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lunedì 13 ottobre 2014

Abolite il divorzio in Danimarca

Sul serio, fatelo. Assolutamente proibito, ad esclusione di casi eccezionali come marito serial killer o cannibale. Hai sposato uno/a stronzo/a? Cazzi tuoi, povera/o scema/o. Dovevi pensarci prima, o prendere più tempo. Adesso è tardi e ti tieni lo/a stronzo/a. E' ora di finirla con questo scempio di bambini scarrozzati tra una mamma e un papà che neanche si conoscono, con lei che non si era accorta che l'uomo conosciuto due giorni prima e che l'ha ingravidata spensieratamente era un demente alcolizzato e nullafacente, e con lui che esplode con un For helvede! quando scopre dell'imminente paternità, ma affoga in una serata alla street la sua blanda confusione esistenziale. Basta con i chissenefrega dei bambini, li scarrozzi nel tempo libero e poi li piazzi nei kindergarten dove insegnanti arpie smaniano di inculcalrgli la Janteloven. Basta con i nuovi fidanzati delle madri, con i nuovi far og mor , i figli dei nuovi fidanzati, la pedagogia dell'integrazione e le forzature delle famiglie allargate. Basta con i nonni neanche cinquantenni, menefreghisti e in piena sindrome signorina Silvani, ovviamente divorziati e risposati e ri-divorziati, che partono per la Grecia o la Spagna o i Caraibi e non vogliono nipotini moccolosi tra le palle.
La trentenne media danese è divorziata e dimostra quarantacinque anni, ha due tre quattro bambini a carico (il maggiore ormai alle soglie dell'adolescenza), è sola e delusa dalla vita. Le poche trentenni senza figli, vivono con un enorme cane dentro casa, un labrador o un alano. La trentenne media danese è tozza e sgraziata, malgrado i residui di lineamenti delicati del bel tempo che fu, e si esprime con gorgheggi gutturali (ah no, parla solo la sua lingua...). Sta cercando se stessa, trascorre la giornata postando una caterva di troiate esistenziali su facebook, va in palestra e corre e pedala sotto la pioggia e il vento e la neve. Quando non ci sono i bambini a casa, passa le serate spaparanzata sul sofa Ikea del suo appartamento dal pavimento in legno e il cesso di un metro quadrato, e sgranocchia le Pringles mentre le scende una lacrimuccia davanti ad un film con Julia Roberts. Si crede unica e interessante, ma ha un immaginario (e un senso dell'umorismo) plasmato sul peggio della merda americana odierna, dai serial come How I met your mother e Friends ai programmi di diete 21 day fit e i romanzetti di Cento sfumature di grigio/nero/rosso. Crede di avere personalità, ma copia gli altri e neanche se ne accorge. Ha i soliti orari di lavoro comodi, non fa una mazza ma si dice stressata, fa la spesa al Netto e acquista borse e vestiti al Salling il sabato mattina. Organizza patetiche serate tøsehygge a casa sua,  quelle seratine tutte appletini e caramelle Haribo e jellyshots e Smirnoff con amiche sciantose infagottate in orrendi abiti interi giallo limone o nero morte e calze rosa shocking, che emulano trasgressioni da dodicenni e poi tornano a casa e si sentono sole e piangono.
Per piacere, non divorziate, se questa è l'alternativa. Abolite il divorzio. Così ci pensate un po' prima di sposarvi. Ma se ci capitate, meglio un pessimo consorte che un tale strazio. Fatevi l'amante, se necessario, costruite una sana ipocrisia familiare. Ma pensate ai vostri figli, stategli vicino, non incasinategli la vita. Non pensate ai cavoli vostri, al tempo per voi. Non cercate voi stessi, non c'è un cazzo da trovare.  Davvero, in sincerità, non siete interessanti at all, avete la banalità tatuata nell'anima, fatevene una ragione. Prendetevi cura di vostro figlio, non ritenete che sia compito dello Stato, risparmiategli quel lavaggio del cervello. Evitate che diventi il solito cerebroleso che va in bicicletta durante una tempesta di neve, o che pensa di vivere nel paese più felice del mondo. Siate il suo maestro, ma non mentite, siate voi stessi, nel bene o nel male. Forse vi amerà, forse vi odierà. Forse crescerà bene, forse male. Forse un giorno manderà a puttane il sistema. Ma sarà vivo.


sabato 19 luglio 2014

Vola vola Topolino - Riscrivere una storiella inventata da bambino

"Tutti i grandi sono stati bambini una volta, ma pochi di essi se ne ricordano" (Antoine De Saint-Exupery)

Qualche mese fa, scartabellando tra vecchi quaderni nella casa dei miei genitori, è saltata fuori una storiella che avevo scritto all'età di cinque anni. Stampatello, calligrafia da bimbo, e un "Bravissimo +" della maestra (forse). Colpito dal curioso ritrovamento, ho scattato una foto. Voilà, ecco qui il testo originale.



Trascrivo fedelmente in basso il testo della storiella.
  
VOLA VOLA TOPOLINO
Un giorno Topolino si comprò un aereo. Volava in basso. Ma quanto è basso! La mattina dopo l'aereo non c'era più. Guardò nei libri e lo trovò. C'era scritto che era un ladro di aerei. Appena si fece notte Topolino andò nella casa del ladro. Appena stava per uscire, Topolino si avvicinò. Dove hai nascosto il mio aereo? Non te lo do'. Dimmelo, altrimenti ti rompo la testa. Vediamo. Vuoi vedere che te la rompo? Vuoi vedere che non me la rompi. Oh, no. Hai visto che non me la rompi. Riproviamo. Bum. E Topolino ritrovò l'aereo e volò felice e contento.
FINE

Ieri avevo un bel po' di tempo libero, e per combattere la noia sfogliavo le foto nella memoria del mio smartphone. La storiella è venuta fuori di nuovo. L'ho riletta, e ho avuto un'idea. Perchè non riscriverla? Una versione aggiornata, diciamo. Beh, l'ho fatto. In basso potete leggere la versione 2014 della mia storiella infantile.

VOLA VOLA TOPOLINO
In fondo Topolino lo sapeva che qualcosa sarebbe andato storto. Ogni suo timido tentativo di rivalsa si era sempre rivelato un clamoroso flop. Perchè quella volta le cose sarebbero dovute andare in modo diverso?  Quando aveva investito tutta l'eredità di famiglia nel brevetto di volo e soprattutto nell'acquisto del suo Piper J-3, monomotore ad ala alta, aveva pensato che quella sarebbe stata finalmente l'occasione di riscatto dai tanti suprisi subiti. Tutti quelli che lo ritevano un disadattato, un idiota, un povero sciocco da deridere e basta, si sarebbero ricreduti. Ahimè, si sbagliava.
Era bastata la prima sessione di volo con il suo lucidissimo aereoplano color giallo purè per capire che qualcosa non andava. L'altimetro faceva le bizze, il ronzio sordo del motore aveva delle pause improvvise che gli gelavano il sangue facendogli pensare il peggio, la barra di comando non sembrava tarata con l' angolo di inclinazione degli alettoni, causando sbandamenti preoccupanti. L'areo volava basso, ogni tentativo di raggiungere quote decenti  si traduceva in un'anarchia degli strumenti di rilevazione e in vibrazioni di un'intensità insostenibile. Topolino aveva sognato di volare al di sopra delle nuvole, di guardare il mondo dall'alto e riderci su, schernendo le miserie della sua vita di ogni giorno. Ed era stato tradito dalle sue ambizioni.
Un giorno il suo Piper sparì dalla corsia cinquantasette del piccolo aeroporto civile in cui era parcheggiato. In preda al panico, Topolino cominciò a guardarsi intorno, ma quelli che vedeva nelle piste adiacenti erano aerei ben diversi dal suo. Avrebbe voluto rivolgersi a qualcuno ma l'aeroporto sembrava deserto. Digitò sul cellulare il numero della polizia, ma notò qualcosa all'interno della cabina di controllo che lo spinse a metter giù la chiamata. Il registro dei voli. Era aperto. Stranamente aperto. Si recò nella cabina e vide che la sigla dell'ultimo aereo registrato per una sessione di volo era la sua. La firma al fianco, invece, no. Ma conosceva bene quella firma. La rabbia gli salì dallo stomaco alle tempie fino a farlo quasi sbandare.
Sapeva dove recarsi, lo sapeva bene. Percorse dunque a passo rapido i trecento metri che lo separavano dalla casa del controllore di volo. E lo vide, il ladro di aerei, seduto su una sedia di vimini con una lattina di birra in mano. Dal cappello a tesa larga che portava in testa spuntavano ciuffi ribelli su una fronte alta e grinzosa, con sopracciglia folte e occhi neri grandi e sornioni. Continuava a sorseggiare la sua birra sputando a volte a terra. Quando si accorse di Topolino, sorrise con fare strafottente, e tirò su il cappello per un istante per salutarlo con grottesca riverenza.  Perchè hai preso il mio aereo, chiese Topolino. Il ladro scrollò le spalle con sufficienza. Avevi lasciato la chiave dell'abitacolo, e avevo voglia di fare un giro.
In quella risposta, e nella risata che seguì,  Topolino lesse un micidiale concentrato di decenni di insulti, soprusi e inganni. Rivide gli sghignazzi dei compagni di scuola, e rivisse i momenti terribili in cui il nome con cui tutti ora lo conoscevano - Topolino- gli era stato affibbiato. Colpa delle orecchie a sventola, della vocetta stridula e della statura minuta. Una vita con quel soprannome grottesco. Un uomo additato da tutti come un topo.
Topolino aveva con sè una chiave inglese e la strinse forte con le dita fino a farsi male. Respirò a fondo. Dove lo hai nascosto, chiese.   Il ladro bevve un altro sorso di birra e sputò di nuovo a terra. Poi con un gesto teatrale tirò su la manica del suo camicione di flanella e diede un'occhiata al suo orologio da polso. Se torni domani a quest'ora, forse te lo dico. Topolino sollevò la chiave inglese e il ladro scoppiò in una risata esagerata. Cosa diavolo vuoi farci con quella, esclamò.
Ma forse aveva sottovalutato la rabbia di Topolino. Dopotutto, aveva a pochi metri da lui la vittima di un furto. E la stava schernendo. La chiave inglese lo colpì sulla fronte facendolo stramazzare a terra. Quando rinsavì da quella fitta di dolore, vide il viso piccolo e feroce di Topolino a pochi centimetri da lui, e il desiderio di continuare a schernirlo fu più forte del timore di una sua reazione. Guarda che non mi hai fatto niente, esclamò con una risata impudente.
Il colpo successivo fu più forte, si sentì come travolto da un treno frecciarossa mentre la testa gli girava di quasi centottanta gradi al punto di rischiare di spezzare la spina dorsale. Sentì  il sapore ferroso nel sangue in bocca, e il dolore acuto dei nervi del collo che cercavano a fatica di ristabilire una posizione di riposo. Sebbene la sua reazione immediata sarebbe stata quella di rimettersi in piedi e torcere il collo di quel dannato nanerottolo, il ladro sapeva che le sue gambe tremolanti non sarebbero state in grado di assecondarlo. E il terrore che quella chiave inglese potesse avventarsi nuovamente su di lui lo spinse a sussurrare un pista ventisette con rancorosa mestizia.
Da quel giorno Topolino tornò a volare con una consapevolezza diversa. Quella di non essere più una vittima del mondo che avrebbe voluto osservare dall'alto. Perché aveva finalmente imparato a guardare le persone in faccia. E a reagire. Volare a bassa quota non lo irritava più.  Spingeva su al massimo la barra di comando, e quando le vibrazioni salivano doveva posizionarla giù, restando a bassa quota. E allora rivolgeva il suo sguardo oltre il cupolino di vetro, e ammirava le nuvole e gli squarci di cielo terso che lui, così come i suoi nemici del mondo grottesco che lo aspetta poco in basso, non sarà mai in grado di raggiungere. Con serenità e malinconia. 
FINE

Tutto qui. Non è granchè, ma mi sono divertito a riscriverla. E vorrei ringraziare quel bambino che oltre un quarto di secolo fa mi ha dato oggi l'ispirazione per farlo.  


sabato 5 luglio 2014

I tronisti 2.0 del Movimento 5 Stelle


Negli ultimi anni una strana metamorfosi ha colpito i tronisti degli show di Maria De Filippi. Per intenderci, quei mascelloni tutti pettorali e bicipiti che riempivano i palinsesti Mediaset del primo pomeriggio, corteggiati secondo stilemi medievali da un esercito di sciacquette in cerca di popolarità.
La metamorfosi si è espressa con l'asciugamento di gran parte della massa muscolare, l'ingentilimento dei tratti somatici, il sensibile miglioramento della dizione, e soprattuto, l'inculcamento di massicce dosi di nozionismo politico. Ed eccoli lì, i tronisti 2.0. La matrona Maria De Filippi rimpiazzata dall'invisibile capocomico Gianroberto Casaleggio. Amministratore delegato della Caseggio Associati. L'unica azienda di marketing al mondo con una sua lobby -il Movimento 5 Stelle- in un parlamento nazionale.
Inizialmente costretti a rimanere nell'ombra, dopo il cambio di strategia della Casaleggio Associati si son trasformati in belve a briglia sciolta, affamati di riflettori e celebrità. Strepitosi venditori del loro prodotto politico. Ce ne sarebbero da citare tanti, ma in questo post ci limitiamo a tre figure tra le più popolari ed efficaci: Alessandro Di Battista, Andrea Scanzi, Luigi Di Maio. Belli, intelligenti (?), intellettualmente puri (???). Tre asset fondamentali per il partito azienda di Gianroberto Casaleggio. Esaminiamoli uno ad uno.

Alessandro Di Battista
Trentasei anni, dal 2013 vicepresidente della commissione Affari Esteri della Camera. Non si capisce bene cosa abbia fatto nella vita prima del suo exploit politico. Il suo curriculum vanta generiche collaborazioni con organizzazioni no profit e progetti educativi e produttivi in Congo e Guatemala. Per carità, ammirevole. Ma qualche dettaglio in più, no? Anche se davanti alle telecamere inumidisce gli occhi con consumata abilità quando afferma che "la cosa che gli piace di più al mondo è scrivere", ha all'attivo soltanto qualche post sul blog di Grillo e un reportage sui sicari colombiani commissionato dallo stesso Casaleggio, e che ha forse venduto due o tre copie nonostante lo stesso editore continui periodicamente a piazzarne i banner nella home page del blog di Grillo dopo ogni apparizione televisiva del nostro. Parlamentare dall'attività politica praticamente nulla ( a sentire il "dissidente" Orellana, si sveglia solo se c'è qualche telecamera intorno),  urlatore con l'aplomb di rivoluzionario d'altri tempi ("Qui fuori gli italiani hanno fame e voi gli avete tolto il pane!"), esagitato ma non troppo per non turbare la sensibilità delle casalinghe di Voghera che nella classifica di gradimento lo hanno ormai sostituito al vecchio Costantino Vitagliano. Dispensatore di ovvietà ("In questo paese un condannato non può fare il bidello ma può sedersi a legiferare!"), abile elargitore di sorrisetti se inquadrato in primo piano, risibile predicatore dell'utopia della democrazia diretta da attuarsi nei server della Casaleggio Associati, è un personaggio fondamentalmente inetto, prodigatore del nulla,  che a volte la spara talmente grande ("La mafia è Civati!") che persino il suo capocomico è costretto a dilazionarne le apparizioni televisive. 

Andrea Scanzi
Giornalista del Fatto Quotidiano. Ma anche autore teatrale, attore e scrittore. Si intende di politica, musica, teatro, calcio, automobilismo, letteratura, cinema, vini e cani. E anche di altro che non ci sovviene. Non è in Parlamento, non è neanche iscritto al Movimento 5 Stelle, allora perchè lo includiamo tra gli asset della Casaleggio Associati? Siamo proprio stupidi.
A sentir lui, un giornalista vero, scomodo, che non si piega, che racconta la verità e mantiene la sua indipendenza intellettuale senza mai scendere a compromessi. Divertente.
L'uomo che "sfancula Grillo ogni giorno", ma nello stesso articolo non dimentica mai di dire che il PD in circostanze analoghe ha fatto peggio. Emblema del giornalismo politico ridotto ad una gara al ribasso, che punta direttamente alla pancia degli italiani senza mai innalzarsi dalla sterile "guerra tra bande". Penna piuttosto scialba, dal sarcasmo prevedivile e ripetitivo che a tratti ricorda il peggior Jerry Calà (una perla per tutte, Renzi Cipì come Citrullino Pingue), è decisamente più garbato in televisione, forte di un innegabile talento nel contraddittorio che permette di dire nulla fingendo di  avere una valanga di contenuti.
Iper-narcisista per sua esplicita ammissione, spende un sacco di tempo nello smontare gli argomenti di chiunque critichi il suo atteggiamento o i suoi interventi o il suo "pensiero". Ma un giornalista  "vero" non dovrebbe avere ben altri pensieri che sprecare tempo con chi se la prende con lui?

Luigi Di Maio
Neanche ventotto anni, vice-presidente della Camera. Il più giovane, il più intelligente e il più bello (anche se con le luci giuste Di Battista è più fotogenico nei primi piani). Studente di giurisprudenza (la laurea che non arriva è l'unica "macchia" della sua carriera), e attivista della prima ora del Movimento 5 Stelle, ha dalla sua un atteggiamento pacato e razionale che bilancia perfettamente i toni sopra le righe di Beppe Grillo e colleghi, estendendo il consenso elettorale a quella fascia di popolazione infastidita dalle parolacce del comico genovese. Sempre elegante, faccia da bravo ragazzo, l'uomo che le casalinghe di Voghera vorrebbero come genero. L'inattesa cadenza partenopea che si insinua in alcune esclamazioni gli restituisce un'immagine di scugnizzo ripulito che lo rende più umano e "vicino" alla gente.  Abilissimo nel contraddittorio televisivo, Luigi Di Maio è una strepitosa macchina del consenso che non ha eguali nel Movimento. Per questo è una delle figure più ricorrenti nei talk show televisivi. A volte bisogna addirittura riflettere una decina di secondi prima di rendersi conto che non c'è poi sostanza nei suoi argomenti, improntati alla solita scontata condanna delle brutture della malapolitica e a proposte generiche e irrealistiche come il reddito di cittadinanza. Ma la maggiorparte del pubblico televisivo non ha voglia di riflettere quella decina di secondi, si sa.

Saranno tali tronisti 2.0 in grado di far del bene al Paese? A voi l'ardua sentenza.

giovedì 5 giugno 2014

I mondiali un'altra volta


Tra una settimana comincia il mondiale brasiliano. Di già? Sembrano trascorsi pochi mesi dal trascinante Waka-Waka di Shakira e le lamentele per gli assordanti vuvuzela sudafricani, ed invece sono anni. Quattro anni, per la precisione. Con famigerata puntalità torna quindi l’evento sportivo più atteso e seguito al mondo. E con esso il frastornante tran tran mediatico, lo straripante côté pubblicitario, le infinite e spesso sterili polemiche che vanno dalle presunte convocazioni errate agli arbitraggi scandalosi passando per le tette rifatte della soubrette compagna del bomber del momento. Ma soprattutto, si tirano fuori le bandiere impolverate e torna la palpabilissima atmosfera di schiamazzi e cori goliardici, narcisismo nazional-popolare, birrozze e inni cantati a squarciagola con enfasi baritonale, maxischermi e sfilate di giubilo. 
Poco conta se si è appassionati di calcio o meno. I mondiali entusiasmano e spaventano anche un po’. Perchè ben più di compleanni o anniversari di altro genere, i mondiali scandiscono in maniera inesorabile le tappe della nostra esistenza. 
C’è il mondiale della nostra infanzia, quello vissuto con i genitori e gli zii, in cui si rimane ipnotizzati dalle prodezze di quegli omoni scattanti che pero' non sono acrobatici come i personaggi di Holly e Benji. C’è il mondiale della prima adolescenza, con il tifo che si fa piu’ intenso e con esso il sogno della vittoria, e la fantasia a briglia sciolta che ti catapulta direttamente sul campo, al centro dei riflettori, segnando dopo aver dribblato gli avversari come Baggio nel ’90 e con la curva che si scioglie in boati di gioia solo per te. 
C’è il mondiale dei sedicianni, in cui gli umori e le canzoni del periodo contano piu’ delle azioni di Vieri, e, chissà perchè, porta con sé il sentore delle serate in riva al mare, il ricordo struggente degli sguardi liquidi e dei sorrisi e dei baci sofferti sognati o negati.
C’è il mondiale dei vent’anni, il mondiale della goliardia, quello in cui finalmente si puo’ festeggiare in macchina con gli amici strombazzando il clacson a gogò. 
C’è il mondiale dei venticinque, quello della laurea o quasi, quello che distrae dalle fastidiose domande esistenziali su cosa fare da grande mentre si fa il conteggio di quanti calciatori siano piu’ giovani o piu’ vecchi di te.   
C’è il mondiale dei trent’anni, quello in cui l’entusiasmo permane ma ad ogni vittoria si festeggia un po’ di meno, perchè c’è chi ha ancora la testa di venti ma chi deve tornare a casa presto per badare al pupo. 
E tutti gli altri mondiali a venire. Che sembrano avere date fantascientifiche eppure arrivano cosi’ presto.
Indissolubilmente legati all’estate, i mondiali sono anche sole, mare, risate, zanzare, barbecue, vino bianco e flirts al chiaro di luna. I mondiali sono un potente catalizzatore degli umori che la stagione estiva, da sempre emblema della crescita e del passaggio a volte turbolento da una fase della vita all’altra, si porta appresso. E come tante estati della nostra vita, il piu’ delle volte lasciano ferite; fosse pur solo per motivi statistici, quasi sempre i mondiali si perdono. Un maldestro errore della difesa, un rigore sbagliato e si è fuori dalla competizione. L’entusiasmo si sgonfia come una mongolfiera colpita da un proiettile vagante. Si continua a seguire le altre partite, ma non è piu’ la stessa cosa. 
I mondiali sono occasione di bilanci. Dov’ero il mondiale scorso? Con chi ero, cosa facevo? Cos’è cambiato? Domande la cui risposta, volenti o nolenti, ha spesso un retrogusto amaro. Quello del tempo che passa, che a volte sfugge dalle dita come sabbia fina e si ha l’impressione che non ci abbia poi lasciato granchè. Così come differenti scelte tattiche o una difesa leggermente più attenta o addirittura un tiro in porta mancato per pochi centimetri avrebbe portato ad un esito della competizione completamente diverso, la delusione per il mondiale perso riecheggia il rimpianto per cio’ che eravamo o il rimorso per cio’ che avremmo potuto essere (o avremmo potuto fare) ma poi non siamo stati (o non abbiamo fatto).
Ma finchè dura, l’euforia cancella le domande più annose. Tra una settimana saremo tutti li’ a tifare e a cantare cori a squarciagola. Lottando insieme agli eroi di Prandelli affinché il momento dei rimpianti non arrivi troppo presto.  

venerdì 30 maggio 2014

Il gatto e la volpe


Quanta fretta, ma dove corri, dove vai ?
Se ci ascolti per un momento, capirai,
lui è il gatto, ed io la volpe,
stiamo in società, di noi ti puoi fidar.
Puoi parlarci dei tuoi problemi, dei tuoi guai
i migliori in questo campo siamo noi
è una ditta specializzata
fai un contratto e vedrai
che non ti pentirai...
Noi scopriamo talenti e non sbagliamo mai
noi sapremo sfruttare le tue qualità
dacci solo quattro monete
e ti iscriviamo al concorso
per la celebrità...!
Non vedi che è un vero affare
non perdere l'occasione
sennò poi te ne pentirai.
Non capita tutti i giorni
di avere due consulenti
due impresari, che si fanno
in quattro per te...!
Avanti non perder tempo firma qua
è un contratto, è legale, è una formalità
tu ci cedi tutti i diritti
e noi faremo di te
un divo da hit parade !
Quanta fretta, ma dove corri, dove vai ?
Che fortuna che hai avuto ad incontrare noi
lui è il gatto ed io la volpe
stiamo in società, di noi ti puoi fidare...
di noi ti puoi fidar...
di noi ti puoi fidar...

(Edoardo Bennato)


giovedì 10 aprile 2014

First Kiss

Dieci coppie di sconosciuti contattate per baciarsi. Un po' di naturale imbarazzo, qualche battuta e risatina nervosa, e alla fine il bacio.
Il breve video di Tatia Pllevia è, a nostro avviso, uno straordinario saggio sulla solitudine della società di oggi. Sulla ricerca di emozioni semplici e forti per evadere dalla monotonia di un'esistenza omologata e neutra come lo sfondo su cui sono ripresi i soggetti.
Vero, toccante e sottilmente provocatorio. Perché ci ricorda con semplicità cosa voglia dire essere umani. E non è poco.


sabato 8 marzo 2014

La grande bellezza, l'Oscar e il circo mediatico

 
Insomma alla fine Paolo Sorrentino ce l'ha fatta.
A nove mesi dalla delusione Cannes, dove La grande bellezza fu completamente ignorato dalla giuria presieduta da Steven Spielberg, il regista napoletano si è preso la sua bella rivincita sul palcoscenico più celebre, quello che scrive il tuo nome nella storia, che lascia un titolo indelebile per il resto della carriera.
Da domenica scorsa Paolo Sorrentino è  il Premio Oscar Paolo Sorrentino. Altro che Commendatore, Cavaliere, Onorevole o Avvocato. E Premio Oscar lo sarà sempre, dovesse girare d'ora in poi solo ciofeche.
Non è il suo film migliore, La grande bellezza. Almeno Il divo e il sottovalutatissimo L'amico di famiglia gli sono superiori. E' un film fiero e fin troppo sicuro del suo fascino, che a tratti dice troppo e a tratti troppo poco, che non graffia come vorrebbe, che gira un po' a vuoto come il protagonista Jep Gambardella nella città eterna, "bella e indifferente come una diva morta", tra qualche citazione letteraria e fenicottero digitale di troppo. Ma è anche un'opera che seduce, che commuove e fa riflettere, che a tratti brucia d'incanto (basti pensare all'incontro inatteso con Fanny Ardant, o all'episodio della bambina artista, o allo sguardo vitreo della Ferilli viva e morta). E' un film massimalista e intimo allo stesso tempo, un connubio che  in Italia non si vedeva da tantissimi anni.
Come ha reagito l'Italia alla notizia dell'Oscar? Naturalmente da domenica sera sono tutti grandi amici di Paolo Sorrentino. Persone che neanche l'avevano sentito nominare o al più lo confondevano con il coetaneo collega Matteo Garrone, si dichiarano adesso orgogliosi e ne parlano come di un affezionato vicino di casa che hanno visto crescere. E  La grande bellezza è un capolavoro per tutti, anche per quelli che non l'hanno visto, o per quelli che l'hanno visto e non ci hanno capito una mazza. Il grande circo mediatico italiano, che va dalle tv e i principali giornali ai social network, fa gara a chi la spara più grossa (o semplicemente, più banale). Ridicole strumentalizzazioni politiche (un plauso va al solito inossidabile Sallusti, che ha affermato "Ci son voluti gli americani, direi il mondo intero, per riconoscere che Mediaset non è l’associazione a delinquere immaginata dai magistrati") , patriottismo spiccio, orgoglio nazionale rinato, sermoni sul grande valore dell'Italia e degli italiani, sulla loro capacità di riscatto, sulla bellezza dell'Italia rappresentata nel film. E naturalmente i bastian contrari, quelli che dicono no, non avete capito niente, è un film critico sull'Italia, un film che mostra la decadenza del nostro Paese, con quelle personcine così vuote che pensano solo ai trenini e quegli intellettuali di sinistra così snob e quei preti che pensano a cucinare invece che a pregare.  Quando basta scendere un pelo sotto la superficie per capire che l'ambizione del film di Sorrentino va ben oltre le nostre misere scaramucce italiote, che La grande bellezza non è un film sull'Italia ma sulla società occidentale, sulla solitudine e sul disorientamento, sul rimpianto e la ricerca di un senso nelle cose.
E a vincere l'Oscar non è stata l'Italia, ma un grande talento italiano. E' diverso.
Ma da Nord a Sud hanno tutti acclamato il film di Sorrentino, almeno fino alla sua messa in onda su Canale 5 di martedì sera, quando lo share è crollato del cinquanta per cento dalla prima alla seconda parte, con il pubblico mariadefilippizzato che si aspettava forse una sorta di kolossal  di cartapesta à la Tornatore e si è trovato davanti un'opera cupa e meditabonda e certo non di immediata fruizione.
Nella banda di cialtroni che non riesce proprio a tener la bocca chiusa, tra il distributore Rossella che si prende parte del merito della vittoria e la Ferilli che frigna perchè non l'hanno invitata alla premiazione,  tra Renzi che ne approfitta per la solita passerella politica e Alemanno che si accorge fuori tempo di come sia importante investire nella bellezza di Roma, il più silenzioso, umile e autentico è stato proprio lui, Paolo Sorrentino.
Un quarantenne con faccione anonimo da impiegato comunale, che si ritrova  al Dolby Theatre di Los Angeles goffamente ingessato in uno smoking al fianco di centinaia di star hollywoodiane dal look studiatissimo, che viene chiamato sul palco e ringrazia impacciato con un inglese da ragazzino di prima media ripetendo una lista che sembra studiata a memoria. E che non si porge a orgoglioso rappresentante del suo Paese ma menziona i suoi idoli dell'adolescenza e gli affetti più cari, moglie, familia e genitori. Per poi sparire dai riflettori.
Talento e umiltà. Sono questi gli italiani che ci piacciono e che vorremmo vedere più spesso. Sono loro la grande bellezza.



sabato 15 febbraio 2014

Il girotondo di 8½

Forse nessun altro film come di Federico Fellini è riuscito ad scavare tanto a fondo nella confusione dell'essere umano, perso nel suo andirivieni di pensieri tra sogno e memoria,  il bisogno di affetto e i vezzi megalomani,  i  tormentoni freudiani, il desiderio di fuga e il terrore della solitudine.
Come Marcello Mastroianni, ognuno di noi è il regista di un film di cui non conosce il copione. Timoroso delle aspettative del pubblico, insicuro nelle proprie ambizioni, capriccioso, spavaldo solo in apparenza,  in continua balia degli sbalzi d'umore. 
Eppure "la vita è bella, viviamola insieme", dice Marcello. La vita è un improvvisato girotondo sullo sfondo di una costruzione  che forse non sarà mai completa, che forse cadrà a pezzi. E come ogni girotondo, è destinata a non portarci da nessuna parte, ad estinguersi come le note del flauto del ragazzino con berretto da marinaio che, all'affievolirsi delle luci dei riflettori, esce pudicamente dalla scena.
Ma nel girotondo ci prendiamo per mano, scherziamo sull'improbabile bombetta dei clown, ridiamo e saltelliamo, trascinati dalla musica di Nino Rota che si imprime nel cuore e nella memoria.  Finché dura, si può essere felici.


venerdì 24 gennaio 2014

M'ha fregato cent'euro 'sto figlio di...

Gennaro Morelli era un ragazzo solare, aperto, esuberante, spiritoso e dalla risata contagiosa. Una di quelle persone che è sempre un piacere avere al proprio fianco, che è in grado di risollevarti il morale nelle giornate più dure. Una di quelle persone con il dono di piacere a tutti. Aveva però una caratteristica alquanto bizzarra: quando incontrava un amico, si immobilizzava per un istante fissandolo con occhi spiritati, poi batteva a terra il  piede destro a mo’ di soldato, allungava un braccio verso di lui ed esclamava: “M’ha fregato cent’euro ‘sto figlio di puttana!”. Dopodiché lo abbracciava con affetto cameratesco e con sonore pacche sulla spalla, gli chiedeva di lui e che fine avesse fatto, e i due amici se ne andavano a zonzo insieme tra risate fragorose e allegri spintoni.
Non era assolutamente vero che tale amico avesse usufruito delle finanze di Gennaro. Era solo il suo modo di salutare. Molti dicono: “Ohi ciao, grande!”. Gennaro diceva: ”M’ha fregato cent’euro ‘sto figlio di puttana!”. All’inizio gli amici erano abbastanza stupiti da quell’espressione e gli chiedevano un po’ piccati a cosa diavolo si riferisse. Ma presto impararono ad apprezzarla; era divertente, insolita, una caratteristica unica che faceva di Gennaro una persona ancora più speciale.
Un giorno Gennaro aveva spiegato l’origine di quella sua curiosa singolarità, che risaliva ai tempi in cui era studente alla facoltà di economia. Una volta era malato e con la febbre a quaranta, chiuso in casa senza la forza di alzarsi dal letto. Nessuna medicina e frigorifero vuoto; era il suo turno di fare la spesa ma naturalmente non l’avrebbe fatta. Per di più, aveva notato poco prima che dal suo portafoglio era sparita una banconota di taglio elevato. Aveva iniziato a sospettare del suo inquilino Giuseppe, che forse aveva rubato i suoi soldi e lo aveva lasciato lì a morire di fame e di influenza. Ma improvvisamente Giuseppe era rientrato a casa con due buste del Tigre di cui una piena di cozze calabresi. E poi gelato, caramelle, nutella e tanto altro. In più, gli aveva riversato sul letto una busta di scatolette di Efferalgan, Tachipirina e Zitromax. Giuseppe aveva preparato l’impepata di cozze con contorno di patate fritte e ketchup, e aveva servito il suo amico a letto. Mentre si ingozzava di cozze e ketchup e riacquistava le energie annebbiate dal febbrone da cavallo, Gennaro aveva rivolto a Giuseppe uno sguardo pieno di sincera gratitudine esclamando: “M’ha fregato cent’euro ‘sto figlio di puttana!”. E i due amici erano scoppiati a ridere all’unisono.
Da quella volta Gennaro non era riuscito ad evitare di rivolgersi così a qualsiasi amico che era contento di incontrare. Un modo unico per esprimere un affetto sincero e privo di stucchevoli smancerie.

Ma un brutto giorno le cose cambiarono. Successe quando Gennaro e i suoi colleghi dell’aziendina di pomelli da lavandino in cui lavorava uscirono a prendere una birra in un pub irlandese, e per la prima volta si unì anche Saverio, il loro superiore. Era questi un ometto sulla quarantina calvo e dall’aria austera, che di rado scambiava la minima confidenza con i suoi impiegati. Era sempre serio e non rideva mai. Ma con grande sorpresa, quella sera Gennaro e colleghi scoprirono un Saverio inedito e sorprendente. Bastavano un paio di birre perché lui si lanciasse in una serie di spassosissimi aneddoti sui suoi viaggi di lavoro o sulle sue conquiste erotiche di quando aveva dieci anni di meno e qualche capello in più. Alla terza birra si dedicò poi a riuscitissime imitazioni dei colleghi non presenti, che fecero letteralmente spanciare dal ridere Gennaro e gli altri. Poi nel locale misero  su una Riverdance e Saverio si tuffò in pista ancheggiando con inattesa perizia al ritmo di quel ballo appreso quand’era studente erasmus a Dublino. Un personaggio straordinario, insomma, una vera rivelazione!
Quando il giorno dopo Gennaro entrò in ufficio, Saverio lo salutò con una eloquente e complice alzata di sopracciglia che stava a significare: ”Grande serata ieri, eh?”. E Gennaro lo fissò, battè il tacco a terra e indicandolo con il braccio esclamò: ”M’ha fregato cent’euro ‘sto figlio di puttana!”. L’espressione sul viso di Saverio mutò all’istante. Gli diede subito le spalle e si allontanò. Gennaro, esterrefatto, si chiese come diavolo gli fosse uscito quel saluto con lui, che dopotutto era sempre il suo capo. Con tragica preoccupazione pensò che Saverio avesse potuto trovarci un riferimento al fatto che la sera prima Gennaro gli aveva offerto le ultime tre birre perché Saverio non aveva banconote di piccolo taglio. Lo seguì dunque per il corridoio, lo fermò e si scusò. Gli spiegò che quell’espressione era solo un suo modo di salutare, che diceva quella cosa a tutti i suoi amici, che non si riferiva a nulla di specifico. Ma Saverio lo liquidò con un gelido “E’ la scusa più idiota che io abbia mai ascoltato”.

Da quel giorno qualcosa cambiò in Gennaro. Continuò per un po’ a salutare i suoi amici con il solito “M’ha fregato cent’euro ‘sto figlio di puttana!”, ma con tono quasi dimesso, senza entusiasmo, senza neanche battere il piede a terra. E poi smise del tutto. La sua colorita espressione si convertì in un misero Cia... biascicato a labbra socchiuse. Gennaro non sorrideva più, non riusciva più a trasmettere quella straordinaria gioia di vivere che lo rendeva così popolare tra gli amici.
A lavoro Saverio non gli dava più alcuna confidenza, a volte evitava il suo sguardo in modo quasi ostentato. Quando l’azienda si trovò a fronteggiare le prime avvisaglie della crisi finanziaria, Saverio sapeva già qual era il primo nome da depennare nella lista dei suoi dipendenti.
E così Gennaro perse il lavoro. Prese a trascorrere intere giornate chiuso in casa davanti alla televisione a far nulla, e se un amico passava a trovarlo lo accoglieva svogliato, non gli offriva neanche un bicchier d’acqua e lo lasciava parlare senza ascoltarlo. Era sparito il suo saluto tipico. E con esso, sembrava sparito Gennaro stesso.
I suoi amici non ce la facevano più a vederlo così, si chiedevano dove fosse finito il suo sguardo scintillante e la sua battuta pronta, e volevano che tornasse quello di prima. Ma non sapevano proprio come aiutarlo. Finché Fabiola, una ragazza che lo conosceva dall’infanzia e che era da poco laureata in psicologia, ebbe un'idea. “Dobbiamo far rivivere la situazione che lo ha portato ad essere quello che era e a dire quel che ha detto, disse. Dobbiamo far sì che lui ci guardi e pensi di nuovo con gioia: ‘M’ha fregato cent’euro ‘sto figlio di puttana!’ E’ il solo modo di farlo tornare ad essere quello di un tempo“.
Nonostante i ragionevoli dubbi, gli amici di Gennaro decisero di seguire il piano di Fabiola. Una domenica mattina un certo Michele si recò dunque da Gennaro, con notevole fatica riuscì a scuoterlo dalla sua indolenza e lo convinse a venir fuori con lui per un giro in macchina. Con una vecchia Cinquecento andarono dunque fuori città, su e giù per le colline. Si fermavano davanti a prati dove pascolavano centinaia di pecore e Michele diceva: “Guarda Gennaro, guarda come sono belle, senti che delicato profumo di stalla e letame”, ma Gennaro sembrava non avere alcuno stimolo, lo seguiva come uno zombie. “Ho un po’ fame, Michele, sono le due”. “Ma lascia perdere il mangiare, Gennaro, godiamoci il sole e la natura, che cazzo!”. E continuavano a gironzolare per le campagne. Data la sua reattività pari a quella di un gufo imbalsamato, non fu difficile sfilargli cento euro dal portafogli senza che se ne accorgesse. Nel frattempo, Fabiola e gli altri avevano comperato cinque chili di pecora imporchettata, ci avevano infilato dentro due pernici e l’avevamo messa a rosolare lentamente allo spiedo bagnandola in un soffritto di lardo di Colonnata. Poi avevano tritato due chili di interiora di agnello che avevano cotto nel burro e nella senape infilandoci croste di maiale arrosto come fossero cialde in una coppa gelato. Al calar del sole, Michele aveva dunque svoltato verso casa di Fabiola. “Passiamo a prendere Fabiola, aveva detto”. “Michele, sono le sette, io ho un po’ fame, non mi importa nulla di passare da Fabiola”. “Ma smettila!”.
Un odore penetrante di pecora arrosto invadeva l’intera scalinata del palazzo di Fabiola. Michele e Gennaro giunsero dunque al suo appartamento, e… sorpresa! Tutti gli amici erano lì, davanti ad un tavolo di pietanze fumanti. Fabiola si avvicinò sorridente a Gennaro che però non sembrava affatto colpito. “Sappiamo che hai una fame da lupi, non hai mangiato tutto il giorno! Abbiamo quindi pensato di preparare questo spuntino per te. Ma non credere che ti stiamo facendo un regalo, è a spese tue, sai? Controlla il portafogli, Michele ti ha fregato cento euro! Siamo proprio dei figli di puttana, eh?”.  Fabiola si aspettava che sul suo viso inespressivo si riaccendesse il sorriso di un tempo, che battesse poi il piede a terra e allargando le braccia a semicerchio urlasse a squarciagola: “M’hanno fregato cent’euro ‘sti figli di puttana!”. E invece Gennaro, impassibile, diede uno sguardo rapido a quella tavolata di carne arrosto immersa nel grasso sfrigolante. “Sono pescetariano”, disse. “Siete miei amici, dovreste saperlo”.  

La serata terminò lì, con l’imbarazzo dei vari amici che infagottavano le pietanze nella carta stagnola mentre Michele riaccompagnava Gennaro nel suo appartamento. Dopo quella serata, nessuno vide più Gennaro. Le serrande di casa sua erano sempre chiuse, i vicini non sapevano nulla, era anche sparito da facebook.
Spesso parlavano di lui, a cena insieme lo ricordavano quand’era felice e pieno di vita. Secondo alcuni era barricato in casa, secondo altri era fuggito all’estero. Ma pur nella sua apparente depressione, aveva trovato il modo di salutarli. La famosa sera della cena non riuscita, approfittando forse della distrazione mentre impacchettavano le cibaglie intonse, era riuscito ad infilare le dita nel portafoglio di ognuno di loro. “C’ha fregato cent’euro quel figlio di puttana!”.


domenica 19 gennaio 2014

La verità sul caso Harry Quebert



 

Un bel libro è un libro che dispiace aver finito, insegna l’anziano Harry Quebert, mostro sacro della letteratura americana, al giovane Marcus Goldberg, talentuoso scrittore travolto dallo strepitoso successo della sua opera prima e ora vittima del classico blocco da pagina bianca. Un’amicizia dal tono paterno coltivata per oltre un decennio, da quando Marcus era alunno del grande Harry Quebert all’Università di Burrows e il celebre scrittore ne aveva intuito lo straordinario talento. Ma un giorno viene rinvenuto uno scheletro sepolto nei pressi della villa di Harry Quebert, ad Aurora, nel New Hampshire; si tratta di Nola Kellergan, una ragazzina di quindici anni scomparsa oltre trent’anni prima e di cui non si era saputo più nulla. Harry viene accusato dell’omicidio della ragazzina, con cui rivela di aver vissuto all’epoca un’intensa e struggente storia d’amore che è anche stata ispirazione per la sua opera di maggior successo, Le origini del male. Marcus, convinto dell’innocenza del suo mentore, decide di indagare insieme alla polizia locale. E inizia finalmente a scrivere la sua opera seconda, incentrata sul caso Quebert, allo scopo di difendere il suo amico e riabilitarne la reputazione…
Molti dei best-seller di oggi sono carta straccia. Hanno un successo tanto clamoroso quanto effimero, pilotato da scientifiche tecniche di marketing, ma destinati però a finire nell’oblio più assoluto nel giro di pochi mesi. Altri, invece, hanno le carte in regola per sedimentare nella memoria e diventare i classici di domani.  Crediamo fermamente che La verità sul caso Harry Quebert appartenga alla seconda categoria. Il libro del giovane Joel Dicker è non solo un giallo appassionante e ricco di colpi di scena, concepito come un puzzle i cui elementi finiscono per combaciare alla perfezione solo nell’ultimo capitolo, ma anche feuilleton, romanzo di formazione e saggio di meta-scrittura. Uno stile di rara felicità aneddotica quello dello scrittore svizzero, ricco di ironia più o meno sotterranea, capace di disperdere una vicenda complessa in mille schegge narrative e di rifluirle poi in un solido corpus centrale senza mai allentare la presa sul lettore. Quasi ottocento pagine che inchiodano senza alcun cenno di stanchezza, per un romanzo che è anche e soprattutto un caloroso inno al potere della letteratura (e dell’immaginazione in senso lato) di plasmare e riscrivere le nostre vite.
Anche se crea dipendenza, leggetelo senza troppa fretta, quaranta/cinquanta pagine al giorno e non di più. O ne sentirete la mancanza troppo presto.