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giovedì 2 giugno 2011

Il piccolo Carmelo




Ho mangiato ali di gabbiano infilate come cialde in una coppa gelato al gusto di Amontillado. Ho visto un branco di furetti giganti alzarsi in piedi, infilarsi camicie hawaiane e mettersi a ballare il forrò.  Ho ascoltato le note del Miserere provenire da una mucca che ruminava con una radio inpiantata nel tessuto adiposo della mascella. Questo e molto altro raccontava il piccolo Carmelo. E tutti a dire basta, hai rotto le palle, non ce la facciamo più, siamo stufi di sentire queste stronzate assurde. E  giù a spintonarlo, strattonarlo, a tirare schiaffi ginocchiate e pugni finchè il piccolo Carmelo ruzzolava a terra e incassava gli ultimi calci nello stomaco prima di venire abbandonato lamentoso e dolorante.
Non funzionava più.  Si ostinava a provarci, come non volesse decidersi ad ammettere che le cose erano cambiate.  Ma ormai ogni volta finiva così. C’era un tempo in cui il piccolo Carmelo invitava i suoi amici a casa e lì bolliva un chilo di cozze fresche nel latte parzialmente scremato e poi le metteva tra due fette di pane. Masticava il suo panino alle cozze con un’espressione di estasi dipinta in viso, enfatizzando con le sopracciglia corrugate lo sforzo dei molari nel ridurre in poltiglia il durissimo guscio.  I suoi amici si sbellicavano dalle risate, questo sta fuori, dicevano, è proprio pazzo da fare schifo, è un grande. E il piccolo Carmelo, in preda all’euforia, faceva il verso del gallo nel periodo dell’accoppiamento e i gargarismi con l’olio d’oliva e strappava a morsi il copertone di una ruota di bicicletta come fosse liquirizia. Così, per far ridere. E ci riusciva in pieno. Le risate degli amici raddoppiavano, triplicavano, molti di loro avevano la milza dolorante e le lacrime agli occhi. E’ pazzo, pazzo fracico, è troppo forte, fa collassare dal ridere.
Poi, a poco a poco le risate si erano fatte meno intense.  Non avevano più quel fragore dirompente che per il piccolo Carmelo era come il tuono di un acquazzone estivo per un assetato nel deserto del Gobi.  Sembravano piuttosto risate di dovere come per rispetto per il divertimento di un tempo. Poi neanche quello.  Un giorno che il piccolo Carmelo si era messo una vestaglia a fiori e canticchiava in falsetto una canzone popolare del polesine con un ventilatore posto accanto ai piedi che gli sollevava la vestaglia mostrando calze autoreggenti  e mutandoni, dai suoi amici non aveva ottenuto altra reazione che un imbarazzante silenzio.  Una ragazza bionda e magrolina che si era aggiunta da poco al gruppo aveva anche sbuffato.
Era stato l’inizio di una vertiginosa  parabola discendente. I suoi amici si mostravano sempre più insofferenti alle sue performance e alle storie che raccontava. Dai su, Carmelo, vedi di finirla, dicevano loro mentre lui si infilava due piatti metallici da batteria sotto le ascelle legandole alle braccia e provando a sbatterle a tempo. Il piccolo Carmelo fingeva di non sentirli, pensava che la parte migliore del suo show dovesse ancora arrivare e lì non avrebbero potuto non sbellicarsi, ma in realtà le loro parole fredde e seccate erano sciabole che gli laceravano l’anima. E contrariamente alle sue attese, quando il momento migliore arrivava e lui divorava il sapone di Marsiglia con la maglietta aperta sul panciotto nudo dove aveva spalmato burro di arachidi e che si stava riempiendo di mosche, nessuno rideva. E molti se ne erano già andati. Non ci volle molto perché arrivassero alle mani. Il piccolo Carmelo si ostinava a voler capitalizzare l’attenzione e gli amici avevano capito che limitarsi a chiedere di smetterla non era più sufficiente. Gliele dovevano suonare di santa ragione.  Da lì i calci, i pugni, le ginocchiate nello stomaco, gli schiaffi. Il piccolo Carmelo incassava tutto con cristologica sopportazione, con la silenziosa speranza che si trattasse solo di un brutto momento e che presto avrebbero ricominciato a sbellicarsi con lui come ai vecchi tempi. Ma ogni serata in cui finiva dolorante a terra la speranza si affievoliva. Indossava una tuta in panno da dinosauro o una camicia inzuppata di caffè o un paio di mutandoni ascellari usati come t-shirt, ma non si era mai sentito così nudo. La violenza e l’indifferenza degli amici lo avevano spogliato del suo rassicurante e scintillante vestito da pazzo ed era tornato ad essere quel che era, un ometto di quarantasette anni dalla pelle bianca e coriacea, calvo, alto un metro e quarantuno, spalle strette e pancione spropositatamente largo, solo al mondo, che campava grazie al sussidio di disoccupazione.
Uno che il giorno usciva di casa e camminava per ore a vuoto e poi tornava a casa e lì si accorgeva che si era fatto sera e non aveva scambiato due parole con nessuno. Uno che cenava con qualsiasi schifezza surgelata davanti allo schermo di un laptop mentre leggeva i forum dei fan di Star Wars. Che aveva come ricordo più eccitante due seni femminili nudi visti dal vivo in un night club, l’unica volta che c’era stato.

Una sera, dopo aver incassato gli ennesimi calci e pugni, decise che avrebbe smesso di cercare di far ridere gli amici. Li avrebbe riconquistati con la sua normalità e la sua cultura. D’altronde, loro non raccontavano di furetti ballerini nè inzuppavano le cozze nel latte. Eppure nessuno veniva abbandonato solo perché non faceva ridere. Quella sera si erano incontrati in un locale latino del centro e il piccolo Carmelo si era lanciato in un’improbabile e frenetica lambada solitaria con un vestito da cowboy del Tennessee, che non c’entrava nulla. E si era meritato la sua dose di botte.  Si alzò da terra raccattando il suo cappello in feltro pesantemente calpestato e si avvicinò al bancone del bar. Erano rimasti due bicchieri di sangria. Ne afferrò uno e se lo scolò ingoiando i pezzi di mela tutti interi. E fu così che ebbe l’illuminazione. Il suo proposito di riconquistare i suoi amici con una pallida e boriosa normalità poteva aspettare. Anzi, poteva anche andare a farsi benedire. L’idea che aveva avuto era troppo brillante, da fare inpallidire decine di modeste esibizioni stravaganti.
Una vasca di sangria. Migliaia di litri di sangria in cui si sarebbe tuffato e fatto il bagno. Questo non poteva non sorprendere i suoi amici. Non vi fa ridere? Ok. Ma stavolta proprio non potete dire che non vi ho stupito. Il piccolo Carmelo era convinto che quell’idea sarebbe stata la sua ancora di salvezza. Sguazzare e lavarsi le ascelle nella sangria era senz’altro il modo di tornare a far breccia nel cuore dei suoi amici.
E così spese i risparmi di sei anni di sussidio per far arrivare tre tir di vino rosso Tavernello, un quintale di mele della Val di Non, sessanta chili di pesche, trenta di arance e limoni, ottanta chili di zucchero. E una vasca in materiale vergine per alimenti di dimensione tre metri per due per uno. Dovette anche riservare l’intero locale, che restò chiuso al pubblico per una settimana, nonchè pagare la manodopera della sua padrona, un donnone di mezza età originario di Valladolid che si offrì di aiutare con la preparazione. Sbucciarono ad una ad una tutte le mele e le arance e i limoni, li tagliarono a pezzettini e li gettarono nella vasca. La sera prima del grande evento riempirono la vasca con circa cinquemila litri di vino utilizzando due larghi bocchettoni in plastica flessibile. Svuotarono i sacchi di zucchero girando attorno l’enorme contenitore, poi provarono a mescolare il tutto con il rottame di un ex palo da lap dance. Infine allestirono un piccolo trampolino di legno e un sipario di velluto rosso preso in prestito al teatro cittadino.
Gli amici arrivarono al locale all’orario stabilito per il loro tipico incontro settimanale e si sedettero nella longue, qualcuno commentando con gioia l’imprevista assenza del piccolo Carmelo e chiedendosi cosa diavolo fosse quel cafonissimo sipario che limitava lo spazio agibile.  
Quando fu il momento, ad un cenno del piccolo Carmelo il donnone di Valladolid mise su un disco di salsa portoricana e tirò su il sipario. Gli amici videro con evidente sopresa il piccolo Carmelo con indosso solamente un perizoma rosa che ancheggiava sul trampolino di una vasca piuttosto grande cercando di tenere il ritmo della musica latina. Dopodichè lo videro tapparsi il naso con le mani e tuffarsi a peso morto. L'impatto del suo corpo tozzo con il contenuto della vasca riversò ingenti quantitativi di sangria sulle quattro pareti del locale, investendo in pieno i suoi amici nella longue. Camicie e maglioni da sabato sera inzuppati di un appiccicoso vino rosso, indelebile.
Stavolta quel figlio di cagna l’ha fatta troppo grossa...
Il più alto e insofferente degli amici si avvicinò furente alla vasca dove il piccolo Carmelo aveva iniziato le sue abluzioni a ritmo di salsa,  lo afferrò per il collo e lo tirò fuori scaraventandolo sul pavimento di parquet irrimediabilmente macchiato. Il donnone di Valladolid imprecava in spagnolo perché per colpa di quell’idiota avrebbe dovuto far rifare il pavimento e ridipingere le pareti del locale, e cercò di farsi spazio nel gruppetto di gente che aveva già circondato il piccolo Carmelo. Gli amici afferrarono le sedie in faggio delle longue e gliele spaccarono con furore sullo stomaco mentre col viso deformato dalla rabbia e la vena giugulare in procinto di esplodere urlavano gli insulti più osceni. Tutto era avvenuto troppo in fretta perché il piccolo Carmelo potesse fare ordine nei suoi pensieri inquinati dall’assurdo e dalle botte e capire come il suo piano geniale si fosse trasformato in un disastro di tale portata. Provava solo un dolore fisico lancinante e con in bocca il sapore pastoso della sangria non aveva neanche la forza di gridare. Mentre i suoi amici infierivano su di lui si girò prono e portò le ginocchia al petto stringendole con forza. Serrando gli occhi cercò di farsi piccino piccino, minuscolo come un buco nero in grado di risucchiare l’intero universo. Strinse i denti talmente forte che finì per spaccarli. Le urla degli amici erano ora solo un potente rumore di fondo. Le sedie e gli sgabelli e i le bottiglie che gli scagliavano sulla schiena ormai non gli facevano neanche più male. Era come se la sua schiena fosse ora ricoperta da squame durissime e resistenti.

Silenzio. Il rumore di fondo era sparito. Il piccolo Carmelo aprì gli occhi e vide che il locale era buio. Tirò un respiro profondo e provò ad alzarsi. Non ce la faceva, e non perché il suo corpo fosse dolorante. Non riusciva neanche a posare i palmi della mani a terra. O a muovere le spalle. L’unica cosa che poteva fare era rimanere lì immobile e andare avanti e dietro con la testa. E camminare carponi senza essere in grado di staccare la pancia dal pavimento.

Quando il mattino dopo il donnone di Valladolid tornò nel locale per fare la prima stima dei danni della serata, lanciò un urlo acuto che svegliò i vicini. Al centro del locale c’era una tartaruga gigante, simile alle testuggini marine delle Galapagos.  
Gli amici non riuscirono mai a capacitarsi di come al posto di quel cretino del piccolo Carmelo avessero trovato una testuggine dalla corazza lucida e splendende. Ma adorarono subito quella tartaruga, così grande,  così dolce, così silenziosa, con quelle grosse lucenti biglie nere come occhi. La portavano con loro ovunque, nei locali, nelle feste private, a volte persino in ufficio. Il piccolo Carmelo era diventato una tartaruga e aveva ritrovato il rispetto e la stima dei suoi amici. Era finalmente felice. Chiacchieravano con lui dandogli pacche affettuose sulla testa piatta e gli lasciavano bere dei drink con una cannuccia che posizionavano delicatamente sulla sua piccola bocca triangolare dall’interno rosa. A volte uno di loro si sedeva sulla sua corazza e lo spronava a portarlo in giro. 
Capitava anche che parlassero male di lui, del suo vecchio lui. Ma in quel caso il piccolo Carmelo sapeva cosa fare. Si chiudeva nel suo guscio. E non sentiva nulla. 

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