzarsene con una coltellata, poi, ammansito dagli occhi dolci della creatura, si rassegna a conviverci. Ne nasce a sopresa un rapporto tenerissimo; la creatura accompagna necessariamente l’uomo in tutte le sue attività quotidiane, trasmettendogli una serenità che sembrava impossibile in tanto grigiore. Ma un incidente domestico è destinato a porre fine a quell’idillio...
Il tema della metamorfosi del corpo ha affascinato scrittori e artisti per secoli, e vedendo Benigni tornano in mente le inquietanti visioni di Cronenberg e dei suoi body horror, ma anche Erhaserhead di Lynch e più note suggestioni mainstream come nei vari film di Alien. Ma non c’è nulla di cervellotico in questo corto che vira piuttosto su un piano decisamente intimista; forti di uno stile minimal che soprende ad ogni scena, gli autori non forzano alcuna interpretazione specifica, e la storia di questa bizzarra relazione tra un uomo e il suo adipe vivente potrebbe essere letta, ad esempio, come una metafora della perdita di un figlio, o della necessità di imparare a convivere con la malattia, o chi più ne ha più ne metta. Ma per quanto ci riguarda, Benigni è semplicemente una struggente favola sulla solitudine e sul bisogno insopprimibile di amare. Pudica e toccante come lo sono i capolavori. 



giovedì 23 agosto 2012

Storia vera udita in una spiaggia abruzzese


Due persone in divisa grigioverde entrano nella banca di una cittadina della costa teramana, e si avvicinano ad un dipendente dietro il bancone.
“Buongiorno, siamo della finanza. Siamo qui per controllare la regolarità di alcune uscite. Ci conduca al caveau per favore”
Il dipendente si alza, annuisce e biascicolando un prego si dirige verso un corridoio interno seguito dai due uomini in divisa. Raggiunge l’enorme cassaforte a muro e con lentezza esasperata digita il codice di apertura sul tastierino elettronico. La pesante porta circolare si schiude con un clic acuto. Il dipendente ha appena afferrato la maniglia a timone quando sopraggiunge alle spalle la voce di uno dei finanzieri:
“Guarda, non siamo finanzieri, siamo ladri, dacci tutti i soldi, subito!”
Il dipendente si volta e alza una mano al cielo esclamando:
“...e lu cazz lo potevate dire prima m’avete fatto piglià uno spavento!”


giovedì 26 luglio 2012

Il ghigno di Norman Bates


Se il gentile lettore non ha mai visto Psycho di Alfred Hitchcock, lo invitiamo ad abbandonare immediatamente la lettura di questo post per non rovinare l’eventuale futura visione di uno dei più bei film mai realizzati.  Altrimenti, resti pure con noi.
Si parla della scena pre-finale, quando Vera Miles scende nella cantina della casa dell’albergatore, vede la madre di Norman Bates seduta di spalle, prova a parlarle sfiorandole la spalla ma la sedia ruota su se stessa e si accorge che la madre di Norman è in realtà uno scheletro putrefatto, che sfoggia in modo grottesco una dentatura ancora sana. Vera Miles lancia in un grido acuto, urta inavvertitamente una lampadina che inizia ad ondeggiare rivestendo lo scheletro della donna di un inquietante luce-ombra che sembra quasi animarlo. E poi entra lui, Norman, con la vestaglia a fiorellini e la parrucca grigia sulla soglia della scalinata, che alza il pugnale in aria con il ghigno beffardo di chi gode per la vittima imminente.
Quella scena è una vera discesa all’inferno. Per chi scrive, tra le più agghiaccianti della storia del cinema. E in particolare è proprio l’immagine di Norman ghignante in vestaglia e parrucca a gelare il sangue e sconfinare nelle paure ataviche più profonde. Il terrore, quello autentico e non semplicemente pilotato dai trucchi affabulatori di un bravo narratore, nasce dalla mancanza di certezza, della possibilità di confinare ciò con cui veniamo a contatto in una categoria ben definita e rassicurante. Il Norman di quella scena non è giovane nè vecchio, non è uomo nè donna, è un ibrido che per un terribile secondo non riusciamo assolutamente ad identificare. Un mostro, dunque, nella vera accezione del termine; spaventoso perché non ha nessuna maschera fasulla che lo archivierebbe nella rassicurante famiglia degli orchi da fiaba, nè viene da un'altra galassia o mondo parallelo, ma potrebbe essere una persona qualunque, magari il nostro vicino. O addirittura noi stessi. Ma soprattutto, Norman con vestaglia e parrucca è un clown, un buffone vestito da donna che in altri contesti ci avrebbe fatto sorridere o storcere il naso per la sua puerilità. Nell’immaginario infantile, il clown è un personaggio ambiguo e inquietante, quello che ci faceva divertire ma che nascondeva nel suo ghigno segreti con cui nessun bambino vorrebbe venire in contatto.   La forza di quella scena sta nella capacità di Hitchcock di restiituire a noi adulti una paura, quella del clown, che è forse la più radicata e inestirpabile che ci portiamo appresso dall’infanzia. Per un terribile secondo, torniamo tutti ad avere sei anni.     
Beh, il cinema potrà anche durare un altro millennio, ma qualsiasi mostro digitale di futura generazione difficilmente potrà eguagliare il terrore atavico che suscita Norman Bates in parrucca e vestaglia...
La scena di cui abbiamo parlato nel video in basso. Se avete il coraggio...


martedì 17 luglio 2012

Rebecka Liljeberg




Una decina di anni fa mi ero preso una sbandata incredibile per la protagonista di  Fucking Åmål , uno dei miei film preferiti. Straordinaria, magnifica, talentuosa, bellissima Rebecka Liljeberg. Avevo registrato il film a notte fonda su Rai 2, e non facevo altro che rivederlo, andando avanti e indietro con il telecomando del VHS alla ricerca dei suoi primi piani. Ero ammaliato da quel viso pulito da fata dei boschi, dall’incredibile espressività dei lineamenti, dai suoi silenzi impacciati carichi di fascino. Sapevo che al minuto x della registrazione i suoi magnifici occhi neri roteavano impacciati e si inumidivano di rabbia, che al minuto y aveva i capelli legati a coda e sorrideva, che al minuto z voltava il baschetto bruno e il suo profilo veniva accarezzato dalla luce del primo pomeriggio e rivolgeva uno sguardo in macchina, e quindi a me che la guardavo sul teleschermo.
Con l’immaginazione sfrenata che si ha solo a vent’anni, sognavo di partire ex-abrupto per Stoccolma, la città dell’attrice all’epoca ventunenne, suonarle alla porta di casa e dirle: “Ciao, vengo dall’Italia e sono innamorato di te, non fa niente che non mi vuoi, però voglio essere il tuo vicino e riempirti di regali ed attenzioni finchè cambierai idea”. Mi avrebbe cacciato, ma vedere per qualche istante il suo viso prima sorpreso, poi vagamente infastidito, infine bonario come lo si è con i matti, sarebbe valso l’intero viaggio.
Come ogni infatuazione, quella per Rebecka Liljeberg non durò a lungo. I sogni sbiadirono presto la loro forza cromatica, e il senso del reale e le scollature di alcune compagne di corso all’università tornarono per fortuna ad insinuarsi nelle mie giornate.
Ma, quando si dice i casi della vita, qualche mese dopo ero al festival del cinema di Venezia con un’associazione giovanile cui ero iscritto, davo un’occhiata all’austero programma di seriosissime opere in concorso, e il nome di Rebecka Liljeberg fece capolino nel cast del film Il bacio dell’orso, del regista russo Sergei Bodrov.
Rilessi il nome tre o quattro volte, ma sarà lei? certo che è lei, coglione, quante attrici di nome Rebecka Liljeberg vuoi che esistano?? Immediatamente rinacque in me l’ardore di quelle serate spese a consumare le testine del videoregistratore sul nastro di  Fucking Åmål.
Ok, era sicuramente lei, ma la domanda fondamentale a quel punto era: Rebecka era al lido? Cercai di informarmi con i colleghi dell’associazione, nessuno sembrava sapere chi diavolo fosse Rebecka Liljeberg. Ma dai, è quella di  Fucking Åmål , non puoi non saperlo, dicevo. Ahh, ok, rispondevano, boo, non lo so se c’è. Un attimo, si avvicinava un redattore vagamente gossipparo, parlate del cast de Il bacio dell’orso? Ho visto il regista Sergei Bodrov vicino al Palagalileo. E ‘sti cazzi, rispondevo io, ma Rebecka c’è? E chi è Rebecka? Ok, lascia perde’.
Poi pensavo che era un gran colpo di fortuna che lei fosse quasi sconosciuta, così non avrebbe avuto centinaia di fan rompicoglioni alle costole, e avrebbe potuto dedicarmi più tempo. A patto che, effettivamente, Rebecka fosse al lido.
Ebbene, Rebecka c’era. Pedinai uno dei redattori che doveva incontrare il regista di quel film russo, e la vidi uscire dalle porte scorrevoli dell’hotel Excelsior, dove si tenevano gli incontri con la stampa. Indossava una t-shirt bianca e pantaloni neri larghi hip hop. Ci misi due secondi ad accertare che fosse lei. Non c’era tempo per essere timidi e mi avvicinai a passo rapido, vagamente agitato, riflettendo sul fatto che, quando attendi impaziente qualcosa e poi finalmente ti capita, pensi sempre che avresti bisogno di un minuto in più. Soltanto un minuto in più per distendere il battito cardiaco e riorganizzare le idee.
Era davvero bassa, sotto al metro e cinquanta. La chiamai per nome e non si girò. La richiamai a voce più alta e finalmente si accorse di me. I’m your greatest fan ever, I saw all your movies, le dissi e le tesi la mano, anche se non era vero, avevo visto solo Fucking Åmål  e poi di film ne aveva girati soltanto due. Lei mi sorrise e mi strinse la mano cortese, biascicolò qualcosa come ohh nice, poi scese per un istante un imbarazzante silenzio, in cui mi sembrò di leggere sul suo sguardo un’espressione del tipo “e adesso che vuole ‘sto pirla?”. Non volevo che il nostro incontro finisse lì, e continuai a farle domandine generiche del tipo “è la tua prima volta a Venezia? Quali sono i prossimi programmi?”. Lei rispondeva diligente e con un sorriso di maniera, come chi va di fretta ma non vuole essere scortese. Poi tirai giù lo zainetto che mi portavo appresso  come uno scolaretto, ne tirai fuori un piccolo block-notes e una penna, e le chiesi un autografo. Mentre mi scriveva una piccola dedica in inglese, l’impietosa luce bianca del sole di mezzogiorno svelava piccole rughe precoci sul suo viso, e notai che le guance e i fianchi erano più rotondi di quanto mi aspettassi. Era una Rebecka più umana, una ragazza carina ma imperfetta come se ne vedono tante, che non reggeva di certo il confronto con la Rebecka sullo schermo. Dopo l’autografo le augurai il meglio per il futuro, lei ringraziò sorridendo ancora una volta e ci salutammo.
Smisi presto di pensare a Rebecka Liljeberg, stavolta definitivamente, ma quell’episodio rimane per me piacevolissimo ed emblematico. Non tanto per l’esito dell’incontro in sè, ma per la fiducia verso le piccole grandi sorprese che la vita può riservarti. Ti piace un’attrice straniera semisconosciuta e naturalmente pensi che non avrai mai modo di incontrarla, e invece pochi mesi dopo ti ritrovi faccia a faccia proprio con lei, a scandire in maniera univoca tre interi minuti della sua vita. Non di più, ma va bene così.
Dopo Il bacio dell’orso, Rebecka Liljeberg si è ritirata dal mondo del cinema, ha ripreso gli studi e si è laureata in medicina. Oggi ha trentuno anni, vive a Stoccolma con il fidanzato e ha tre figli.
In omaggio a questa grande ex-attrice, ecco nel video in basso un’inarrivabile scena di Fucking Åmål (peccato per l’orrendo doppiaggio italiano...).




domenica 15 luglio 2012

Habemus papam



Habemus papam di Nanni Moretti (visto con oltre un anno di ritardo in un cinema danese) sembra uno di quei film nati da un’ intuizione folgorante trasformata presto in ostinato capriccio, di quelli che solo cineasti all’apice della carriera possono permettersi nonostante, a carte in tavola e mente lucida, l’idea iniziale riveli poi la propria debolezza e pretestuosità.  In un certo senso, Habemus papam rappresenta infatti la materializzazione di uno di quei deliranti sogni morettiani generosamente centellinati nel cinema del regista romano, basti pensare al musical ambientato in pasticcieria in Aprile o al lupo mannaro di Sogni d’oro. Moretti dev’essere stato affascinato dall’immagine di un papa in crisi che incontra uno psicologo, nonché dall’idea di un torneo di pallavolo tra gli attempati cardinali tra le mura vaticane. E invece di farne una semplice clip come quelle già leggendarie de Il caimano, stavolta ci ha costruito attorno un’intera opera. 
Il problema è che, nel momento in cui si mettono in scena massimi sistemi come religione, scienza, psicanalisi, darwinismo e crisi esistenziale, le ambizioni del film crescono a misura esponenziale e con loro il rischio di fallimento. Habemus papam non è un film riuscito. I temi affrontati avrebbero richiesto ben altro coraggio, ispirazione e forza espressiva. Moretti racconta invece la sua incredibile vicenda con occhio minimalista e senza alcuna ricerca di realismo, con i porporati descritti come bonari buontemponi e Roma come una città colma di gente generosa e sempre disposta a farsi in quattro per aiutare un anonimo anziano in difficoltà. Una favola, dunque, ma semplicistica e fortemente irrisolta. Se nel precedente  Il caimano Moretti aveva avuto per la prima volta il coraggio di farsi da parte e lasciare l’intera scena al protagonista Silvio Orlando, qui se la spartisce con Michel Piccoli. Con il risultato che il film non riesce a scavare nelle inquietudini di questo papa né a dare un vero senso al suo criptico psicanalista. Certo, non mancano i momenti straordinari, come quando il papa rivela timidamente il suo sogno giovanile di diventare un attore, o l’immagine evocativa del balcone vuoto con le tende rosse mosse dal vento, o la scena dei cardinali che ondeggiano e battono le mani al ritmo di Todo Cambia di Mercedes Soza, o Moretti che arbitra la partita di pallavolo dei cardinali mentre sproloquia sulla spietatezza del darwinismo. Ma sono perle disperse in un generale grigiore. Forse Moretti voleva proprio mettere in scena la pretestuosità dei massimi sistemi davanti alle debolezze della vita. O forse il film va preso per quello che è, un divertissement. Che però divertente lo è solo a metà.


sabato 7 luglio 2012

Euro 2012 - Il vero regalo di Prandelli




La Nazionale di calcio è una grande maestra di vita. L'istituzione più venerata e rispettata che abbiamo in Italia. Non esiste alcun politico, nè filosofo o artista o scrittore che abbia la stessa capacità della Nazionale di calcio di incidere nella coscienza dell’italiano medio.  Qualsiasi comizio, aforisma, poesia o dipinto non  sarà mai in grado di segnare l’immaginario degli italiani come una rovesciata di Balotelli, una punizione di Pirlo, un colpo di testa di Cassano. Finiscano in rete o meno. 
Bisognava lasciar decantare qualche giorno questo Campionato Europeo, lasciare che la ferita della finale iniziasse a cicatrizzarsi. E capire che il vero regalo di Prandelli e colleghi non è stato quello di restituire splendore ad una maglia infangata dal disastroso mondiale sudafricano, nè quello di valorizzare talenti del pallone sregolati (Balotelli e Cassano) o attempati (Pirlo), nè quello di confermare clamorosi ricorsi storici (la gagliardissima vittoria con la Germania in semifinale). Il vero dono della squadra di Prandelli agli italiani sta proprio nel quattro a zero della sconfitta finale. Perché per una volta il risultato così netto azzera qualsiasi risibile arrampicata sugli specchi dei tradizionali difensori a oltranza della maglia azzurra. L’Italia non ha perso la finale per errori arbitrali, favoritismi agli avversari, fuorigioco inesistenti, scelte tattiche sbagliate, espulsioni ingiustificate, rigori sfigati; l’Italia ha perso perché ha incontrato un avversario, la Spagna, inequivocabilmente più forte. Punto. 
Il messaggio è arrivato con nitidezza schiacciante, e gli italiani hanno finalmente scoperto una qualità di cui non sono certo prodighi: l’umiltà. Riconoscere che la Nazionale Italiana è una grande squadra, certamente superiore alle previsioni iniziali, ma che c’è di meglio. Festeggiare le vittorie ma anche lasciar da parte una pomposità un po’ cialtrona e avere il coraggio di ammettere la propria inadeguatezza di fronte a chi è innegabilmente migliore. Frasi che in altri contesti farebbero storcere il naso, suonerebbero trite e moraliste e si depositerebbero in superficie per evaporare in fretta. Ma che nel momento in cui si traducono in uno spaventoso risultato negativo della Nazionale in una finale di un Campionato Europeo, hanno la forza di marchiarsi a fuoco nella coscienza di ogni italiano. Questa sconfitta ci ha reso più maturi. Nel calcio come nella vita. Bisogna saper perdere per poter imparare a vincere. Riconoscere i propri limiti è l’unico modo per riuscire a superarli, e diventare finalmente adulti.  
Ma, ancora, le nostre sono solo parole. Lasciamo che siano le incertezze di Chiellini, le parate di Casillas e i fuochi d’artificio di Jordi Alba e Torres a raccontarcelo meglio.



lunedì 25 giugno 2012

Tifare Italia all'estero


Ieri sera l’Italia ha battuto l’Inghilterra ai rigori, qualificandosi per la semifinale degli Europei di calcio 2012. Siamo italiani in Danimarca e ieri sera abbiam tifato Italia come se stessimo vedendo la partita nella nostra madre patria. O forse con trasporto ancor maggiore. Le motivazioni sembrano scontate: sentimento nazionale che si tinge di nostalgia, la gioia di condividere l’evento con altri italiani e stringersi in un piacevole volemose bene che per due ore ci aiuti a dimenticare la sottile alienazione della vita all’estero, l’atavico orgoglio calcistico del nostro popolo da celebrare in terra straniera. Lo stesso potrebbe valere per altri popoli, ma gli italiani sono di solito i più casinari e festaioli, a costo di apparire irritanti ai danesi più musoni. Potremmo facilmente liquidare  la nostra  esuberanza con un’alzata di spalle e un generico siam fatti così, e  sicuramente i danesi non avrebbero obiezioni. Ma c’è qualcosa di più delicato e profondo nel nostro gioire, nelle urla sfegatate davanti alle prodezze di Pirlo e Cassano, nel ritmo sostenuto dei cori da stadio. Un qualcosa che ha a che fare con l’insicurezza che ci portiamo addosso.  E che altrove cerchiamo di mascherare  ripetendo in Italy... in Italy... ad ogni discorso con gli stranieri, ostentando i clichè sul Belpaese più triti e ritriti, cercando facili risate nel raccontare le disavventure del berlusca.  Ma quando le maschere cadono e siamo soli con noi stessi, dobbiamo fare i conti con uno spettro che ogni italiano all’estero si porta addosso. Il fantasma di un Edipo irrisolto. Quello di una madre patria che ci ha promesso tanto e ci ha dato poco, che ci ha cullato generosa e si è poi trasformata in un’indifferente statua di sale, che dimentica i suoi figli lontani e imbrigliata nei suoi affari egoisti non muove un dito per riaverli indietro.
Ogni italiano ha nel cuore le carezze del sole e la vertigine dell’azzurro, sia esso cielo o mare. Ogni italiano è un pozzo di sentimenti coperti da un sorriso un po’ cialtrone. Ogni italiano sa che qualsiasi esperienza un paese straniero gli proporrà, non varrà mai come una passeggiata sulla spiaggia al chiaro di luna dopo aver divorato un piatto di spaghetti alle vongole. Ogni italiano sa che sarà sempre e solo italiano, dovesse vivere all’estero altri cent’anni.
Abbiamo lasciato la nostra madre patria un po’ per caso e lei non se ne è neanche accorta. Forse non se ne accorgerà mai. Eppure continuiamo a celebrarla. Siamo privilegiati, e lo sappiamo, perchè abbiamo mosso i nostri primi passi nel paese più bello del mondo. E’ la sensazione di un sentimento non corrisposto, un silenzioso tumulto interiore che ci rende vulnerabili quando ci si riunisce per le partite della Nazionale, che ci spinge ad urlare, che ci fa commuovere davanti alle note,  altrove retoriche e tronfie, dell’inno di Mameli.  
Forza, Italia. Italia forza, anzi. 

Paolo Barnard - Il più grande crimine


L’Europa in mano alle banche, che hanno privato gli Stati della loro moneta sovrana rendendoli schiavi dei privati e dei loro tassi d’interesse. La bufala del debito pubblico e dell’inflazione come spettri per il controllo delle masse. L’euro come generatore perverso di debito (vero!) e quindi di sudditanza; un progetto nato negli anni ’30 con lo scopo di far tornare al potere le élite assolutiste che avevano dominato il genere umano almeno fino alla rivoluzione francese. Le responsabilità, nell'Italia degli anni ‘70, del Partito Comunista (e dell’attuale presidente Napolitano), che in piazza si fregiava di parole come uguaglianza e lotta di classe ma poi stringeva accordi a Bellaggio con la Fondazione Rockfeller. Le colpe di Prodi e D’Alema. Il destino pianificato del sud Europa come territorio simil-balcanico dove manovalanza a basso costo produce ricchezza per un fronte franco-germanico in grado di competere sulle esportazioni con Cina e Stati Uniti.  
Le lucidissime tesi di Paolo Barnard, ampiamente documentate, gelano letteralmente il sangue e offrono una prospettiva inedita su una crisi che ci faceva fin troppo comodo osservare dal lato sbagliato. Al confronto, qualsiasi monologo di Travaglio sembra la ramanzina bonaria di una maestrina agli studenti discoli.  Ma oltre che sulle loro sconvolgenti implicazioni, le parole di Barnard fanno riflettere sulla facilità di certo manicheismo di sapore politico in cui è imbrigliata l’informazione in Italia. La Repubblica, Il Fatto Quotidiano, Servizio Pubblico, Piazzapulita e pochi altri giornali/talk show che sarebbero le fonti di informazione buone per il pubblico pensante contrapposte a quelle cattive delle varie testate/televisioni berlusconiani. Ma se giustissime e sacrosante sono le critiche perseveranti alla corruzione politica, agli sprechi della casta, al conflitto di interessi, all’indebolirsi delle istituzioni democratiche, ciò non elimina il sospetto di una tendenza un po’ facile e populista ad ingigantire spauracchi e mostriciattoli inoffensivi trasformandoli in una sorta di Belzebù. Per anni ci hanno raccontato che la causa principale del crollo economico dell’Italia era un ometto dai capelli finti, vanesio, volgare e cialtrone. E mentre eravamo lì a scannarci su processi brevi, intercettazioni, giri di mignotte e mazzette varie come se fossero le cause principali del nostro declino, le banche ci prosciugavano in silenzio senza che nessuno proferisse parola.
Numeri alla mano: il conflitto di interessi di Berlusconi ci è costato sei miliardi, la casta ci costa quattro miliardi, tutte le mafie italiane novanta miliardi. La crisi del 2007-2008 ci è costata quattrocentrocinquantasette miliardi a causa dell’internazionalizzazione del nostro debito in mano alla finanza operata da Prodi, D’alema e compagni.
Come dire, guardiamo solo i nostri piedi cercando di non inciampare in una buca, ma non abbiamo il coraggio di alzare lo sguardo e capire che siamo già finiti in un cratere.
Ma non aggiungiamo altro, e vi invitiamo a spendere un’ora e venti del vostro tempo sul video riportato in basso. Non ve ne pentirete.
Un'ultima nota: ci sembra interessante osservare che il video è stato caricato su youtube in data 29 ottobre 2011, ossia venti giorni prima della caduta del governo Berlusconi e dello stabilirsi di quello che Barnard stesso in un’intervista definisce un incredibile golpe finanziario. Meditate, gente, meditate...   


venerdì 22 giugno 2012

Stealing Beauty - sequenza di apertura


Una videocamera amatoriale pedina una ragazza adolescente su un aereo, al ritiro bagagli dell’aeroporto e poi sul vagone di un treno.
La sequenza di apertura di Io ballo da sola di Bernardo Bertolucci è forse la nostra preferita in assoluto. Perché con la forza schiacciante dell’evidenza ci rivela la straordinaria capacità del cinema di cogliere la bellezza del reale, di usare la macchina da presa come un faro che getta il suo fascio luminoso su zone troppo spesso offuscate dall’ombra del banale. 
Ad un vero maestro del cinema non servono filtri ottici o effetti visivi da migliaia di dollari per regalare un’emozione. E le immagini sgranate e tremolanti della diciottenne Liv Tyler che si infila le cuffie del walkman, che si addormenta con la fronte sul sedile anteriore, che con due borse pesanti esce a passo rapido dalla zona arrivi dell’aeroporto, bruciano di verità e di incanto. I lineamenti eleganti del suo viso bianchissimo, le dita lunghe e sottili, il riflesso dei denti tra la fessura delle labbra rosee, il filo lucido di saliva che le cola sul mento, la postura involontariamente erotica mentre dorme sul treno, le infantili calze rosa a fiorellini: la freschezza di un’adolescente delicatamente “rubata” dalla videocamera di Bertolucci (non a caso il titolo originale del film è proprio Stealing Beauty...) è anche la bellezza di chi scopre la vita, e quindi della vita stessa. Con le note pop-rock di una canzone -Rocket Boy di Liz Phair- che sembra scritta apposta per accompagnare le immagini di Bertolucci. Provare per credere.
Il cinema è questione di sguardi. E questo è grande cinema. 


domenica 3 giugno 2012

Lost - seconda stagione




Il bunker con il pulsante misterioso da premere ogni 108 minuti. Altri reduci dello stesso disastro aereo confinati da selvaggi sul lato opposto dell’isola. I famigerati e sanguinosi others. Ma anche gravidanze miracolose, amori che in pochi giorni sbocciano e annegano in tragedia, delitti per errore, ritrovamenti strappalacrime, clamorosi voltafaccia, misticismo strampalato a gogò
La seconda stagione di Lost giustifica la natura di proemio della prima con un affastellarsi di eventi che lascia con il fiato sospeso anche lo spettatore più smaliziato. In tal senso, i flashback che costituivano la parte migliore della prima stagione sono adesso il punto debole: spesso ridondanti e posticci,  rallentano vistosamente il ritmo e si ostinano a psicanalizzare alcuni dei personaggi più simpatici azzerando leggerezza ed efficacia empatica (il grasso Hugo che mangerebbe per punire se stesso dopo esser stato causa di un incidente mortale, ma dai!).    
Vecchi trucchi da sceneggiatori consumati (il pulsante da premere può davvero causare la fine del mondo o è tutto un bluff? Il prigioniero misterioso è davvero un povero disgraziato o uno dei terribili others? Quando capiranno Jack e gli altri che Micheal li sta fregando?), intrecci narrativi che sfiorano il virtuosismo, sprezzo di qualsiasi verosomiglianza giustificato dalla presunta aurea mistery che stende il suo velo sopra tutto e tutti: ci si chiede perché tanto innegabile mestiere nella scrittura sia abbinato ad una regia così fiacca, che in barba a tutto questa madornale sforzo di penna non è in grado di creare un’inquadratura seducente che sia una. 
Ma chapeau a chi sa portare avanti una storia così complessa. Anche se a volte un briciolo di ironia qua e là non guasterebbe...

giovedì 17 maggio 2012

Lui e Lei



Un unico quadrato di luce nella griglia di finestre del palazzo di fronte. E’ il suo ufficio, Lui lo sa. Lei è sola e evidentemente ha un sacco di lavoro da sbrigare. Nessun altro a rompere le scatole, un’occasione perfetta. Dalla sua posizione privilegiata può osservare quando Lei smetterà di lavorare. La stanza tornerà buia e Lei scenderà le due rampe di scale e si dirigerà a passo rapido alla fermata dell’autobus.  
Sa bene che Lei prende il suo stesso autobus, e Lui farà in modo di essere lì. E’ capitato più volte che si incontrassero alla fermata, ma ognuno era con i propri colleghi e non erano riusciti a scambiare altro che un sorriso o un impacciato ciao. Ma adesso sono le sette passate, tutti i colleghi rompiscatole sono andati via da un pezzo. Solo Lui e Lei. Alla fermata, Lui le rivolgerà la parola, poi saliranno sull’autobus e si siederanno vicini. L’occasione che aspetta da mesi. Volge lo sguardo allo schermo del computer, ma le caselle rettangolari dei fogli excel non gli dicono assolutamente nulla. Chiude il programma, torna a guardare la finestra illuminata del palazzo di fronte, poi il suo orologio. Sono quasi le sette e venti.  Ma quando si muove?

Lei ticchetta con la sua penna rossa sul documento rilegato a spirale che illustra il bilancio dell’ultimo semestre, ma poi torna ad osservare lo schermo del suo laptop, aperto sul sito web della compagnia di trasporti cittadina. C’è un autobus ogni quindici minuti, fino alle otto. Poi nessun autobus fino alla mattina presto. Non è mai rimasta così tardi in ufficio. Certo, avrebbe potuto portare a casa il documento da revisionare, e mezz'ora fa si era infatti alzata dalla scrivania e infilata il suo Barbour, quando aveva scorto nel palazzo di fronte un’unica stanza illuminata, la seconda del terzo piano, e il respiro le si era fatto improvvisamente più intenso. Non avrebbe mai potuto confondersi: era il suo ufficio. Lui era ancora lì, da solo. Adesso getta lo sguardo su quella luce arancione che emerge dai contorni sfumati dal nero della sera invernale, e un brivido le risale la schiena quando pensa che forse, quasi sicuramente, le uniche persone in quel complesso di edifici interconnessi sono Lei e Lui. L'occasione che aspetta da mesi. Non si è tolta il cappotto. Appena il palazzo di fronte tornerà completamente buio, Lei sgattaiolerà via  e lo incontrerà alla fermata dell'autobus. 

Giornata pesante, eh? No, troppo banale, sembra uscito dai dialoghi di un telefilm americano. Come mai ancora in ufficio? Mah, troppo da impiccioni. Forse semplicemente Vedo che non sono il solo a lavorare fino a tardi. Lui si tormenta con ostinazione i riccioli che gli ricadono sull'orecchio sinistro mentre cerca di elaborare un modo semplice ed efficace di rompere il ghiaccio con Lei quando presto, molto presto, si ritroveranno soli alla fermata dell’autobus. Sbuffa e facendo leva sulla scrivania spinge all’indietro la sedia girevole su cui è seduto.  Quasi sbatte contro la parete alle sue spalle. Sei un idiota, dice tra se e sè. Le dirà  quel che gli verrà in mente, non ha senso pianificare. O forse le parole gli moriranno in gola? Spera che lo sguardo di Lei gli sia amico, che silenziosamente inviti le sue parole a venir su come fiori di loto su una superficie lacustre.
Lui chiude gli occhi  e si concentra sul rumore della ventola del computer, cerca di rilassarsi alla regolarità di quel suono. Tira di nuovo la sedia verso la scrivania, fissa con intensità le icone sullo schermo finché diventano sfocate e deve sbattere le palpebre, prende alcuni fogli con vecchi appunti, li accartoccia e prova a lanciarli nel cestino di fronte, il moto parabolico è perfetto ma la palla di carta finisce a terra, poco male. La stanza di fronte è ancora illuminata. Lei non vuole andarsene e Lui non sa cosa fare per alleggerire l’attesa.

L’angolo destro dello schermo del laptop la informa che sono le sette e trentotto. Lei tira su dalla sua borsa Mandarina Duck un piccolo beatycase foderato in raso e smuove la chiusura magnetica. Ne estrae uno specchietto rotondo, vede il suo viso riflesso e pensa sono un disastro. Occhiaie pesanti e capelli inguardabili. Con due dita cerca di distendere le borse sotto gli occhi, poi si sistema il ciuffo sparpagliando i capelli sulla fronte. Adesso è un po’ rincuorata. No, dai, non sono così male, è colpa della luce al neon se si vedono le rughe.  Tira su il rimmel ma lo rimette subito dentro. Cretina, dice tra sé e sé. Che penserà Lui se vede che ti trucchi per andare in ufficio? Torna a guardare fuori.  La luce nel palazzo di fronte è ancora una fredda casella arancione indifferente all’ansia che le monta nel petto ad ogni istante. Maledizione. Ma quando si muove?     

Lui cammina su e giù nervoso per i dieci metri quadri del suo ufficio. Prova a leggere i titoli dei manuali di economia aziendale ordinati sugli scaffali, ma nessuno gli resta in mente. Capisce che ormai non ha senso cercare di distrarsi. L’unica cosa in grado di attirare la sua attenzione è la luce del palazzo di fronte. Lancia un’occhiata all'orologio. Sono le sette e cinquantaquattro. E’ questione di istanti e quella luminosa finestra quadrata tornerà una delle tante altre caselle scure. E finalmente correrà alla fermata dell’autobus ad incontrare Lei. Attende quell’istante come un centrometrista il colpo di pistola dello starter. Ma quando?

Lei si lascia cadere sulla sedia sospirando. Lui è ancora in ufficio. Ha forse intenzione di rimanere lì tutta la notte? Ne dubita, non le sembra un lavoratore così dedito. Rincuorata, pensa che Lui sa benissimo che l’autobus passa alle otto. La fermata è a una decina di metri dall’ingresso. E’ convinta che Lui scenderà appena un minuto prima, non ha senso lasciare l’ufficio in largo anticipo solo per starsene lì a patire il freddo di gennaio. Lei ha lasciato il laptop acceso e l’orologio sul desktop segna le sette e cinquantasei. Dà un’occhiata alla luce nel palazzo di fronte. E’ ancora presto, forse.

Mi sto comportando come un adolescente, pensa Lui, ed è colpito da quel subitaneo sprazzo di lucidità. E' ridicolo alla mia età lasciarsi vincere da una timidezza da sedicenne. Ho quasi trent'anni, e quando voglio una cosa devo essere in grado di prendermela. Non c’è più tempo per le frasi a metà, le parole non dette, i silenzi che mettono a disagio. Lui sorride, si scopre energico ed ottimista. 
Lei mi piace, e adesso vado a dirglielo. 
Si accorge che sono le otto e tre minuti. L’ultimo autobus è già passato e Lui l’ha perso. Ma anche Lei, ancora chiusa nel suo ufficio.  Era quella l’occasione che aspettava, e adesso se ne rende conto. Altro che un timido incontro alla fermata dell’autobus, un ridicolo bonus di dieci minuti in cui parlare del più e del meno. Adesso entrambi sono bloccati in ufficio per tutta la notte. Insieme. Soli.
I due palazzi sono comunicanti, c’è un ponte che li unisce. Presto Lui sarà da Lei. Con passo energico esce dal suo ufficio e attraversa il corridoio buio. Raggiunge il ponte,  in pochi istanti è nell'altro palazzo. Scende di corsa una rampa di scale ed è nel piano dove c’è l’ufficio di Lei. L’unico ancora illuminato. Il suo passo è pesante, chissà, forse Lei lo sta ascoltando ed è anche spaventata, ma poi vedrà che si tratta di Lui, ed è certo di non farle paura. Mentre rapidamente riduce la distanza che ancora lo separa da Lei, pensa che in fondo gli ha sorriso tante volte, nei loro incontri fortuiti. Forse non sorride a chiunque, forse Lui le piace. Ha raggiunto la sua porta, non può sbagliarsi, c’è il nome di Lei sulla targhetta. Delicatamente posa la mano sulla maniglia. Tira un respiro profondo e spalanca la porta trionfale. 

***

Lei è a casa. Ha riempito una pentola d’acqua e l’ha posata sul gas. Apre una confezione di spaghetti e li riversa su un piatto cupo. Gli spaghetti si dispongono a ventaglio. Il suo appartamento è piccolo e un po’ freddo. Si sistema una mantellina sulle spalle mentre ascolta il sibilo del gas e osserva l’acqua della pentola vorticare quasi impercettibilmente. Alla fine Lui non è venuto. Lei ha atteso fino alle sette e cinquantotto, poi è corsa alla fermata anche se la luce nell'edificio di fronte era ancora accesa. Aveva raggiunto l’autobus quando le porte scorrevoli erano già chiuse. L’autista era stato gentile e l’aveva lasciata entrare. Ma Lui non c'era. Era rimasto nella sua stanza. E pensare che, per un istante, aveva addirittura creduto che Lui si fosse accorto di Lei, di quell'ufficio ancora illuminato nel palazzo di fronte al suo. 
L’acqua inizia a bollire e i suoi pensieri si affastellano come le bolle. Lui non è venuto, ok, ma non posso continuare a pensarci tutto il tempo. C’è anche altro. Il bilancio da revisionare, la riunione con il consiglio di amministrazione, ma soprattutto gli attriti con i colleghi. E le ramanzine del capo per gli sprechi. La carta rubata dagli stagisti, l’inchiostro a colori della stampante usato per stampare i biglietti dei concerti, le bollette troppo salate. Sì, le bollette soprattutto.
Merda, sospira portandosi una mano sulla fronte, mi sa che in ufficio ho lasciato la luce accesa. 


venerdì 11 maggio 2012

Lost - prima stagione




Soggiogati dai numerosi commenti entusiastici di amici e conoscenti, abbiamo vinto la nostra atavica ritrosia alle serie televisive e ci siamo sparati l’intera prima stagione di Lost
Un commento a caldo? Beh, innanzitutto la storia di questi survivors confinati in un’isola ricca di misteri è spudoratamente confezionata dai suoi autori per compiacere la fetta più ampia del pubblico televisivo. Quello che non si chiede come mai questi naufraghi abbiano sempre taglio di capelli e rasatura perfetta, indossino vestiti diversi ad ogni episodio, non dimagriscano di un grammo, non abbiamo crisi isteriche nè si lamentino granchè della dieta a base di avocado e pesce. Al confronto, Cast Away di Zemeckis è un capolavoro del genere documentario. 
Sicuramente gli autori sono abbastanza scaltri da sapere che un racconto realistico del dramma di un gruppo di sopravvissuti  non è certo materia da ascolti record, e infarciscono la vicenda di grossolani e posticci elementi mistery che sembrano studiati a tavolino per appassionare i nerd di tutto il mondo. Sequenze numeriche sfigate, neonati maledetti, segnali radio indecifrabili, botole sigillate, apparizioni di orsi polari, e tanto tanto altro: lo script procede accumulando senza freno tutti questi elementi e alla fine della serie non ha ancora spiegato nulla.  C’è da scommetterci che anche nelle serie successive, qualcosa se lo perderà per strada. 
Comunque arrivare alla fine dei venticinque episodi non è stata una gran fatica. Nonostante qualche momento di stanchezza e le inevitabili lungaggini, la serie è infatti strutturata con abilità e si lascia seguire.  Uno spettacolo innegabilmente accattivante quanto privo di fascino, insomma, dove una fotografia uniforme rende sciatta una giungla che si vorrebbe fitta di misteri, e una regia puramente espositiva non riesce a mascherare la furbesca cialtroneria dello script.
Ma quello che rende Lost uno spettacolo vincente non è tanto il forzato lato thrilling quanto l’attenzione all'umanità dei personaggi; la serie racconta sogni, debolezze, ferite e conflitti edipici di ognuno di loro, e a tratti riesce addirittura a commuovere. Alcuni, come l'ex paralitico John Locke o il finto cinico Sawyer, non si dimenticano facilmente. In tal senso, i numerosi flashback che raccontano la vita dei personaggi prima dell’incidente aereo che li ha portati sull’isola sono assai più riusciti e convincenti del racconto fasullo della loro esistenza da sopravvissuti.
Altra nota assai positiva: l’assenza di sigle snervanti ad ogni episodio. Soltanto uno schermo nero su cui appare il titolo in bianco, che in pochi secondi si avvicina allo spettatore per poi sparire. Semplice. Essenziale. Gradito.  



giovedì 10 maggio 2012

Un paese calcisticamente serio


L’Italia è un paese calcisticamente serio.
Certo, c’è chi si fa autogol per intascare i quarantamila euro di una scommessa, ma sono solo drammatiche eccezioni. Un paese calcisticamente serio sa come valorizzare i suoi talenti. E non c’è dubbio che ciò accada in Italia. Se ci sai fare con il pallone, in Italia prima o poi sarai notato e premiato alla grande. Il talento calcistico è un sicuro lasciapassare per un'esistenza bigger than life.
Questo non succede purtroppo in un paese piccolo e insignificante di nome Danimarca. In quella fredda terra nordica, puoi anche essere Pelè ma verrai trattato come un pinco pallino qualunque. Destinato a rimanere nell’ombra, a giocare in squadre dal nome impronunciabile con compagni brocchi, pagato alla stregua di uno sfigatissimo impiegato comunale.  In Danimarca, nessuno sa che farsene di un calciatore di talento. 
Una bella sfiga, dunque, essere calciatore in Danimarca. Ma c’è chi riesce ad evadere dal destino asfittico delle lande nordiche per finire dritto dritto nel paese dove i sogni di ogni calciatore diventano realtà.
Matt Lund Nielsen giocava nel Nordsjælland. Il Nordsjælland non l'ha mai sentito nominare nessuno, e difatti è una collezione di cessi. Un banda di brocchi che farebbe meglio a dedicarsi  a tutt’altro, ma con un fiore in seno: il giovane, talentuoso attaccante Matt Lund Nielsen, naturalmente completamente ignorato da uno pseudo-allenatore con due parafanghi al posto degli occhiali, che nella sua menomanza mentale lo lasciava quasi sempre in panchina. Ma una fortunata congiunzione astrale ha voluto che Zeman assistesse ad una delle improponibili partite del Nordsjælland; e in men che non si dica il giovane attaccante danese ha vinto il biglietto aereo per il Belpaese e un posto in prima squadra nel Pescara. 
Ancor meglio è andata a Jacob Laursen Barret, un diciassettenne che giocava nell’Aalborg Bk, che di recente è stato acquistato nientepopodimeno che dalla Juventus. Anche per lui, addio squadrette di provincia sfigate, allenamenti sotto la pioggia incessante, addio stipendi da impiegato: la stella del suo talento, destinata a divenire a poco a poco opaca come il cielo plumbeo della Danimarca, ora riflette luminosa il sole dell’Italia. E Jacob avrà la possibilità di giocare affianco a leggende viventi come Del Piero o Pirlo.
Matt e Laursen sono solo due dei numerosi giocatori danesi vergognosamente snobbati dal loro rozzo popolo vichingo, e giustamente valorizzati in un paese calcisticamente  sensibile come il nostro. Arrivati in Italia, Matt e Laursen hanno scoperto che inzuppare il cornetto nel cappuccino a colazione è assai più gustoso che spalmare il burro sui rundstykker, che camminare sulla spiaggia senza essere presi a schiaffi dal vento di ponente è addirittura possibile,  che uscire di casa la domenica e vedere gente per le strade può essere molto piacevole. Ma soprattutto, hanno scoperto la gioia di sentirsi parte di una squadra che sa come spronarli a tirar fuori il meglio. Matt e Laursen presto saranno ricchi e famosi, compreranno megaville con vista sul mare, andranno in giro in Porsche e Ferrari, e un esercito di veline gli si appiccicherà addosso come la brina mattutina dei loro tristi ricordi del Nordjylland. 
E pensare che, se qualche sensibile osservatore italiano non si fosse accorto di loro, sarebbero rimasti dei perfetti sconosciuti in quella terra di nessuno, a vivere in una di quelle minuscole casette a schiera dai tetti spioventi,  ammogliati con delle ex biondine ormai avvizzite e dal petto lasco, a pedalare ogni giorno sotto la pioggia e il vento per raggiungere lo stadio per l'allenamento.
Vi prego, mettiamoci una mano sulla coscienza e facciamo del nostro meglio per limitare il triste fenomeno dei talenti calcistici danesi ignorati dalla loro ingiusta madre patria. Che l'esempio di Jacob e Matt ci sia da monito.