Pagine

domenica 10 luglio 2011

Kick Ass / Dorme

Ok, a tratti questo Kick Ass è divertente, non c’è che dire. La scena iniziale con un presunto supereroe che si lancia da un grattacielo convinto di volare ma finisce per schiantarsi sopra un taxi parcheggiato fa sghignazzare in modo sano e sincero. Anche i primi maldestri tentativi del protagonista di spacciarsi per supereroe fanno sorridere, soprattutto quando inevitabilmente finisce per prendercele da tutti. Le sequenze di lotta acrobatiche della piccola e micidiale Hit Girl sono quasi adrenaliniche. La colonna sonora è accattivante. Il problema, però,  è che c’è troppa roba in questo film. Un po’ di commedia collegiale americana, con il solito gruppetto di studentelli nerd  che sbava dietro le ragazze belle e inarrivabili, un po’ di scontata parodia del genere supereroi,  un po’ di azione con ampio dispendio di mezzi ed effetti visivi a gogò, un (bel) po’ di  splatter cartoonistico alla Kill Bill,  dosi consistenti di goliardia, una punta di sentimentalismo da romanzo di formazione. E troppi personaggi e trama troppo ingarbugliata, senza un nucleo centrale forte e nitido.  Ci si chiede a quale pubblico sia rivolto un prodotto del genere,  visto che gli stereotipi da film adolescenziale annoiano gli spettatori smaliziati mentre le massicce dosi di violenza e l’umorismo cialtrone possono turbare quelli più giovani e/o sensibili.
Da non dimenticare che la trasformazione in supereroe come via di fuga dalla difficoltà di vivere la propria giovinezza era già stata raccontata, meglio, da un piccolo grande film italiano, Dorme di Eros Puglielli.  Questo film del 1993, girato tra amici diciottenni con una videocamera amatoriale e costato meno di un decimo della più economica delle inquadrature di Kick Ass, racconta la storia del timido Ruggero, borgataro romano, che viene lasciato dalla ragazza perché lei lo considera troppo basso e gli preferisce i gemelli Riccio, un buzzurro psicopatico vittima di uno sdoppiamento di personalità. Ruggero dovrà lottare contro le proprie insicurezze e i mastodontici complessi di inferiorità prima di trovare il coraggio di affrontare a tu per tu i suoi guai. Un film costato due lire che sorprende per il senso del ritmo, la fluidità delle riprese nonostante la povertà dei mezzi, il talento visionario nella rappresentazione delle ossessioni di Ruggero (vedi lui che si reca ad una festa e osserva gli invitati ad altezza di cane) e nel ritratto della suburra romana, la sagacia con cui fonde commediaccia all’italiana con la cultura pop di anime e supereroi.
In Kick Ass, la scena in cui il protagonista, con indosso una tuta verde, prova ad affrontare due teppisti  sbalorditi da tanta ridicola audacia (“Who the fuck are you?!?!?!”) ricorda troppo il Ruggero di Dorme che, vestito da Mazinga, sfida i famigerati fratelli Riccio (vedi il video in basso). Il film di Puglielli, ispirato e sincero, si stampa nella memoria di chi ha avuto la fortuna di vederlo. Abbiamo finito di vedere Kick Ass due ore fa, ma ce lo stiamo già dimenticando. 


venerdì 1 luglio 2011

Conor Oberst


Conor Oberst, leader dei Bright Eyes, esce dalle quinte del Mirror Stage, il più piccolo dei due palchi allestiti nell’Azaleadalen di Göteborg per il Where the action is music festival, e il piccolo manipolo di fan svedesi accaparrati sulle transenne scrupolosamente occhieggiate dai ragazzoni della security si scioglie in ululati di gioia. 
Conor Oberst, pallidissimo, indossa grossi occhiali scuri, una camicia a quadretti e un paio di jeans a vita bassa. Conor Oberst manda un bacio con le mani alla piccola folla, afferra la chitarra posata sullo sgabello vicino alla batteria, regola con rapidità da esperto il microfono alla sua altezza di metro e quarantotto e parte in quarta con un brano indie dal ritmo un po’ frastornante, che immediatamente manda in visibilio il gruppetto di ragazzetti biondini alle transenne. Conor Oberst dà le spalle al pubblico e inizia a saltare come un idiota.  Agita furiosamente la testa nelle pause vocali al ritmo di batteria e basso, un piccolo vortice di capelli castano scuro da cui improvvisamente schizzano via un paio di occhiali, ma non fa niente, Conor Oberst si volta di nuovo verso il pubblico con gli occhioni spiritati in bella vista e forse pensa “tanto credono che l’ho fatto apposta”, ma noi non ci caschiamo.  Al termine della canzone, la prima interazione con il pubblico. 
“Nice to be here... in this lovely day...”. 
I fan ormai già in pre-orgasmo. 
“A lovely day in the park”, aggiunge poi in assoluta ridondanza,  ma dice “in the park” col tono placido e soffuso di chi è convinto di caricare le parole più banali di fascinosi e arcani parallelismi. Poi dà di nuovo le spalle al pubblico, beve qualcosa da un bicchiere di plastica semitrasparente delle dimensioni di una teiera, recupera gli occhiali da terra e parte con un altro brano. Alla seconda pausa torna ad interagire, stavolta abbandona la sua aria da genietto ribelle che fa tanto muffa e prova a fare il simpatico: “Are you doing this every Tuesday? Maybe I should move here...”. Visibilio dei fan. Beve di nuovo dal bicchiere-teiera, sputa a terra e parte una nuova canzone,  quindi torna a saltare in alto e all’indietro, a scorrazzare su e giù per il palco con microfono e chitarra indosso, senza mai guardare dove mette i piedi, sicuro del suo habitat come un leone nella savana. Ma non si accorge che quell’habitat è pieno di ostacoli come cavi elettrici, sgabelli, tastiere e aste per microfoni, e nonostante un membro della crew si faccia un quattro per sgombrargli la strada durante i suoi deliranti girotondi, Conor Oberst rischia di inciampare più volte e finisce quasi per cadere all’indietro sopra l’emaciato e pallido ragazzetto mingherlino e rossiccio che suona diligentemente il basso, salvo poi riprendersi con un maldestro movimento a frusta del busto da aspirante molleggiato.  Poi torna a parlare con il pubblico e non si rende conto che ha il cavo del microfono imbrigliato tra le gambe per metà della lunghezza e ovviamente il jack è staccato, il pubblico gli dice che non sente nulla ma lui non li ascolta e continua a parlare, mentre il solito sfortunato membro della crew scivola di nuovo sul palco di soppiatto e risolve la situazione sbrogliando il cavo dalle gambe del superdivo. Conor Oberst beve ancora e sputa ancora. Il concerto continua e Conor Oberst gesticola per enfatizzare la potenza verbale dei suoi testi, agita l’indice quando canta “No! No! No!” e muove le braccia in aria quando dice “Big! Big! Big!”, mentre scuote su e giù la testa e i lunghi capelli scuri gli si riversano sul viso. Poi  torna il saltellìo, stavolta con una gamba sola e la chitarra tesa in avanti e suonata con un solo dito, i fan in tripudio. E quando le parole del suo brano si fanno sempre più rarefatte e ispirate, per contrasto si slaccia l’ultimo bottone della camicia mimando l’inizio di uno striptease e lasciando intravedere una pancia non proprio da copertina di Men’s Healt, ma donne e uomini lanciano ululati acuti. Poco importa se si tratta di un gesto degno del più tamarro dei cantanti pop per ragazzine dodicenni alle prime crisi ormonali.  Ma immediatamente recupera il contegno del grande artista che non si concede facilmente, e in una pausa afferma con glaciale serietà come il palco sia un'illusione, tutto ciò che vi accade sopra è un'illusione, la vita è un'illusione e altre leggendarie perle di qualunquismo.
Alla fine, a sorpresa, si siede e salta giù dal palco, stavolta le urla acute dei pochi fan forano i timpani, alcuni sono forse delusi di scoprirlo così basso. Conor Oberst corre su e giù sfiorando le mani dei fan come farebbe un calciatore dopo aver segnato il gol decisivo alla finale dei mondiali, complicando un bel po’ la vita ad uno degli omoni della security che deve stargli dietro. Poi si volta verso il palco, lancia un’occhiata all’omone della security che gli fa scaletta con le mani permettendogli di salire. Quindi si rivolge al pubblico e dice “I love you all”. Esausto, sputa sotto il palco a pochi centimetri dalla transenna e dal pubblico.
Conor Oberst è un ragazzo poco educato. Ma neanche davvero maleducato, purtroppo. Conor Oberst è un cafone con un po' di talento e tanta spocchia da Poeta del Nostro Tempo. Piace ai fanatici della musica indie che si lasciano sedurre da musichette orecchiabili e un’accozzaglia di parole generiche e furbette a cui è fin troppo facile identificarsi.
Ma a noi non ci freghi, caro Conor.