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giovedì 23 giugno 2011

Non prendiamoci sul serio

La Notte Le Vongole.
Il Giorno Le Cozze.
La Sera Gli Scampi.

domenica 19 giugno 2011

Unknown


Un ricercatore americano dall’inapputabile aplomb arriva a Berlino con la moglie per un’importante conferenza, raggiunge un lussuoso hotel, si accorge di aver dimenticato una delle sue valigie in aeroporto, si affretta a chiamare un taxi che lo riporti al suo terminal di arrivo, ma durante il tragitto ha un terribile incidente. Si risveglia in ospedale dopo quattro giorni, dopo un’affrettata degenza si reca nel suo hotel ma lì sua moglie non lo riconosce. E afferma di essere sposata con l’uomo che ora le è al fianco, e ha il suo stesso nome. Lo scienziato non ha alcun documento con sè, e nessuno sembra riconoscerlo. E’ solo l’inizio di una terribile odissea in cui sarà costretto a fare i conti con se stesso,  con ciò che crede di essere e ciò che invece è davvero. Un gigantesco complotto contro di lui? O forse è semplicemente pazzo? 
C’è un po’ dell’Hitchcock di Lady Vanishes, ma anche del Polanski di Frantic nell’avventura di questo disorientato scienziato d’oltreoceano in una capitale tedesca fredda e inaccogliente dove ben presto si renderà conto di rischiare seriamente di essere ucciso per motivi a lui ancora (o improvvisamente?) ignoti, e che coinvolge nei suoi guai un’ignara tassista bosniaca. C’è il tema sempre affascinante della perdita dell’identità, che è quella che ci diamo noi ma anche quella ci dànno gli altri e allora non si sa più chi ha ragione se le due versioni non coincidono. C’è il gusto della sorpresa, che in questo caso ribalta con intelligenza il cliché dell’uomo ordinario coinvolto in circostanze straordinarie. C’è la faccia da cane bastonato di Liam Neeson, perfetto nel ruolo di questo sfortunato scienziato dalla vita assai meno prevedibile di quel che crediamo all’inizio. C’è un grande Bruno Ganz nel ruolo di un ex ufficiale della STASI, che ci ricorda come Berlino sia la città simbolo di certo immaginario del cinema di spionaggio.  
Ma ci sono anche tante scazzottate e sgozzamenti,  inseguimenti rocamboleschi con auto che si scontrano schiantano capovolgono esplodono insomma quanto di più distruttivo potrebbe venire dall’immaginario di uno stuntman navigato, c’è la solita bomba che deve esplodere con tanto di countdown digitale, c’è la Porta di Brandeburgo che appare tre o quattro volte (a ricordare: guarda che siamo a Berlino, eh?), i soliti scialbi personaggi collaterali per i quali pensi “questo muore subito” e non sbagli. 
E’ un peccato, perché tutta questa paccottiglia facilotta appesantisce il film. E lo rende un po’ banale, quando invece aveva tutte le carte per non esserlo. Pazienza. 

lunedì 13 giugno 2011

Storia d'amore coi germi




Spulciando tra vecchi, vecchissimi file word, è uscita fuori la strampalata storiella che riportiamo sotto, scritta di getto nel lontano 2004.  Il titolo è quello che vedete sopra.

Sulla tovaglia non ancora sparecchiata un’enorme busta di patatine al formaggio. 
Marco decide che per nessuna ragione al mondo l’aprirebbe.
Marco apre la busta di patatine, ne afferra una manata e se la porta in bocca.
Come le pale di un tritarifiuti i suoi denti massacrano quelle sfoglie dorate trasformandole in pochi istanti in una pappa giallastra e salata. 
La bocca sbatte, la masticata è meccanica e rumorosa. Rabbia, sonno, rancore, noia, frustrazione. Nessun appetito. 
Ha lo stomaco rigirato come una frittata per la solita ricetta salcicce e dessert con panna cui viene sottoposto da zia Palmira a cadenza settimanale. E ha deciso di farsi del male.
Mentre si lascia cadere esausto con la bocca piena sul divano, si accorge che dagli occhi scivola più di una lacrima. Cazzo, di nuovo il raffreddore estivo, pensa.
I raffreddori estivi sono i peggiori, ti attanagliano la faccia e i sensi in una morsa; e non c’è palliativo immediato come potrebbe essere il calduccio del fuoco d’inverno.
Silvia è una stronza, lo ha lasciato per Richie Cunningham. E Marco è solo a casa di zia Palmira, gettato sul divano come uno straccio usato sul pavimento, bocca piena e mani sporche d’olio e faccia gonfia e lacrime da raffreddore. 
Fa proprio schifo a guardarlo, ma non ditelo, c’è il rischio che ritrovi fiducia in sé stesso. Silvia glielo diceva sempre, fai schifo Marco, sei un vero cesso, con quella pappagogia e quei capelli unti e quei denti storti. Con la tua voce che sembra uscire da un pozzo di catarro e quello sguardo da triglia in catalessi. Ma due secondi dopo lo baciava sulla fronte perennemente sudata e gli diceva che era fortunata ad aver trovato un uomo meravigliosamente disgustoso come lui. Marco ne era felice, finalmente una donna che lo apprezza per ciò che è davvero, senza essere costretto a pulirsi la faccia e radersi e farsi la doccia per avventurarsi in quella giungla di false promesse che chiamano mondo civile. 

Lui e Silvia si erano conosciuti al Corridore, vale a dire nel più romantico dei luoghi. 
Il Corridore è il ristorante preferito di Marco, c’è il proprietario che va in giro in canottiera con i tovaglioli sotto l’ascella sudata, e ti serve la minestra con il pollice infilato dentro a insaporire l’intruglio. Quando è fuori di galera, c’è il Guercio che suona la fisarmonica per ore filate senza pausa.
Marco era a cena con i soliti compagni di sbronze. Gianni gli aveva versato un bicchiere di rosso, lui l’aveva tracannato in un sorso; dopodiché aveva ruttato soddisfatto.
Era un rutto che sembrava uscire dalle viscere della terra, una rapsodia a molteplice cambio di tonalità. Un vero assolo da maestro.
I suoi amici si sbellicarono dalle risate come se non fossero abituati a quelle performance, che Marco chiamava creazioni. Persino il Guercio smise di suonare per qualche secondo.
“C’è una che ti guarda”, gli disse Tonino sgomitando, e indicò un tavolo alla sua destra. Marco si girò e i suoi occhi incontrarono quelli di Silvia, che cenava assieme ad altre ragazze. Le amiche sembravano non essersi accorte dello spettacolo di Marco, e continuavano il loro chiacchericcio con la schiena curva sul tavolo. Silvia, invece, lo osservava con quella che gli parve infinita sorpresa e ammirazione. Da lì a conoscersi era un soffio, e Marco lo sapeva. Dimenticando le inibizioni che spesso aveva con le donne – quelle non giuste-   si alzò dal tavolo.
“Perché non vieni a bere qualcosa qui da noi?”
Cazzo, pensò, sto sbagliando tutto, sono troppo precipitoso, adesso mi dirà “no, grazie” e nei suoi occhi leggerò invece “coglione, non così presto, avresti potuto dirmi qualcosa a fine serata ma in questo modo ti sei giocato la tua grande occasione…”
“Come no, magari!”
Ed era già in piedi vicino Marco. Sergio schioccò le dita e il proprietario sapeva già che doveva portare una sedia al loro tavolo. Quando Silvia si sedette Sergio le aveva già riempito un bicchiere fino all’orlo. La ragazza lo afferrò di scatto versando alcune gocce sulla tovaglia, che era un vero collage di macchie di sugo e unto, con annesse montagnole di cibo rinsecchito. Si portò una mano alla bocca.
“Cavolo…versare il vino è peccato…”
Non finì di dirlo che era lì con la faccia sulla tovaglia, che leccava come se avesse davanti la parete caramellata di Willy Wonka.
Se fino a quel momento l’interesse di Marco era stato solo da semplice approccio per una bella ragazza, con quel gesto qualcosa era successo. Dura da ammettere, ma leccare quella tovaglia che non conosceva lavaggio dall’anteguerra avrebbe fatto schifo persino a lui. Marco era scosso, incredibile ma vero, era innamorato. 
L’ultima volta che si era innamorato aveva quattro anni, quando all’asilo aveva visto una bimba sollevarsi la gonna, sfilarsi le mutandine e fare pipì sopra ai giocattoli, con infinita costernazione delle maestre e ammirazione degli altri mocciosi.
Da allora erano trascorsi più di trent’anni, e mentre vedeva Silvia leccare la tovaglia e tracannare tre bicchieri di fila e ruttare soddisfatta, quell’episodio che aveva tanto segnato la sua vita tornò a far capolino tra i suoi pensieri con assoluta nitidità. E non era un caso. Silvia era la donna della sua vita, non doveva farsela sfuggire.
Dopo la cena, si offrì di riaccompagnarla a casa e lei accettò con l’entusiasmo di chi aspetta quella proposta dal primo istante. Durante il tragitto sulla sua Citroen gli aveva parlato di lei, studiava all’università, era prossima alla laurea in antropologia, era single. Marco non aveva mai messo piede in un’università, e soprattutto non aveva mai sentito pronunciare la parola antropologia; questa ragazza è troppo sofisticata per me, pensò con leggero sconforto, mi sono illuso.  

Il giorno dopo si misero insieme. E per Marco iniziò un periodo di costante ansia da fibrillazione; in officina non azzeccava più una pinza, svitava i bulloni invece di avvitarli, montava marmitte al contrario. Arrivò persino a riempire una batteria di benzina invece che di acqua distillata. Era ossessionato dal tempo. Contava i minuti e poi anche i secondi che lo separavano dal fatidico orario di chiusura, quando finalmente poteva fuggire a casa di Silvia. 
La sua ragazza – era orgoglioso di poterla definire così- divideva un appartamento in affitto con altre due studentesse più giovani, appena ventenni. Ma dopo un mese che loro due stavano insieme le compagne di casa la abbandonarono. Persino Marco riuscì a capire che quell’omone di quasi quarant’anni che ogni pomeriggio invadeva casa loro con la tuta sporca di grasso, e senza alcuna cortesia spalancava la credenza rubando scatole di biscotti e pacchi di pasta, aveva influito non poco nella loro scelta. Marco non si lasciò sfuggire l’occasione, e durante la merenda delle cinque le disse:
“Vieni a stare da me… tu dormi in camera mia e io nel divano in soggiorno.”
“E’ meglio di no…”
“Possiamo anche unire il mio letto e il divano e fare un letto matrimoniale…”
“Mi tenti, ma non posso…”
“Possiamo anche buttar via il divano e dormire insieme nel mio letto…” 
“Sarebbe davvero meraviglioso, ma sto scrivendo la tesi e ho bisogno di concentrazione, preferisco continuare a vivere da sola per un po’…”
E gli aveva infilato in bocca un peperoncino sott’olio ripieno di capperi per zittirlo con amore.
Aveva trovato un monolocale in centro, pazienza. 
Senza quelle scassaballe delle coinquiline che gli imponevano di pulirsi le scarpe nello zerbino prima di entrare, o di lavarsi le mani prima di contaminare qualsiasi oggetto della casa, di non tossire senza la mano davanti alla bocca, e una miriade di altre menàte, lui e la sua Silvia trascorsero il periodo più bello della loro storia d’amore, tra gare di rutti, starnuti faccia a faccia e tovaglioli sporchi, litri di birra e di vomito, in un’orgia di microbi e di affetto. 
Indelebile nella sua memoria il loro anniversario di fidanzamento. Silvia aveva cotto due chili di spaghetti conditi a forza sette. Per la cronaca: 1) peperoni 2) cipolla 3) aglio 4) pomodoro 5) melanzane 6) zucchine 7) bietola. Aveva portato l’enorme vassoio fumante a tavola, e quando Marco era lì per impugnare la forchetta
“ALT! Oggi niente posate…si mangia con la bocca e basta.”
E lo aveva costretto a congiungere le mani dietro la schiena, e infilare la faccia nel vassoio per nutrirsi. Per un’ora si diedero capocciate in continuazione mentre la lingua di ognuno cercava di rubare all’altro il peperone più rosso, o la melanzana dall’aspetto più appetitoso. Più volte afferrarono coi denti lo stesso spaghetto da estremità opposte, e, tirando tirando, finivano per baciarsi, in una specie di imitazione pecoreccia di Lilli e il vagabondo.  
Dopo la pasta, affettarono uno sfilatino da mezzo chilo per la scarpetta. Alla fine Silvia le aveva sorriso come sapeva fare lei, e con gli occhi fissi sui residui di cibo che le incrostavano i denti luminosi come alghe su gemme salmastre, Marco si chiese per quale piano divino una ragazza mora e attraente e intellettuale si fosse innamorata di lui, ma poi smise di pensarci. 
Il bello dei miracoli è che accadono. Non c’è da chiedersi il perché.

E improvvisa com’era iniziata, quella storia finì. A dire il vero poteva pensarci prima che c’era qualcosa di strano in quell’ossessione della tesi. All’inizio parlava di tesi una volta tanto, poi sempre più di frequente, fino a diventare una sorta di terzo incomodo tra loro due. No, domani non posso che devo incontrare il professore per la tesi, no, più tardi no che devo scrivere l’introduzione della tesi, no, stasera no che devo cercare materiale per la tesi. Marco chiese a Filippo, il suo assistente in officina che era laureato in lettere moderne, cosa fosse questa cazzo di tesi. Il ragazzo gli spiegò che si tratta di scrivere un libro scopiazzando qua e là, e serve per laurearsi. 
Quel triste giorno che sembrava tanto lieto il sole era cocente e le rondini squittivano, e Marco aveva deciso di fare una sorpresa a Silvia.
“Filippo, puoi andare, chiudiamo adesso!”
“Ma sono le tre!”
“Non preoccuparti, piuttosto dimmi una cosa…”
Si era fatto spiegare dove fosse la facoltà di antropologia. Per l’occasione si era anche tolto l’inseparabile tuta di lavoro e aveva indossato una polo verde speranza lavata meno di due anni prima. Una volta giunto nel palazzo dell’università, si era aggirato per i corridoi disorientato come un pulcino nel deserto. Quello era il regno del silenzio, dove una placida coltre di noia era scesa su masse di pallidi ragazzi occhialuti con zaini alle spalle e sguardo basso. Tutti si muovevano lentamente, come per paura che un gesto avventato potesse scuotere quel sonnolento torpore.
Come fa Silvia a stare in questo posto, si era chiesto. L’aveva vista all’angolo di un corridoio, parlava a bassa voce con un ragazzo. Subito era corso da lei ostentando il suo sorriso a denti gialli. 
“Silvia!” 
La ragazza si era voltata sorpresa, e Marco aveva capito che il suo sgranare gli occhi non trasudava proprio gioia. Non c’era quel sorriso trascinante che le aveva visto in altre occasioni, stavolta era un semplice inarcamento delle labbra.
“Marco, che bella sorpresa…”
Sorpresa sì, ma non mi sembra che per te sia bella.
“Ti presento Giuseppe.”
E aveva dovuto stringere la mano ad una specie di clone occhialuto del Richie di Happy Days. Dopodiché era sceso di nuovo il silenzio. Imbarazzante. Lui, lei e Richie Cunningham con gli occhiali. 
“Marco, ti devo parlare…”
e strattonandogli un braccio lo aveva condotto lontano da Richie.
“Marco, ti sarai accorto che tra me e te le cose non sono più come un tempo…”
No, non me ne sono accorto, voleva dirgli, proprio ieri sera siamo stati al Corridore che ci ha fatto l’impepata di cozze al marsala e abbiamo riso e bevuto tanto. Ma non lo disse e rimase silenzioso e a bocca aperta come un baccalà. 
“Marco, vedi…”
Se inizia di nuovo una frase col mio nome le tiro un cazzotto sul muso. 
“Marco, io…”
Lo ha fatto ma non ce la faccio ad allungarle un pugno.
“Marco io sono innamorata di Giuseppe…”
E chi cazzo è Giuseppe? Con un cenno del viso indica Richie. Ah è lui, è vero. Peccato che quando gli ho stretto la mano un minuto fa non ci ho sputato sopra, pensò.
Ma l’ironia lo aveva abbandonato e si era accorto che le labbra gli tremavano e aveva un attacco di raffreddore. Il naso colava e se l'era asciugato con la manica della polo. 
“Silvia ma non può essere… tutte le belle cose che ci siamo detti, le cene, gli scherzi, le cozze…”
“E’ stato bello ma è finito, Marco.”
Stavolta il nome alla fine della frase. E non c’era traccia di compatimento nella sua voce, i suoi occhioni neri erano fermi e risoluti. 
Marco era uscito da quel palazzo maledetto a passo rapido, non sapeva neanche se era triste o incazzato o depresso. Ma gli occhi lacrimavano. Cazzo di raffreddore estivo, pensò.

Ed eccolo lì sdraiato sul divano a rimpinzarsi di patatine. Alla fine infila la testa nella  busta vuota di alluminio e sembra un membro del Ku Klux Klan. I residui di patatine gli cadono tra collo e capelli. Rientra zia Palmira. 
“Marcolino, ma che hai fatto? Perché ti sei messo quella busta in testa…”
Si alza di scatto e alza le braccia e urla come un aspirante westler.
“Marcolino ma che fai, mi fai paura così!”   
Si toglie la busta dal viso, non vuole che la vecchia muoia d’infarto. E’ troppo affezionato a sua zia. Starnutisce e si soffia il naso con la busta.
“Sei raffreddato, Marcolino?”
Maledetta Silvia, mi ha fatto venire il raffreddore estivo, pensa per l’ennesima volta.
Zia Palmira è la sua unica parente in vita. Appena uscito dall’università aveva ricevuto una sua telefonata. Gli ricordava che era martedì, e ogni martedì prepara le salsicce e vuole che il suo nipotino venga a pranzo da lei. Marco si era strafogato di salsicce, presto aveva perso il conto. E anche il dessert alla panna. E anche le patatine fritte. Presto vomiterà, lo sa. 
Dopo essersi dunque svuotato per via orale, tira lo sciacquone e sente un rutto. E’ un suono elettronico; si ricorda di aver registrato un suo rutto per metterlo come segnale di arrivo sms. Afferra il cellulare posato sul davanzale, e legge il nome Silvia. E adesso che vuole. Avverte una leggera tachicardia.  
Testo dell’SMS: Se vuoi una spiegazione vieni venerdì in aula magna della facoltà.
Si guarda allo specchio. Ha i capelli pieni di briciole che sembrano una brillantina da gay. Gli occhi lucidi. 
Vorrebbe telefonarle per avere una spiegazione senza dover attendere tre giorni, ma non lo fa. 

Venerdì indossa dunque la polo verde e si dirige con la Citroen in quel posto dimenticato da dio. Parcheggia in un vicolo laterale e si accorge che Richie Cunningham ha parcheggiato la sua Mazda a pochi metri da lui. Scende e vede che è incravattato come un venditore di enciclopedie. Stronzo bastardo, se prova a salutarmi lo strangolo con la sua stessa cravatta, pensa Marco. Ma Richie non lo saluta. 
Appena entrato nel palazzo si accorge che c’è un casino di gente. Donne in tailleur e vecchi in completo nero o grigio; quintali di fiori ovunque e agli starnuti da raffreddore si aggiungono quelli della sua allergia. Che posto di merda. 
Si fa indicare l’aula magna e scopre con sconforto che è anche la meta di quel manipolo di gente. C’è la coda fuori, tutta quella gente in una stanza l’aveva vista solo al Corridore quando dentro c’era la sagra della trippa. Aggrappandosi a fatica alle giacche dei più deboli riesce a scavalcarli e ad entrare.
“Venga adesso Mansani Silvia…”
Qualcuno la sta chiamando. Davanti a lui c’è un vecchio calvo abbastanza alto che gli copre la visuale. Si mette in punta di piedi per scorgere qualcosa al di là di quel mappamondo. Sente la voce di Silvia.
“Il mio lavoro di tesi è lo studio di un soggetto psicologicamente disadattato che non ha superato la fase anale freudiana e soffre di un complesso di Edipo nella forma cristallizzata di un rispetto eccessivo…”
e bla bla bla con quei paroloni incomprensibili. La ragazza è in piedi con il microfono in mano; davanti a lei un tavolo di vecchi che la ascoltano e annuiscono con aria interessata. La voce di Silvia è fredda e sicura, anonima. Non sembra proprio l’allegra lecca-tovaglie-sporche di cui si era innamorato. Alle spalle di Silvia c’è uno schermo dove vengono proiettate diapositive con alcune delle frasi che sta dicendo.
“Questo soggetto ha subito una regressione del suo io in forme che non sono state in grado di evolversi da uno stadio infantile ad un grado superiore di inserimento socio-antropologico bla bla bla…”
Le punte dei piedi mi fanno male, pensa Marco, quasi quasi mi tolgo le scarpe.  Ma per fortuna non lo fa. Le chiacchiere di Silvia sono proprio pallose, vabbè che lei indossa un abitino nero da paura, però…
“E infine questa è la foto dell’individuo oggetto del mio studio.”
Con enorme sorpresa Marco scorge la sua faccia sullo schermo. Ha lo sguardo perso e sorride come un ebete. Si ricorda benissimo di quella foto, Silvia l’aveva scattata dopo la peperonata di fine giugno. E finalmente capisce tutto. Anzi, capisce in parte. Non ha alcuna idea di dove vadano a parare le chiacchiere di Silvia, ma ha capito che ha descritto un povero disgraziato e quel povero disgraziato è lui. Bella stronza. Le sbronze, le cene, gli scherzi… e lei fingeva, stava solo studiando. Stava preparando la sua cazzo di tesi. Tuttavia non ce la fa ad odiarla, un rapido excursus nella sua memoria e capisce che Silvia è in fondo l’unica persona che lo ha reso un po’ felice. Lo faceva per motivi assolutamente differenti da quelli che pensava, era solo un suo scopo. Ma con lei era stato felice. Nel momento in cui la platea si scioglie in un applauso di approvazione e vede Richie scendere le scale di corsa e abbracciarla, capisce che quella ragazza con vestito nero che abbraccia uno spilungone biondo rigido come un attaccapanni non è la Silvia di cui si era innamorato. Quella non esiste più.
Esce dal palazzo né allegro né triste e si avvia verso la sua Citroen. Passa davanti ad una Mazda parcheggiata e si ricorda che è quella di Richie. Quasi quasi gli lascio un ricordino, pensa. Si fruga tra le tasche alla ricerca di un coltellino svizzero che di solito porta con sé, ma non lo trova. Sente che ha la vescica gonfia e cambia idea all’istante. Decide di omaggiare il biondino in maniera diversa, meno dannosa ma più umiliante. Si guarda intorno. Il viottolo è deserto, non passa nessuno. Si slaccia i pantaloni e comincia a pisciare sulle lamiere. Cerca di muovere l’arnese in modo da innaffiare l’intera fiancata come un giardiniere giudizioso che nutre le sue aiuole. D’improvviso sente una radio accendersi, si volta alle sue spalle e vede una donna seduta nella macchina accanto.
Se lo rimette dentro senza il tempo di sgrullare e si allontana a passo rapido verso la sua Citroen.
“Guarda che ti ho visto…”
Una pugnalata alle spalle. Si volta. La donna è scesa dall’auto e lo osserva con aria divertita. E’ bionda e un po’ in carne, sulla quarantina.
“Stavi pisciando su quella Mazda…”
“No signora si sbaglia… volevo solo fregarmi la radio…”
Meglio ladro che pisciamacchine. 
“Ho sentito il rumore della pipì sul metallo delle portiere…”
“Si sbaglia, era un’interferenza sul canale radio che stava ascoltando…”
“Per terra c’è un rigagnolo che parte dalla macchina…”
“E’ la marmitta che perde, si fidi, sono meccanico…”
“Guarda che non c’è nulla di male.”
Questa risposta non se l’aspettava. La donna ha lo sguardo complice,e aggiunge:
“Anch’io lo faccio spesso…”
Incredibile, sarebbe un vero spettacolo, pensa Marco, che prova anche ad immaginare una dinamica dell’evento. E si accorge di avere poca inventiva.
“Ho cominciato da bambina, quando all’asilo pisciavo sui giocattoli…”
Un fulmine a ciel sereno. Dopo più di trent’anni il suo unico vero amore è a due metri da lui.

domenica 12 giugno 2011

Mia sorella è una foca monaca

 
A leggere qua e là i prevedibili elogi di firme (pseudo)illustri, Mia sorella è una foca monaca, romanzo di esordio di Christian Frascella, sembrava il solito caso editoriale fasullo costruito ad arte dai nostri editori furbastri. Nè si può dire che l’idea di un romanzo adolescenziale di formazione ambientato nella sonnacchiosa provincia italiana di fine anni ’80 avesse alcunchè di originale o di appealing. Eppure Mia sorella è una foca monaca ci ha piacevolmente sorpreso. La storia di questo diciassettenne di cui non scopriremo mai il nome, rissoso e sbruffone, che considera chiunque gli si pari davanti un idiota o uno sfigato o un mezzo uomo, salvo poi prendercele da chiunque (ragazze comprese), è divertente e si legge tutta d’un fiato. E finalmente interrompe una boriosa tradizione di storie di ragazzini ipersensibili che vogliono fuggire da una provincia rozza e volgare che non saprà mai capirli. Il protagonista di questo romanzo, invece, sguazza nel suo paesello piemontese come un pesce balestra nel mar dei Caraibi, e dalla vita non chiede altro che un impiego da operaio metalmeccanico e l’amore di Chiara, la gastronoma del minimarket a cui non può evitare di guardare il sedere.  E’ vero, come scrive Giuseppe Genna in prefazione, che il diciassettenne di questa storia riecheggia illustri “perdenti di talento” come Il giovane Holden o l’Arturo Bandini dei romanzi di John Fante. Ma vengono in mente anche riferimenti cinematografici come l’Ovosodo di Virzì o l’americano SuperBad, film straordinario (vedi il trailer in basso) che una distrubuzione demente ha venduto come l’ennesima commediola pecoreccia alla American Pie. In Superbad il regista Greg Mottola compie un’operazione assai simile a quella di Fascella: raccontare la sbruffonaggine degli adolescenti per svelarne l’insicurezza e la paura di vivere.  Come Mottola, anche lo scrittore torinese è bravo a far emergere l’umanità di questo James Dean dei poveri senza mai ricorrere a piagnistei e luoghi comuni; e lo fa con una prosa che a primo impatto sembra un po’ tirata via, ma invece gronda ironia caustica e sorprendente sagacia descrittiva nel deformare personaggi tutto sommato ordinari nell’ottica iperrealista e scazzata del suo antieroe.
D’altronde, come non prendere a simpatia un romanzo con un incipit così: “Ci pestammo a lungo nello spiazzo dietro la scuola”?
Bravo, Christian Frascella. Siamo ora curiosi di leggere il tuo secondo romanzo. 



sabato 11 giugno 2011

Andrea Di Sorte vs. Antonio Di Pietro



Strana cosa l’ilarità. Capita a volte di sbellicarsi per situazioni e battute banali e insulse e sorridere appena per altre che sono invece graffianti e geniali. Perché? Perché è la ridicolaggine, l’incertezza nel pronunciarle, l’incompetenza nel padroneggiare i tempi comici a renderle involontariamente irresistibili. Non si ride per la battuta in sè, insomma, ma per la situazione grottesca che il maldestro umorista si trova suo malgrado a creare. Un esempio proprio ieri, nell’ormai già storica ultima puntata di Annozero (vedi il video sopra). Si  parla del referendum di domenica e lunedì (a proposito, chi può VADA a votare SI), e in particolare del quesito sul legittimo impedimento (ossia: vuoi che un ladro e un corruttore e un pappone vada in carcere anche se nel tempo libero fa il Presidente del Consiglio dei Ministri?). Come sempre ad Annozero, la discussione è tutt’altro che distesa. Ad un certo punto Giulia Innocenzi prende la parola per introdurre tale Andrea Di Sorte, che pare sia coordinatore dei “club della libertà” (sigh...) nonchè seguitissimo blogger pidiellino, e chiede le ragioni per cui ha deciso di non andare a votare. Invece di sfruttare ogni secondo del poco tempo concesso e andare subito al sodo, il Di Sorte azzera il climax della discussione con la seguente digressione:

“Permettimi solamente di fare una battuta che è uscita questa sera, è una grande verità.... Di Pietro ha chiamato Grillo collega, finalmente sappiamo che anche lei è un comico, questa è una grande, è una grande...”

E qui viene interrotto dal leader dell'Italia dei Valori che con la mano destra sulla faccia in posizione urlatore di giornali lo incalza dicendo che Grillo è un cittadino prima che un comico, il cittadino Grillo, il cittadino! Di Sorte prova a sovrastare il vocione baritonale del rozzo ma efficace politico molisano ribadendo:

“AVEVAMO QUALCHE SOSPETTO... avevamo qualche sospetto, stasera m’ha fugato il dubbio...”

mentre Di Pietro continua con il cittadino Grillo, il cittadino Grillo!
La Innocenzi  cerca di riportare il discorso sul legittimo impedimento ma dopo una scena del genere il blogger  ha ormai perso qualsiasi credibilità. Abbiamo visto e rivisto questo breve episodio, risate grasse, quasi le lacrime agli occhi. Perchè ci fa tanto ridere? E soprattutto, perché abbiamo deciso di dedicarci un post? In realtà la battuta del Di Sorte è così banale che persino Berlusconi ci penserebbe due volte prima di pronunciarla. Ma la testardaggine dell’ improvvisato (e pessimo) umorista nel trovare un pretesto per la tipica invettiva pidiellina sull’odiatissimo Di Pietro nonostante sia completamente gratuita e avulsa dal discorso, il suo evidente nervosismo, l’assoluta ignoranza dei tempi comici, lo sforzo per mantenere il controllo davanti alla reazione del leader dell’Italia dei Valori... tutto ciò rende questo episodio esilarante ed emblematico.  Anche più della sfuriata di Santoro su RAI e partiti, di Brunetta che sfotte chi applaude il conduttore, dell’invito di Castelli a non pagare il canone, delle varie risse da pollaio in cui tutti si parlano sopra e non si capisce nulla. Perchè ormai il dibattito politico/televisivo (c’è differenza?) italiano è diventato questo. Una tragicommedia dove i tempi comici non funzionano più. E si ride quando non si dovrebbe, per i motivi sbagliati. 

lunedì 6 giugno 2011

Il cinico e il caustico

Il cinico parla tanto, il caustico poco.
Il cinico insulta la gente e il mondo, il caustico sa svelarne contraddizioni e debolezze.
Il cinico si ferma in superficie, il caustico si chiede cosa ci sia sotto.
Il cinico vede il mondo a due dimensioni, il caustico a tre dimensioni.
Il cinico ragiona a luoghi comuni, il caustico li irride.
Il cinico ha poca fantasia, il caustico è un visionario.
Il cinico è pesante e banale, il caustico è acuto e graffiante. 
Il cinico è sempre prevedibile, il caustico può sorprenderti ad ogni istante.
Il cinico si pone al di sopra dei tanti, il caustico in mezzo ai tanti.
Il cinico crede di avere tutte le risposte, il caustico sa ancora farsi delle domande. 
Il cinico è convinto di aver ragione, il caustico sa che la ragione assoluta non esiste.
Il cinico dice di sapere chi ha la colpa, il caustico sa bene che la colpa non sta mai da una parte sola.
Il cinico ride per primo alle sue battute, il caustico non ne ride affatto.
Il cinico fa di tutto per essere simpatico, il caustico fa di tutto per essere se stesso.
Il cinico è indifferente alle storie degli altri, il caustico sa ascoltarle con interesse.
Il cinico guarda tanta televisione, il caustico legge tanti libri.
Il cinico adora il gossip, il caustico no.
Il cinico ama alzare la voce, il caustico no.
Il cinico spara giudizi, il caustico no.
Il cinico è ripetitivo, il caustico no.
Il cinico si annoia facilmente, il caustico no.
Il cinico è insicuro, il caustico no.
Il cinico è frustrato, il caustico no.
Il cinico è un debole, il caustico no.
Il cinico non scopa, il caustico sì.

giovedì 2 giugno 2011

Il piccolo Carmelo




Ho mangiato ali di gabbiano infilate come cialde in una coppa gelato al gusto di Amontillado. Ho visto un branco di furetti giganti alzarsi in piedi, infilarsi camicie hawaiane e mettersi a ballare il forrò.  Ho ascoltato le note del Miserere provenire da una mucca che ruminava con una radio inpiantata nel tessuto adiposo della mascella. Questo e molto altro raccontava il piccolo Carmelo. E tutti a dire basta, hai rotto le palle, non ce la facciamo più, siamo stufi di sentire queste stronzate assurde. E  giù a spintonarlo, strattonarlo, a tirare schiaffi ginocchiate e pugni finchè il piccolo Carmelo ruzzolava a terra e incassava gli ultimi calci nello stomaco prima di venire abbandonato lamentoso e dolorante.
Non funzionava più.  Si ostinava a provarci, come non volesse decidersi ad ammettere che le cose erano cambiate.  Ma ormai ogni volta finiva così. C’era un tempo in cui il piccolo Carmelo invitava i suoi amici a casa e lì bolliva un chilo di cozze fresche nel latte parzialmente scremato e poi le metteva tra due fette di pane. Masticava il suo panino alle cozze con un’espressione di estasi dipinta in viso, enfatizzando con le sopracciglia corrugate lo sforzo dei molari nel ridurre in poltiglia il durissimo guscio.  I suoi amici si sbellicavano dalle risate, questo sta fuori, dicevano, è proprio pazzo da fare schifo, è un grande. E il piccolo Carmelo, in preda all’euforia, faceva il verso del gallo nel periodo dell’accoppiamento e i gargarismi con l’olio d’oliva e strappava a morsi il copertone di una ruota di bicicletta come fosse liquirizia. Così, per far ridere. E ci riusciva in pieno. Le risate degli amici raddoppiavano, triplicavano, molti di loro avevano la milza dolorante e le lacrime agli occhi. E’ pazzo, pazzo fracico, è troppo forte, fa collassare dal ridere.
Poi, a poco a poco le risate si erano fatte meno intense.  Non avevano più quel fragore dirompente che per il piccolo Carmelo era come il tuono di un acquazzone estivo per un assetato nel deserto del Gobi.  Sembravano piuttosto risate di dovere come per rispetto per il divertimento di un tempo. Poi neanche quello.  Un giorno che il piccolo Carmelo si era messo una vestaglia a fiori e canticchiava in falsetto una canzone popolare del polesine con un ventilatore posto accanto ai piedi che gli sollevava la vestaglia mostrando calze autoreggenti  e mutandoni, dai suoi amici non aveva ottenuto altra reazione che un imbarazzante silenzio.  Una ragazza bionda e magrolina che si era aggiunta da poco al gruppo aveva anche sbuffato.
Era stato l’inizio di una vertiginosa  parabola discendente. I suoi amici si mostravano sempre più insofferenti alle sue performance e alle storie che raccontava. Dai su, Carmelo, vedi di finirla, dicevano loro mentre lui si infilava due piatti metallici da batteria sotto le ascelle legandole alle braccia e provando a sbatterle a tempo. Il piccolo Carmelo fingeva di non sentirli, pensava che la parte migliore del suo show dovesse ancora arrivare e lì non avrebbero potuto non sbellicarsi, ma in realtà le loro parole fredde e seccate erano sciabole che gli laceravano l’anima. E contrariamente alle sue attese, quando il momento migliore arrivava e lui divorava il sapone di Marsiglia con la maglietta aperta sul panciotto nudo dove aveva spalmato burro di arachidi e che si stava riempiendo di mosche, nessuno rideva. E molti se ne erano già andati. Non ci volle molto perché arrivassero alle mani. Il piccolo Carmelo si ostinava a voler capitalizzare l’attenzione e gli amici avevano capito che limitarsi a chiedere di smetterla non era più sufficiente. Gliele dovevano suonare di santa ragione.  Da lì i calci, i pugni, le ginocchiate nello stomaco, gli schiaffi. Il piccolo Carmelo incassava tutto con cristologica sopportazione, con la silenziosa speranza che si trattasse solo di un brutto momento e che presto avrebbero ricominciato a sbellicarsi con lui come ai vecchi tempi. Ma ogni serata in cui finiva dolorante a terra la speranza si affievoliva. Indossava una tuta in panno da dinosauro o una camicia inzuppata di caffè o un paio di mutandoni ascellari usati come t-shirt, ma non si era mai sentito così nudo. La violenza e l’indifferenza degli amici lo avevano spogliato del suo rassicurante e scintillante vestito da pazzo ed era tornato ad essere quel che era, un ometto di quarantasette anni dalla pelle bianca e coriacea, calvo, alto un metro e quarantuno, spalle strette e pancione spropositatamente largo, solo al mondo, che campava grazie al sussidio di disoccupazione.
Uno che il giorno usciva di casa e camminava per ore a vuoto e poi tornava a casa e lì si accorgeva che si era fatto sera e non aveva scambiato due parole con nessuno. Uno che cenava con qualsiasi schifezza surgelata davanti allo schermo di un laptop mentre leggeva i forum dei fan di Star Wars. Che aveva come ricordo più eccitante due seni femminili nudi visti dal vivo in un night club, l’unica volta che c’era stato.

Una sera, dopo aver incassato gli ennesimi calci e pugni, decise che avrebbe smesso di cercare di far ridere gli amici. Li avrebbe riconquistati con la sua normalità e la sua cultura. D’altronde, loro non raccontavano di furetti ballerini nè inzuppavano le cozze nel latte. Eppure nessuno veniva abbandonato solo perché non faceva ridere. Quella sera si erano incontrati in un locale latino del centro e il piccolo Carmelo si era lanciato in un’improbabile e frenetica lambada solitaria con un vestito da cowboy del Tennessee, che non c’entrava nulla. E si era meritato la sua dose di botte.  Si alzò da terra raccattando il suo cappello in feltro pesantemente calpestato e si avvicinò al bancone del bar. Erano rimasti due bicchieri di sangria. Ne afferrò uno e se lo scolò ingoiando i pezzi di mela tutti interi. E fu così che ebbe l’illuminazione. Il suo proposito di riconquistare i suoi amici con una pallida e boriosa normalità poteva aspettare. Anzi, poteva anche andare a farsi benedire. L’idea che aveva avuto era troppo brillante, da fare inpallidire decine di modeste esibizioni stravaganti.
Una vasca di sangria. Migliaia di litri di sangria in cui si sarebbe tuffato e fatto il bagno. Questo non poteva non sorprendere i suoi amici. Non vi fa ridere? Ok. Ma stavolta proprio non potete dire che non vi ho stupito. Il piccolo Carmelo era convinto che quell’idea sarebbe stata la sua ancora di salvezza. Sguazzare e lavarsi le ascelle nella sangria era senz’altro il modo di tornare a far breccia nel cuore dei suoi amici.
E così spese i risparmi di sei anni di sussidio per far arrivare tre tir di vino rosso Tavernello, un quintale di mele della Val di Non, sessanta chili di pesche, trenta di arance e limoni, ottanta chili di zucchero. E una vasca in materiale vergine per alimenti di dimensione tre metri per due per uno. Dovette anche riservare l’intero locale, che restò chiuso al pubblico per una settimana, nonchè pagare la manodopera della sua padrona, un donnone di mezza età originario di Valladolid che si offrì di aiutare con la preparazione. Sbucciarono ad una ad una tutte le mele e le arance e i limoni, li tagliarono a pezzettini e li gettarono nella vasca. La sera prima del grande evento riempirono la vasca con circa cinquemila litri di vino utilizzando due larghi bocchettoni in plastica flessibile. Svuotarono i sacchi di zucchero girando attorno l’enorme contenitore, poi provarono a mescolare il tutto con il rottame di un ex palo da lap dance. Infine allestirono un piccolo trampolino di legno e un sipario di velluto rosso preso in prestito al teatro cittadino.
Gli amici arrivarono al locale all’orario stabilito per il loro tipico incontro settimanale e si sedettero nella longue, qualcuno commentando con gioia l’imprevista assenza del piccolo Carmelo e chiedendosi cosa diavolo fosse quel cafonissimo sipario che limitava lo spazio agibile.  
Quando fu il momento, ad un cenno del piccolo Carmelo il donnone di Valladolid mise su un disco di salsa portoricana e tirò su il sipario. Gli amici videro con evidente sopresa il piccolo Carmelo con indosso solamente un perizoma rosa che ancheggiava sul trampolino di una vasca piuttosto grande cercando di tenere il ritmo della musica latina. Dopodichè lo videro tapparsi il naso con le mani e tuffarsi a peso morto. L'impatto del suo corpo tozzo con il contenuto della vasca riversò ingenti quantitativi di sangria sulle quattro pareti del locale, investendo in pieno i suoi amici nella longue. Camicie e maglioni da sabato sera inzuppati di un appiccicoso vino rosso, indelebile.
Stavolta quel figlio di cagna l’ha fatta troppo grossa...
Il più alto e insofferente degli amici si avvicinò furente alla vasca dove il piccolo Carmelo aveva iniziato le sue abluzioni a ritmo di salsa,  lo afferrò per il collo e lo tirò fuori scaraventandolo sul pavimento di parquet irrimediabilmente macchiato. Il donnone di Valladolid imprecava in spagnolo perché per colpa di quell’idiota avrebbe dovuto far rifare il pavimento e ridipingere le pareti del locale, e cercò di farsi spazio nel gruppetto di gente che aveva già circondato il piccolo Carmelo. Gli amici afferrarono le sedie in faggio delle longue e gliele spaccarono con furore sullo stomaco mentre col viso deformato dalla rabbia e la vena giugulare in procinto di esplodere urlavano gli insulti più osceni. Tutto era avvenuto troppo in fretta perché il piccolo Carmelo potesse fare ordine nei suoi pensieri inquinati dall’assurdo e dalle botte e capire come il suo piano geniale si fosse trasformato in un disastro di tale portata. Provava solo un dolore fisico lancinante e con in bocca il sapore pastoso della sangria non aveva neanche la forza di gridare. Mentre i suoi amici infierivano su di lui si girò prono e portò le ginocchia al petto stringendole con forza. Serrando gli occhi cercò di farsi piccino piccino, minuscolo come un buco nero in grado di risucchiare l’intero universo. Strinse i denti talmente forte che finì per spaccarli. Le urla degli amici erano ora solo un potente rumore di fondo. Le sedie e gli sgabelli e i le bottiglie che gli scagliavano sulla schiena ormai non gli facevano neanche più male. Era come se la sua schiena fosse ora ricoperta da squame durissime e resistenti.

Silenzio. Il rumore di fondo era sparito. Il piccolo Carmelo aprì gli occhi e vide che il locale era buio. Tirò un respiro profondo e provò ad alzarsi. Non ce la faceva, e non perché il suo corpo fosse dolorante. Non riusciva neanche a posare i palmi della mani a terra. O a muovere le spalle. L’unica cosa che poteva fare era rimanere lì immobile e andare avanti e dietro con la testa. E camminare carponi senza essere in grado di staccare la pancia dal pavimento.

Quando il mattino dopo il donnone di Valladolid tornò nel locale per fare la prima stima dei danni della serata, lanciò un urlo acuto che svegliò i vicini. Al centro del locale c’era una tartaruga gigante, simile alle testuggini marine delle Galapagos.  
Gli amici non riuscirono mai a capacitarsi di come al posto di quel cretino del piccolo Carmelo avessero trovato una testuggine dalla corazza lucida e splendende. Ma adorarono subito quella tartaruga, così grande,  così dolce, così silenziosa, con quelle grosse lucenti biglie nere come occhi. La portavano con loro ovunque, nei locali, nelle feste private, a volte persino in ufficio. Il piccolo Carmelo era diventato una tartaruga e aveva ritrovato il rispetto e la stima dei suoi amici. Era finalmente felice. Chiacchieravano con lui dandogli pacche affettuose sulla testa piatta e gli lasciavano bere dei drink con una cannuccia che posizionavano delicatamente sulla sua piccola bocca triangolare dall’interno rosa. A volte uno di loro si sedeva sulla sua corazza e lo spronava a portarlo in giro. 
Capitava anche che parlassero male di lui, del suo vecchio lui. Ma in quel caso il piccolo Carmelo sapeva cosa fare. Si chiudeva nel suo guscio. E non sentiva nulla.