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mercoledì 2 dicembre 2015

La laurea a 28 anni

Grande irritazione hanno destato la settimana scorsa le parole del ministro Poletti. Prendere una laurea a 28 anni non serve a nulla, anche se con il massimo dei voti, ci dice lui.  Per l'ex viceministro Michel Martone, invece, chi a 28 anni la laurea non ce l'ha, è semplicemente uno sfigato.  Un'età davvero infelice quella dei 28, insomma, almeno in Italia, il paese dove i giovani sono troppo choosy, per citare un altro fenomeno della politica recente.
Ma insomma, come si permettono questi politici?, si chiedono tutti. E' facile per loro parlare così,  hanno sempre avuto la strada spianata e non certo per merito! Non dovrebbero proprio parlare loro! E poveri giovani!
Ebbene, sarò impopolare, ma credo che tali politici tutto sommato abbiamo ragione. Certo, può infastidire che a disquisire sull'età della laurea sia un individuo che la laurea neanche ce l'ha. Ma quel che dicono, estrapolato da facili strumentalismi, riflette una realtà scomoda ma abbastanza nitida per chi sa mettere da parte la lente deformante del vittimismo.
Chi si offende per le esternazioni di Poletti, Martone e Fornero, è in un certo senso figlio della stessa mentalità che tali problemi li ha generati. La mentalità della laurea a tutti i costi, inculcata alla maggiorparte dei giovincelli italiani non certo per amore di cultura, ma per ricerca di (stupido) prestigio sociale. E per il miraggio di un buon lavoro, anche se ormai nessuno ci crede piu'. Il messaggio che arriva ai diciottenni da scuola e famiglia, è che se non hai la laurea sei un perdente, un individuo di serie B. Bisogna iscriversi a tutti i costi all'università e diventare Dottori. Anche se non si è affatto portati. E così le facoltà di medicina sono piene di studenti terrorizzati dalla vista di una goccia di sangue, e le facoltà di ingegneria di ragazzi che non hanno mai avuto le idee chiare sulle equazioni di primo grado.
Laurearsi a 28 anni, quando si e' matricole a 19, vuol dire essere stati fuori corso per almeno tre o quattro. Diciamolo senza giri di parole: se si resta fuori corso tutto quel tempo, vuol dire che non si è tagliati per quella laurea. Per mancanza di interesse o di attitudini specifiche. O forse non si è portati per lo studio in generale. E qui qualcuno dirà: e gli studenti lavoratori? E' ovvio che restano fuori corso, devono lavorare per mantenersi e studiare, è durissima! D'accordo, tanto di cappello ai veri studenti lavoratori (io non ero uno di loro e li ammiro molto), ma in quanti casi quello di dover "studiare e lavorare" è soprattutto un alibi per giustificare una troppo lunga permanenza universitaria? Ho conosciuto dozzine di ragazzi fuori corso che si vantavano di "studiare e lavorare" , ma il loro lavoro era magari fare servizio in un agriturismo un sabato sera al mese.  Gli studenti americani lavorano e studiano sul serio, quotidianamente, e riescono a finire gli studi nel tempo previsto, altrimenti sono espulsi o diventa semplicemente troppo costoso proseguire.
Personalmente sarei anch'io per un aumento significativo delle tasse per gli studenti fuori corso, almeno per quelli senza una valida motivazione per il loro ritardo. Ciò funzionerebbe come un disincentivo a iscriversi a certe facoltà per cui non si è tagliati. Si avrebbero meno laureati (tanto la domanda non è certo esorbitante, ma questo è un altro discorso...) però  più giovani e bravi, e si eviterebbe che trentacinquenni neolaureati rubino il posto a più capaci colleghi venticinquenni, solo perchè hanno lo stesso "pezzo di carta" e migliori conoscenze. Si restituirebbe valore a titoli inflazionati. Ma soprattutto, crollerebbe il mito dell'università come parcheggio per i nullafacenti; il prezzo del parchimetro è troppo  alto, accomodarsi fuori, grazie.
Il lamento generalizzato per le condizioni infelici su cui versano tantissimi giovani e' in molti casi una scappatoia per chi non ha mai mosso un dito in vita sua e si adagia comodamente nella parte della vittima di un sistema iniquo. Ignorando che tale iniquita' deriva proprio da atteggiamenti cosi'. Di chi si iscrive all'universita' per il "pezzo di carta" e ci resta dieci anni o piu', magari lamentandosi dei professori che "ce l'hanno con lui", e raggiunto finalmente il traguardo e scoprendosi disoccupato, si lamenta del sistema che ha contruibuito ad ingolfare.
L'università non è per tutti, insomma, bisogna meritarsela. E sudarsela. Uno studente di 28 anni, è uno studente vecchio che nella vita avrebbe dovuto fare altro.
Ciò non vuol dire che chi non è tagliato per l'università sia uno stupido o un individuo di intelligenza inferiore. Basti pensare ai tanti personaggi brillanti del nostro tempo sprovvisti di laurea (non mi riferisco certo al ministro Poletti). Semplicemente, ha una forma mentis differente. Personalmente, poi, credo sia più ammirevole un ragazzo che a diciannove anni decide di aprire una sua attività e portarla avanti con energia ed entusiasmo, di un altro che passa le giornate davanti ai libri imparandone a memoria il contenuto e dimenticandosene due minuti dopo l'esame.
Ogni giovane dovrebbe liberarsi della zavorra di una mentalità sbagliata prima di fare le scelte sul suo futuro, con la consapevolezza che non può permettersi il lusso di essere pigro. Se così sarà, non sarà mai uno sfigato.

venerdì 20 novembre 2015

La ragazza con il taccuino



La ragazza è seduta sulla panchina della fermata di fronte alla tua, con il taccuino nero e la penna in mano. Indossa una maglia bianca di cotone leggero dal collo ampio che le lascia scoperta la spallina del reggiseno, jeans chiari con leggere scuciture ad altezza delle ginocchia, un paio di converse slacciate. Ha un viso leggermente ovale, un naso sottile alla francese, occhi nocciola acquosi, labbra rosa carnose e mediterranee. I capelli castani lunghi vagamente mossi le ricano morbidi sulle spalle, ogni tanto li scompiglia un po' con la mano destra, o finge di punirli afferrandoli con il pugno stretto come volesse fermarli in una coda. E' dolce e ribelle. Ed è bella, di quella bellezza sincera che sfugge alle mode artefatte e sterili dei nostri tempi. Al suo fianco c'è un vecchio zainetto Invicta, giallo scolorito, fuori produzione da decenni, pieno di scritte a mano ormai cancellate. Forse appartiene al suo fratello maggiore, pensi tu, visto che lei non avrà più di venti, o venticinque anni.
Sono settimane che ti rechi a quella fermata, solo per osservarla.
Come ogni giorno, lei apre nervosa il suo taccuino e ne sfoglia le pagine con le dita lunghe e ossute, impreziosite da uno smalto blu notte sulle unghia. Conosci bene quel taccuino, è un Moleskine. Un taccuino storico. Un taccuino di classe. Usato da personaggi come Oscar Wilde, Ernest Hemingway o Bruce Chatwin per scrivere durante i loro viaggi e nelle soste ai caffè. La ragazza trova la pagina desiderata, muove con forza le dita sulla rilegatura per assicurarsi che rimanga aperta, e schiaccia con il pollice il pulsante della penna. Ti sembra quasi di sentirne il click.
Gli occhi. Sai che adesso i suoi occhi volteggeranno ansiosi per qualche secondo sugli alberi accanto alla panchina, sulle auto in corsa, sui piccioni a caccia di briciole sul marciapiede, prima di posarsi di nuovo lì, sulla pagina giallognola a righe strette. Inizia a buttar giù qualche parola, sembra convinta, sembra quasi che un flusso inarrestabile le scorra dall'avambraccio  alle dita, fino all'impugnatura della penna, a morso. Eppure si ferma presto. Tira su una gamba sulla panchina, la scucitura dei jeans si fa più ampia. Le vedi una bella porzione nuda del ginocchio, e hai un guizzo di desiderio. Si stringe nelle spalle, sembra aver freddo, ma si distende in un attimo, sospira.  Ricomincia a scrivere, si interrompe, strizza gli occhi, guarda davanti a sè. Pensi che forse ti ha visto, arrossisci timido, sei tentato di abbassare lo sguardo. Vedi i suoi occhi ricominciare la danza sul mondo che ha davanti, cerchi di seguirne la traiettoria, sta disegnando un otto tra il cielo, gli alberi e il marciapiede, o forse non è un otto, forse è il simbolo dell'infinito, come infinito è il fascino del suo sguardo vitale ed etereo, delle sue braccia sottili, di quelle labbra che non vorresti far altro che baciare per il resto dei tuoi giorni.
Pensi alla sua quotidianità fatta di lezioni universitarie, di ragazzi che non la meritano, che non la sanno ascoltare, che forse dovrebbero restare  solo amici, ma a quelli di restare solo amici proprio non va. Pensi alle sue amiche, forse finte amiche, gelose, banali, pettegole. Pensi alla sua solitudine, che è la solitudine delle persone speciali, il destino di chi è troppo prezioso per essere compreso dalla superficialità dei tanti. La vedi chiusa nella sua stanza, rannicchiata sotto l'abat-jour a leggere Proust o ad ascoltare Elliot Smith o a vedere film di Fritz Lang o Jean Vigo sul portatile. Con il taccuino alla sua destra, compagno fedele. Immagini le sue lacrime, a volte, e sei spinto dall'impulso di attraversare la strada ed abbracciarla.
Eccola che corruga le sopracciglia, e poi, a sorpresa, sorride, anche se per un prezioso istante soltanto. E' la prima volta che la vedi sorridere, ne sei ammaliato. Immediatamente il sorriso si trasforma in una smorfia ironica, si morde il labbro e torna a scrivere. Stavolta non si interrompe, scrive di getto, riempie la pagina in pochi secondi e passa alla successiva. A volte un'ombra sottile le oscura il volto e improvvisamente sembra più vecchia, con borse non più impercettibili agli occhi. E' allo stesso tempo adulta e bambina, ha la fragilità della fanciulla e la tenacia di una donna. E' al di là della storia, eterna, è antica e casual,  è matrona ottocentesca e ragazza del suo tempo.
E' una scrittrice, ne sei certo. Forse una poetessa. Al di là del suo sguardo inquieto ci sono luoghi che noi, assuefatti ai detriti del mondo che ci resta, non saremo mai in grado di scorgere. Lei li vede, invece, vede i luoghi dove danzano le anime, liberate dalle incombenze della vita, che giocano e si fondono e si accendono come fuochi fatui, e come loro svaniscono. Lì dove noi vediamo panchine, automobili, piccioni e marciapiedi, lei vede forse luoghi di luce e di penombra, di colori tenui, voci sussurrate some sospiri, baci bagnati e svaniti, solletico e carezze.  Forse parla anche di sè, persa in quel mondo seducente e lontano.
Chissà cosa daresti per leggere quello che sta scrivendo. Non accontentarti delle vibrazioni che sembrano scaturire dal suo collo, dai suoi capelli, dai suoi occhi insolenti e vispi, ma gettarti nell'oceano delle sue parole, affogare e rinascerne inebriato.

E un giorno, finalmente, qualcosa succede. L'autobus arriva puntuale, la ragazza afferra il vecchio zaino e sale. L'autobus si allontana rapido e la panchina di fronte rimane vuota. O non proprio vuota. Il Moleskine! La ragazza ha dimenticato il suo taccuino. Il cuore inizia a batterti forte come quella volta che lei ti aveva rivolto lo sguardo e forse anche l'abbozzo di un sorriso. Sei nervoso, ma sai cosa fare. Ti alzi, ti avvicini alla panchina di fronte, afferri il Moleskine e ti allontani. Glielo restituirai domani.
Arrivato a casa, sai bene che non dovresti sbirciare. Non sta bene, non sono affari tuoi. Sai altrettanto bene che ciò è impossibile, che non ce la farai mai. Tiri un respiro profondo. Per un attimo ti sembra di sentire il suo profumo, quel profumo che finora hai solo immaginato e domani avrai la possibilità di sentire davvero. Hai l'ansia di un nuotatore principiante che sta per tuffarsi nell'oceano. L'oceano delle parole della ragazza della fermata di fronte. La ragazza che da settimane riempie i tuoi pensieri. Il tesoro più affascinante, la creatura più seducente che tu abbia mai avuto la fortuna di incontrare.
Sposti l'elastico del taccuino, e lo apri in una pagina centrale. Metti subito a fuoco una scrittura incerta e tremolante, decisamente infantile. E capisci subito che l'oceano, l'oceano delle parole della ragazza della fermata, è piuttosto un fiumiciattolo. O un rigagnolo di fogna. Con tanto di olezzo.
Puttana la troia de la...
Ecco l'incipit della pagina. Sfogli incredulo l'intero taccuino. E' pieno di bestemmie. Tante bestemmie. Solo bestemmie. Su Gesù, Giuseppe, Maria e un gran nugolo di santi. Piuttosto ripetitive a dire il vero, neanche blasfemamente creative. E con tanti errori di grammatica. Lo chiudi, ti allontani, pensi che si tratti di un incubo e vuoi svegliarti. Il classico pizzicotto non funziona, riapri il taccuino, le bestemmie sono ancora lì. Fastidiose come le zanzare nelle serate estive. Ridi, piangi, ti senti uno scemo.

Non sei più teso il giorno dopo, quando la vedi di nuovo alla fermata e le porgi sicuro il Moleskine.
Hai dimenticato questo ieri, le dici.
Lei fa una smorfia, una smorfia diversa da quella che hai visto il giorno prima. O forse, chissà, esattamente la stessa. Una smorfia puerile ed esagerata, come quella di una bimba a cui regalano la Barbie sbagliata.
Perché cazzo me l'hai riportato, l'ho lasciato apposta, dice.
E' la prima volta che senti la sua voce, una voce nasale e cantilenante, con le vocali esageratamente aperte nella cadenza del centro sud.
Devo ammettere che ho sbirciato dentro, dici tu.
Lei alza le spalle.
Cazzo me ne frega a me..., dice.
Volevo solo chiederti perchè hai riempito quel taccuino di bestemmie, dici tu.
Lei ripete la smorfia, e sbuffa anche.
E' che sto incazzata perchè uno stronzo mi ha fatto incazzare... ma tu perchè non ti fai cazzi tuoi? dice lei.
Arriva l'autobus, lei scatta via e sale. Ti lascia lì solo con il taccuino in mano. Dopo pochi secondi lo getti nel cestino della spazzatura.
Mentre osservi l'autobus allontanarsi, hai ancora in testa la frase della ragazza della fermata.
E' che sto incazzata perchè uno stronzo mi ha fatto incazzare...
Spiegazione tautologicamente impeccabile. Decisamente esaustiva.
Pensi di nuovo alle settimane trascorse a fantasticare su di lei. E pensi a come sia banale la realtà che a volte ci ostiniamo a voler impreziosire. Ma che spesso, o sempre, non se lo merita.


venerdì 13 novembre 2015

Una riflessione su Star Wars

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Il fenomeno Star Wars è per me da sempre un enorme mistero.
Da bambino adoravo (e adoro tutt'ora) i classici coevi, la saga di Indiana Jones, Ritorno al futuro, o film come E.T. l'extraterrestre, I Goonies, Gremlins. Ma Star Wars (o Guerre Stellari, come si chiamava un tempo...) no, proprio no. In un passato più recente mi è capitato di rivedere i film della vecchia trilogia (quelli della nuova non li ho mai visti tutti, e per me sono anche peggio), e la mia opinione non è affatto cambiata. Anzi, almeno da bambino mi incuriosiva un po' il look di certi mostriciattoli, Jabba the Hutt in primis. Adesso non c'è proprio nulla che possa farmi evitare un sicuro sbadiglio.
La saga di Star Wars è piatta e banale.  Tutti i personaggi sono figurine bidimensionali tratteggiati senza la minima ironia, quell'ironia che invece è il punto di forza dei film sopra citati. Impossibile provare alcuna empatia per Luke Skywalker o la principessa Leia, e il cattivo Darth Vader non inquieta neanche un po'. Piuttosto, è involontariamente comico. Non c'è respiro nel racconto, e il pathos è assente. La regia di George Lucas (e degli "allievi" che hanno firmato la vecchia trilogia) è da telefilm ad alto costo, senza un'inquadratura seducente che sia una, e soprattutto con quelle orribili dissolvenze a tendina tra una location e l'altra. Il crescendo narrativo è farraginoso, pieno di dialoghi verbosi e inutili. Le disquisizioni junghiane sulla "forza" fanno pena. Le scene d'azione sono interminabili, strapiene di raggi laser, luci lucette ed esplosioni, puntano a stupire ma non hanno un briciolo di suspence. L'unica cosa che forse funziona in Star Wars, è l'alchimia tra l'azione nello spazio e la colonna sonora di John Williams.
Basta questo a giustificare il più grande culto cinematografico planetario della Storia? O forse ho visto una saga diversa da quella degli aficionados?
E' curioso il paragone con la pur diversissima saga di Indiana Jones, perchè anch'essa partorita dalla mente di George Lucas, che però - Deo gratias! - ne ha affidato la regia a Steven Spielberg. E perchè l'interprete Harrison Ford è anche un personaggio chiave di Star Wars, il mercenario Han Solo, anche lui ennesima figurina 2D di quello show raffazzonato e soporifero. Con Indiana Jones, Spielberg e Ford hanno invece creato un personaggio vero, affascinante, tratteggiato in maniera unica. Indiana Jones è allo stesso tempo un intellettuale e un uomo d'azione, uno sciupafemmine e un imbranato. Ha un intuito formidabile ma fa anche cazzate allucinanti, anche se poi riesce sempre a cavarsela. I film di Indiana Jones sono allo stesso tempo avventura, fantasy, azione e commedia con un equilibrio prodigioso. Ci si immedesima in lui, lo si invidia un po', si sognano le stesse avventure (e le stesse donne, alcune di loro almeno). Ogni sequenza d'azione nella saga di Indiana Jones è adrenalinica e al cardiopalma. E nulla è invecchiato dopo trent'anni.
Star Wars è nato vecchio, invece, perso nella sua galassia lontana lontana con la solita scontata lotta tra Bene e Male, i suoi inutili mostri, robottini e cavalieri jedi. Non capisco proprio come ci si faccia ad appassionare a queste fanfaronate spaziali, come si raggiunga un minimo di immedesimazione con le vicende.
E' da oltre un anno che la Disney (che ha acquisito la Lucas Film) centellina con sapienza informazioni e dettagli sul nuovo attesissimo episodio della saga, con aspettative d'incassi -quelle sì- davvero stellari. E a poco più di un mese dall'uscita siamo praticamente bombardati ogni giorno da nuovi trailer, spot e featurette varie.
Il 16 dicembre prossimo, i nerd di tutto il mondo avranno quindi il loro dirompente orgasmo prenatalizio. O forse sarà piuttosto un coito interrotto. Perchè quando le aspettative sono spasmodiche, il rischio delusione è altissimo. Per quanto mi riguarda, apprezzo J. J. Abrams, il regista che ha preso le redini di questo colossale progetto. E andrò anch'io a vedere Star Wars - The force awakens, ma con una prospettiva diametralmente opposta. Nessun mito di cui essere all'altezza. Piuttosto, la speranza di un buon film che faccia dimenticare le ciofeche del passato.

martedì 3 novembre 2015

Ritorno al futuro, oggi


Impossibile, almeno per chi è nato negli anni '80, non adorare la saga di Ritorno al futuro. Il fascino innato dei paradossi temporali, l'alchimia della strana coppia Marty Mc Fly e "Doc" Emmeth Brown, la mitica DeLorean, la colonna sonora di Alan Silvestri, le continue sorprese, i tormentoni cult, e soprattutto quell'atmosfera inimitabile, allo stesso tempo smaliziata e naif, tipica del cinema di Zemeckis. 
Qualche giorno fa -il 21 ottobre per l'esattezza- si è celebrato in tutto il mondo il Back to the future day; è finalmente arrivato  il giorno in cui Marty e Doc arrivano nel futuro nel secondo episodio della saga. E si è discusso molto nei media e nei social network sulle somiglianze tra il futuro ipotizzato da Zemeckis trent'anni fa, e quello reale. Alcune ipotesi azzeccate (il cinema 3D), altre quasi  (le scarpe con chiusura automatica, l'hoverboard, skate volante), altre ancora assolutamente fuori target (le auto volanti, che forse non ci saranno neanche nel 2045).
Ci sembra interessante, piuttosto, soffermarci su come sia cambiato il cinema mainstream americano dal 1985 a oggi. Quello di Ritorno al futuro era un cinema dove la storia e l'intreccio stupivano assai più degli effetti visivi. Era un cinema dal ritmo perfetto, fatto di sceneggiature che rasentano la perfezione assoluta, senza una scena inutile. Era un cinema capace di creare personaggi indimenticabili: Micheal J. Fox è rimasto nel cuore di tanti ex bambini e adolescenti perchè era in grado di rappresentare con ironia le debolezze e la spavalderia di ogni sedicenne, mentre Christopher Lloyd  è l'eccentrico pazzoide che tutti avremmo voluto come amico.
Cosa sarebbe stata, la saga di Ritorno al futuro, se non fosse esistita trent'anni fa ma fosse girata oggi? Pensiamoci un po'.
Ogni episodio durerebbe almeno tre ore. Sarebbe appesantito da una caterva di spiegazioni pseudo-scientifiche sul fenomeno del viaggio nel tempo (anche se comunque a stringere non sarebbero state meno cazzata della macchina alimentata a plutonio e flusso canalizzatore...). Marty Mc Fly sarebbe un insopportabile teen star à la Zac Efron con acconciatura perfetta e zero-ironia, Doc un professore saccente e  borioso. Tutto sarebbe inutilmente enorme e stracarico di azione ed effetti visivi, ci sarebbero gigantesche esplosioni, inseguimenti forsennati e interminabili nello spazio-tempo, una serie spossante di finali a catena. Tutto secondo la logica dell'accumulo piuttosto che della schiettezza del racconto. Sicuramente in 3D, a saziare il pubblico playstationizzato che forse ha dimenticato cosa sia un film vero.
Eppure, il fulmine sul campanile di Hill Valley e la striscia di fuoco lasciata sull'asfalto dalla DeLorean sorprendono e restano nella memoria assai più di qualsiasi scontro catastrofico tra supereroi di un odierno blockbuster.
Ed è per questo che a distanza di trent'anni celebriamo ancora Ritorno al futuro. Mentre Avatar, Twilight, Iron Man e compagnia bella ce li siamo già dimenticati.


giovedì 8 ottobre 2015

Riflessione generale sul Movimento Cinque Stelle

La politica per slogan e il gioco al ribasso. Ecco le armi di distrazione di massa del Movimento Cinque stelle. Noi ci tagliamo gli stipendi e finanziamo la piccola e media impresa, i politici di professione pensano solo alla poltrona, la politica regala miliardi alle banche e poi dicono che non ci sono i soldi per il reddito di cittadinanza, eccetera eccetera.
Li criticano per il comportamento poco ortodosso in parlamento, per le fandonie del loro leader, per la logica autoritaria delle espulsioni? Però il PD fa e dice peggio, dicono loro.
Fanno tutti schifo, non possiamo fare peggio, insomma.
Tutto ciò funziona e accresce i consensi, nell'epoca dell'imbecillimento di massa, e Casaleggio e Grillo lo sanno bene.
Altro che "movimento dal basso", non siamo in Spagna, il Movimento Cinque Stelle è lontano anni luce da Podemos. Il Movimento Cinque Stelle nasce dal preciso disegno imprenditoriale di un manager milionario che sa come sfruttare il malcontento generale e le favole moderne.
La favola della rete, in particolare, che illude ogni imbecille di poter aver voce ed essere ascoltato, di incidere nella realtà di oggi. Peccato che la sua voce cristallina e preziosa finisca poi nel gorgo annichilente dei server privati della Casaleggio Associati, probabilmente il luogo più misterioso dell'intero universo insieme alla galassia ellittica del Centauro. E che sia la Casaleggio Associati a decidere quali voci vadano amplificate e quali relegate all'oblio più profondo.
Il Movimento Cinque Stelle è piuttosto l'ultima frontiera dei reality show. Dove non si vince una carriera nella tv o nel cinema, ma potenzialmente il governo di un paese. Una banda di perfetti sconosciuti senza merito alcuno opportunamente selezionati per entrare nei salotti della politica; il pubblico segue le loro gesta, si appassiona al più bello o al più grezzo e lo vota come premier (anche se poi  in realtà alla fine decide tutto il gran capoccia Gianroberto).
La favola, ancora, che persone comuni possano dal nulla aspirare ai vertici della politica nazionale. Nessuno che si chieda, però, se tali persone comuni abbiano anche qualche neurone in testa. Ma conta davvero, poi, avere talento ed esperienza?  No di certo, vale la convinzione candida che basti essere onesto per amministrare un paese complesso come l'Italia. D'altronde, si sa che il Candido di Voltaire avrebbe governato la Francia meglio di Luigi XIV. E che Forrest Gump avrebbe fatto le scarpe a Nixon, Clinton, e Obama messi insieme.
Basta saper recitare slogan, cercare l'applauso facile. Come fa Luigi Di Maio, un fenomeno del reality M5S, nonchè quasi sicuramente prossimo candidato premier. D'accordo, Di Maio è giovane, telegenico, bravo nel contraddittorio televisivo e nel ripetere efficacemente la lezioncina di Grillo e Casaleggio. Ma cosa ha fatto quest'uomo nella vita? Ben poco, a dire vero, basta dare un'occhiata a Wikipedia. Dopo il diploma si è iscritto a ingegneria, poi ha mollato e si è iscritto a giurisprudenza, dove attualmente è studente fuori corso da diversi anni. Qualche lavoro saltuario come webmaster. Fine. E questa persona avrebbe l'esperienza necessaria per governare uno dei paesi più importanti del mondo?
Analogo discorso si potrebbe fare per Alessandro Di Battista (che se la fa sotto all'idea di candidarsi sindaco a Roma), Roberta Lombardo, Paola Taverna, Carlo Sibilia e tanti altri. Personaggi venuti dal nulla e senza alcun talento se non una certa efficacia da televendita.
Forse ci vorranno anni per capire se questa specie di minchioneria 2.0 sia una sorta di temporaneo rigurgito isterico al ventennio berlusconiano, o se sia un fenomeno più complesso e radicale, legato all'impoverimento culturale, alla finta democratizzazione dei nuovi media, al disorientamento da sovrainformazione. Forse è tempo di spegnere l'iPad. E rileggere Orwell.