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lunedì 27 febbraio 2012

Oscar 2012 e la saturazione dell'immaginario


L’84esima edizione della cerimonia degli Oscar, tenutasi ieri sera al Kodak Theater di Los Angeles, ha decretato la vittoria della pellicola muta The Artist, che ha ricevuto premi al miglior film, al miglior regista, miglior attore protagonista, miglior colonna sonora e migliori costumi. Con le sue dieci nomination e i cinque Oscar agguantati, The Artist vince ma non stravince, visto che ugual numero di statuette è andato a Hugo Cabret di Scorsese (anche se in categorie tecniche).
Una rapida occhiata su wikipedia alle edizioni passate ed è facile notare che, con l’eccezione de The Lord of the Rings - The Return of the King (i cui undici Oscar vinti sono però un riconoscimento all’intera trilogia di Peter Jackson più che all’opera in questione), negli ultimi anni nessuno dei film premiati nelle maggiori categorie è riuscito davvero ad imporsi e a fare incetta di premi. Un decennio e mezzo fa, prima della premiazione si sapeva benissimo che film come Titanic o Schindler’s List avrebbero stravinto, e la cosa si verificava puntualmente. Negli ultimi anni nessun film vince più di quattro-cinque statuette, e soprattutto non c’è mai un favorito veramente forte alla vigilia della cerimonia.
Maggiore suspance per i bookmaker, dunque, ma anche spunto di riflessione sul cinema contemporaneo. Perchè non esce più un film che “spacca tutto”? Hollywood non è più capace di produrre opere di alto livello? Il motivo non è certo questo, anche i più ingenui sanno che non sempre qualità e Oscar vanno a braccetto (basti pensare ai premiatissimi Shakespeare in love o The english patient...). Piuttosto, Hollywood sembra aver perso il potere di segnare l’immaginario collettivo come ha fatto per decenni. Anche un film come Avatar, strategicamente pompato come un’opera rivoluzionaria, si è rivelato poi un’accozzaglia di deja vu ed è finito presto nel dimenticatoio.
Se pensiamo ai premiatissimi film degli anni ’90, ci accorgiamo di come ognuno di loro sia riuscito a dare un forte impulso alla ridefinizione del cinema mainstream. Con il ribaltamento della presa di posizione dei western classici,  Dances with Wolves di Kevin Costner (7 Oscar) ha sdoganato alle masse il cinema di genere pensante. Il bianco e nero al contempo realistico e stilizzato di Schindler’s List di Steven Spielberg (7 Oscar) ha dimostrato come coraggiose scelte espressive possano essere di servizio alla narrazione di una tragedia storica come l’Olocausto. Titanic di James Cameron (11 Oscar) ha inventato il melodramma ipertecnologico. Nel 2012 non sembra esserci molto più da inventare o da sdoganare. Nessun dramma è più atroce di tanti già visti, nessun plot è davvero inedito, nessun effetto speciale riesce più a farci sobbalzare dalla poltrona. Forse l’immaginario collettivo ha ormai raggiunto la saturazione e non resta che girare e rigirare le solite frittate nella speranza che non brucino. Se Schindler's List, Dances with Wolves e Titanic fossero realizzati oggi, probabilmente non avrebbero più la stessa clamorosa capacità di scuotere le masse.
In tal senso va inquadrato il successo di The Artist. E il genio strategico del distributore americano Harvey Weinstein, che è riuscito a far volare questo grazioso filmetto francese dritto dritto fino alla vetta dell’olimpo hollywoodiano. Ciò che colpisce in The Artist, al di là di essere un film muto e in bianco e nero, è l’assoluta semplicità degli stilemi narrativi di questa storia di ascesa e declino di un giovane attore. Nell’epoca della Fusion Camera 3D in cui risoluzione e stratificazione delle immagini raggiungono livelli stordenti, The Artist riesce ancora ad emozionare con l’espressione ferita di un volto, la minaccia di un’ombra su un tendone, il tonfo sordo di un bicchiere su di un tavolo. Un ritorno alle origini che è un vero antidoto al martellamento ottico dei blockbuster odierni.
C’è da scommettere che il film di Michel Hazanavicius genererà una serie di epigoni, e riaccenderà un interesse di massa per gli evergreen dell’era del muto.
E’ giunto dunque il momento di far tabula rasa dell’immaginario di un secolo di cinema?  Forse no. Piuttosto, è semplicemente ora di ricordarsi di cosa il cinema sia veramente.

 

sabato 25 febbraio 2012

Fantozzi e Dell'Utri



Se nelle grotte di Postumia una stalattite millenaria si stacca dal solido manto roccioso e c’è Ugo Fantozzi nelle vicinanze, puoi star certo che gli cadrà in testa. Se c’è una bomba dalla miccia attivata e in procinto di esplodere, sicuramente finità nei suoi calzoni. Se un maldestro sciatore non riesce a controllare la direzione di atterraggio del suo salto dal trampolino e sfondando la finestra di un ristorante finisce addosso all’ultimo commensale di una lunga tavolata, sicuramente quel commensale è Ugo Fantozzi. Un ragazzino lancia in aria un boomerang che invece di tornare indietro prende una traiettoria inattesa e colpisce Fantozzi alla nuca. In un bar due signori giocano a biliardo, uno di loro colpisce la palla a mò di leva e questa schizza via dal tavolo e si incastra nella bocca di Fantozzi seduto al bancone. Un leone evade dallo zoo e corre affamato e aggressivo per le strade cittadine, ma tutti i passanti fanno in tempo a chiudersi nelle loro auto tranne uno che ha dimenticato le chiavi: Ugo Fantozzi.  
Come Fantozzi anche Marcello Dell’Utri, un signore canuto con l’espressione da cerbero che ha anche qualche vaga somiglianza fisica con il più famoso ragioniere d’Italia, sembra essere una calamita per la sfiga. Ma nel suo caso la sfiga ha contorni e caratteristiche meno variegate. Non stalattiti, bombe, leoni, boomerang o palle da biliardo: la sua sfiga sono i mafiosi. Questo distinto intellettuale bibliofilo è funestato dai mafiosi che come per caso si ritrovano ad essere involontarie comparse nella sua irreprensibile quotidianità. I mafiosi sbattono su Dell'Utri come gli asteroidi di una pioggia meteoritica sull'Enterprise di Star Wars. Piovono mafiosi su Dell’Utri, insomma. Che sfortunatamente sembra sprovvisto di ombrello.
Marcello Dell’Utri  ingaggia uno stalliere per la gestione dei cavalli del suo capo e si ritrova in casa il boss palermitano Mangano.
Marcello Dell’Utri va al ristorante “Le Colline Pistoiesi” di Milano, non ha prenotato e non c’è un tavolo libero, ma un gentile signore che sta festeggiando il compleanno lo invita ad unirisi alla sua combriccola. E quel gentile signore è il boss catanese Calderone.
Marcello Dell’Utri si reca a Londra per una mostra sugli Etruschi. Mentre osserva deliziato frontoni templari e bighe in bronzo, il pavimento improvvisamente cede e finisce sulla tavolata imbandita del ristorante sottostante dove si festeggia il matrimonio del mafioso Jimmy Fauci, principale gestore del traffico di droga tra Italia, Gran Bretagna e Canada.  
Marcello Dell’Utri incontra Silvio Berlusconi nell’ufficetto del sottoscala del palazzo della Edilnord. Convinti di trovarsi in un centro commerciale e alla ricerca della porta del cesso del piano terra, in quella stanzetta entrano anche i boss Bontate e Teresi.
Marcello Dell’Utri diventa amministratore delegato dalla Bresciano Costruzioni e nell’associazione iniziano a confluire come per caso capitali mafiosi, finchè deve chiudere per bancarotta fraudolenta.
Marcello Dell’Utri vuol preparare una cenetta a lume di candela per la sua adorata signora ma si accorge che non ha il sale per le sogliole gratinate, allora va a chiederlo ad un vicino di casa che non ha mai incontrato finora. Ma prima che il cordiale vicino gli porga il contenitore di coccio, la polizia irrompe bruscamente nell’appartamento e lo arresta: il vicino era il boss catanese Corallo.
E questi sono solo pochi esempi dell’ingerenza involontaria del signor Marcello Dell’Utri nella storia della mafia italiana. Un impressionante numero di sfigatissime coincidenze, a sentir lui. C’è da star certi che avrebbe preferito i boomerang e le palle da biliardo di Fantozzi. Ma Fantozzi è un personaggio di fantasia creato dal grande Paolo Villaggio, Marcello Dell’Utri è vivo e vegeto nonchè Senatore della Repubblica Italiana da undici anni. Amico personale di Silvio Berlusconi e fondatore e “ideologo” di Forza Italia. Condannato in secondo grado a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa.
Nell’agosto 2010, in virtù delle sue competenze di bibliofilo Marcello Dell’Utri fu invitato dall’associazione ParoLario di Como per un intervento sui presunti diari di Mussolini. Ferocemente contestato a colpi di “Mafioso”, “Baciamo le mani”, “Fuori la mafia dallo stato”, Dell’Utri non riuscì a proferire parola e fu costretto ad abbandonare la manifestazione scortato dalla polizia. Gli organizzatori infierirono sui manifestanti, colpevoli di inneggiare alla Costituzione senza rendersi conto che proprio in base alla Costituzione Marcello Dell’Utri non è mafioso, in quanto solamente condannato in secondo grado e non in Cassazione. Tecnicamente parlando, gli organizzatori di ParoLario hanno persino ragione. Ma si sa, i cavilli tecnici sono la manna del popolo dei senza-vergogna. E la contestazione di Como non ha nulla di tecnico, ma è piuttosto la cartina tornasole dell’esasperazione di una parte (ahimè, ancora piccola) di popolazione di fronte all’imbarazzante immoralità delle logiche di palazzo.
Nel giorno del trionfo giudiziario (leggasi: prescrizione) del più grande salesman della storia d’Italia, apprendiamo che la Cassazione si pronuncerà su Dell’Utri in data 9 marzo prossimo. E finalmente questa estenuante vicenda sarà finita. Il problema delle tragicommedie all’italiana è che alla lunga smettono di far ridere e cominciano a fare pena. Il caso Dell’Utri ha oltrepassato da tempo questa soglia. Per anni ci siamo sorbiti nelle interviste e nei talk show il presunto candore alla Forrest Gump di chi attraversa le vicende più scabrose della nostra storia recente fingendo di non capirci un accidente, e in più lanciandosi in esternazioni sull’eroismo di certi mafiosi che sono un insulto alle migliaia di vittime. Tra meno di due settimane, dunque, Marcello Dell’Utri verrà finalmente condannato in via definitiva e finirà al gabbio. Il copione della tragicommedia prevede l’indignazione dei parlamentari pidiellini che grideranno alla “scandalosa sentenza politica” e la pacata soddisfazione delle opposizioni. Meno contento sarà il popolo italiano, che per undici anni gli ha pagato lo stipendio di senatore. Ma si sa, probabilmente alzerà le spalle e si consolerà dicendo che tanto è tutto uno schifo.   


venerdì 17 febbraio 2012

Jomfru Ane Gade


Alla lettera, la strada della vergine Anna. Che di vergine ha solo il cartello, ha detto qualcuno. Jomfru Ane Gade è la via più famosa di Aalborg e una delle più note della Danimarca e della Scandinavia in generale. Circa cento metri di bar e discopub. E basta. Scusate se è poco. Nell’intero Nordjylland è la tipica destinazione per un venerdì o sabato sera divertente. Chiunque voglia sbevazzare e ballicchiare allegramente con gli amici non ha alternativa migliore che recarsi in quella che chiamano la street (o gaden, in danese).  Nonostante l’abbondanza di locali, secondo molti l’offerta lascia un po’ a desiderare. C’è il lounge bar con luci blu soffuse e divani bianchi in pelle, e l’affumicatissimo Rock Cafè dalle pareti rosso geranio, noto raduno di metallari ed emo dalla pelle emaciata e la chioma colore inchiostro . Per il resto, il locale tipico di Jomfru Ane Gade è spoglio e polveroso, con mura di colore neutro, tavolini in legno, condotti per l’areazione in piena vista e un’ampia zona per il ballo. L’offerta musicale è per lo più commerciale e modaiola, anche se alcuni locali mettono su il rock anni ’70 e il metal più estremo.  La birra è di solito annaquata e insapore. Se si attraversa Jomfru Ane Gade in pieno giorno, si può rimanere sorpresi dall’affastellarsi delle insegne dei locali e dall’odore stagnante dell’alcol che sembra aver impregnato mura e sampietrini,  ma nulla più.
Un posto abbastanza insignificante? No. Basta aspettare. E lasciar stare pensieri da sobrio.
E’ quando la notte scende e le lancette dell’orologio roteano leggere e rapide e le luci delle lampade e delle insegne dei bar proiettano un arancione morbido e soffuso che rimbalza tra le vetrate, e il sapore acido dell’ennesima birra appena tracannata sale lentamente dal palato a svuotarti la testa, è quando le poche persone che timidamente si affacciavano ai banconi a poco si moltiplicano e nella via prima deserta si riversa la fauna più variegata, è quando il mondo ti sembra più biondo e l’odore acido di birra e piscio si tinge di inedite fragranze di J’Adore, è quando il tuo sguardo schizza via come un puntatore laser impazzito tra il solco della scollatura pronunciata di un top attillato e il ricamo dell’orlo della minigonna rosa shocking e l’abbondante epidermide al vento e le urla e i for helvede! e i din svin! ti sembrano il testo di un frastornante brano rap,  è quando ti lasci cadere a peso morto e rimani ritto in piedi perché la folla ti spintona a destra e a manca e allora devi aggrapparti alla staccionata del Giraffen prima che quella fiumana dal corso schizofrenico ti trascini via per sempre, è quando il jingle tuzzo della hit del momento ti si infila sottopelle come una sanguisuga e gambe e braccia ti schizzano su e giù come quelle di una marionetta, è quando ti illudi di avere il fascino del viveur prima che lo specchio ti tradisca e rimani incantato a fissare le gambe delle bariste del “Das Bierbar” che sfoggiano orgogliose il loro dirndl saltellando sul bancone al ritmo di Ein Rudy Völler... è quando tutto ciò accade che la street vive e non vorresti essere in nessun altro posto al mondo. E può capitare ogni weekend, dodici mesi all’anno.
Le danesi. Sono loro le grandi e assolute protagoniste. Il biondo oro dei lunghi capelli lisci. Il sorriso come un bracciale di perle. Occhi chiari e nasino alla francese. Il contrasto impossibile tra la nobile bellezza di quei visi da fate dei boschi e la rozza andatura martellante su tacchi a spillo e zatteroni. La trappola di vestiti azzurri gialli o rossi che sembrano fatti con la carta da pacchi e che le trasformano in grotteschi confettoni. Quelle belle, tante, ma anche quelle che belle non lo sono e lo sanno, ma quella sera vogliono dimenticarsene, e inzaccherate nei loro vestiti confetto senza pudore dei chili di troppo sorridono ai lampioni come fossero la luna. Ma ci sono anche le tardone, con il viso graffiato dall’età e dalla vita, che cercano di nascondere cellulite e fianchi tremolanti intrappolandoli nei jeans attillati. E sistemandosi le tette siliconate messe su per scampare alla depressione del secondo divorzio, si illudono di essere ancora belle e desiderabili. I bellimbusti in canotta con spalle larghe, mascella squadrata, incivisi sporgenti e sguardo catatonico. L’omino eschimese con cappellino a visiera che si fa largo a fatica con la sua busta del Fakta per racimolare lattine vuote nei cestini dei rifiuti. Le ragazzine che camminano scalze incuranti dei cocci aguzzi di bottiglia. Gli studentelli stranieri arrapati che sostano ad un angolo con le loro birre comprate al 7eleven e osservano con risatine compiaciute lo spettacolo scintillante e sfuggente che gli viene offerto.  Magari, nelle luci intermittenti dell’Hollywood Boulevard, uno di loro incrocerà lo sguardo di una biondina dal vestito a fiori e lei risponderà con un sorriso e lui si avvicinerà e le afferrerà delicatamente la mano e si ritroveranno in pista da ballo a dimenarsi sulle note di una canzone di Blondie, e lui lentamente scivolerà prima col dorso poi col palmo della mano sul satin del vestitino succinto della ragazza davanti agli occhi infiammati di invidia dei suoi amici fermi al bancone. Tempo un minuto e la perderà nella folla,  ciò che resta sarà un ricordo amico che gli terrà compagnia quando sarà chiuso a chiave tra le quattro pareti della sua camera.
A Jomfru Ane Gade, le stagioni non esistono. Che sia giugno o dicembre, vedrai sempre ragazze in abiti striminziti e ragazzotti in t-shirt. Lasciano giacche e cappotti nel guardaroba di uno dei locali e poi si spostano da un bar all’altro con i loro vestiti leggeri. Vanno di fretta, ma non per sfuggire al freddo della notte danese. La fretta accumuna ogni creatura di quell’umanità così varia, dalla quattordicenne fan di Justin Bieber al viscido omone obeso alla spasmodica ricerca di una ragazza ubriaca da rimorchiare. Vanno tutti di fretta perché quella è la loro notte e la vivono come se fosse l’ultima. Ne spremono ogni singolo istante, alla ricerca di quel brivido che la renderà degna di essere ricordata per sempre.
Il paradiso e l’inferno, a Jomfru Ane Gade. Lo sguardo liquido della barista del Salt Lageret e gli schizzi di vomito sulle scale del Rock Cafè. Il bacio di due sedicenni eclissati tra i divani del Dansebaren e i rutti del buttafuori del Manhattan. Il sorriso sereno di una ragazza dal viso d’angelo che con i suoi lunghi capelli biondi proietta inediti riflessi di luce sulle pareti spoglie del La bar e l’odore di merda che si espande dal cesso del Nielsen.   
A volte, quando ti butti in pista anonimo e saltelli all’unisono con gli altri sulle note di una cover di Country Roads mentre l’alcol che hai in circolo svuota via pensieri e inibizioni e le palpebre vanno su e giù al ritmo della luce bianca stroboscopica, dimentichi tutto il resto e pensi di esistere solo come una cellula di quella  creatura immensa che è Jomfru Ane Gade quella sera, una specie di enorme anfibio con il corpo esteso su tutta la via e le cento zampe allungate all’interno dei locali, e che movimenti, salti, spintoni, gomitate e urla di ognuno facciano parte della complessa attività respiratoria di quella creatura. L’effetto di una coordinazione superiore il cui moto rapsodico sfugge alla nostra misera natura di cellule. 
Alle sei del mattino, i proprietari dei locali accendono le luci e la magia del chiaroscuro cessa bruscamente. La luce bianca al neon è come un secchio d’acqua gelida, che ci risveglia dal trance di quella notte che sembrava eterna. C’è chi ha perso la speranza di alzarsi in piedi ed è gettato in un angolo con la testa tra le braccia.  Le coppiette che erano appartate al buio ora si coprono gli occhi come sotto interrogatorio. Gentilmente si viene invitati ad uscire. In estate, quando il sole sorge prima delle quattro del mattino, l’alba si accanisce implacabile sulle brutture della street ancora affollata. Come il re nudo della favola di Andersen, il popolo della notte non può più nascondersi. E quella massa di gente che sembrava costituire la linfa vitale dell’enorme anfibio ci appare ora per quello che è: un’orda di ubriachi con i primi sintomi del doposbronza.
Chi non è ancora sazio e vuole continuare la morbida illusione della notte eterna, si trasferisce al Bino’s, un bar in Kattesundet che apre alle cinque del mattino. Per il resto, inizia il mesto ritiro dalla street. La suola delle scarpe si incolla e strappa dai sampietrini ad ogni passo; colpa dei litri di birra versati, ma ci piace pensare che sia la via stessa a respirare ed espellere alcol dai suoi pori.  La notte è passata e porta via con sè ogni illusione. La vita reale torna a far capolino tra il camino in mattoni del palazzo di fronte e la nuvoletta dai contorni grigio sfumato che già si affaccia nel cielo livido, con tutto il suo carico di oppressione. Il corteo del popolo di Jomfru Ane Gade procede lento lasciando una scia di piscio sulle pareti della limitrofa Bispensgade, ridotta ad improvvisato orinatorio pubblico. Ragazzetti che pisciano e continuano i loro discorsi-mugugni gutturali  con le fanciulle che hanno conosciuto.  Una donna inverosimilmente magra, forse proveniente da un'altra era o un'altra galassia, che con indosso una specie di pelliccia fuma una sigaretta con bocchino seduta a terra. Due ragazze che camminano sbandando sottobraccio e cantano stonate l’inno dell’Aalborg Fodbold a squarciagola, una di loro ha i jeans a vita bassa griffati e una bottiglia di vodka semivuota in mano e l’altra una borsetta Blugirl giallo canarino che le pende dall’avambraccio oscillando a due centimetri da terra.
A quell’ora, il popolo di Jomfru è devastato dalla fame chimica. Ed ecco che si riversa massiccio nel Mac Donald o nel Burger King di Nytorv ad ingozzarsi di cheesburger multistrato, patatine fritte e chicken wings.  La sbobba ipercalorica scende giù e a poco a poco salgono il mal di testa e l’apatia.
Tra le nuvole si è aperto uno squarcio di cielo terso e azzurro. L’aria è troppo fredda per essere una mattinata di giugno. Due gabbiani attraversano il cielo e spariscono tra i tetti spioventi dei Boulevarden deserti. Pensi che quell’alba è in realtà il tramonto del tuo fine settimana.
La festa è finita. Il weekend è volato via e i gabbiani con lui.  
Com’esuli pensieri nel vespero migrar.


     

martedì 14 febbraio 2012

Istruzione in Danimarca e in Italia


Il discorso è il solito. L’individuo o la società. In Italia scegliamo il primo, in Danimarca la seconda. L’Italia è funestata da un debito pubblico devastante ed è in rischio default. La Danimarca è un isola felice nel caos dell’economia europea. In Danimarca le tasse sono al trentotto per cento. L’evasione fiscale è minima e i servizi sono eccellenti. L’istruzione è gratuita fino alle scuole superiori. All’università, invece, gli studenti danesi vengono addirittura pagati per studiare. Per la cronaca, ricevono una “borsa” mensile di circa ottomila corone, ovvero intorno ai mille euro. Più dello stipendio di un dottorando italiano. Inoltre, per gli studenti danesi è assai facile ottenere fondi pubblici o privati per esperienze di vario tipo, ad esempio semestri di studio all’estero. Conosco un ragazzo che ha preparato la tesi in ingegneria delle telecomunicazioni in Virginia (USA), completamente sponsorizzato da una fondazione filantropica. E nonostante ciò, sono relativamente pochi i danesi che si iscrivono all’università. Molti preferiscono lavorare. La floridezza dello stato sociale assicura un tasso di disoccupazione tra i più bassi d’Europa, quindi tanto meglio cercarsi un lavoro se non si ha voglia di passare le giornate davanti ai libri. All’università ci va solo chi ha voglia di studiare. L’università è altamente professionalizzante, e ha una sinergia molto stretta con il mondo aziendale, che spesso finanzia molti progetti di ricerca. Molti decidono di iscriversi all’università dopo aver lavorato per alcuni anni, con l’obiettivo di accrescere le proprie competenze in un settore che già si conosce. Per questo anche tra le prime classi non si vedono solo diciottenni ma l’età è piuttosto variegata.
In Italia all’università ci vanno quasi tutti, nonostante si paghi e neanche poco. Anche chi alla fine delle superiori sa a malapena leggere e scrivere, si iscrive all’università. Tanto il lavoro non si trova, dicono, quindi meglio parcheggiarmi lì che forse poi arrivo a prendere anche una laurea e poi trovo un lavoro più migliore assai. Un po’ il talento che manca, un po’ la voglia di studiare che scema davanti alle belle giornate assolate del Belpaese, un po’ i programmi di studio delle varie facoltà troppo densi, ed ecco che l’esercito dei fuoricorso cresce a livello esponenziale. E sì che qualcuno adesso ha finalmente capito che forse era meglio farsi in quattro per cercare un lavoro dopo le scuole superiori invece di ammuffire nelle proprie ambizioni di successo accademico.
La maggiorparte delle università italiane sono completamente sconnesse dal mondo del lavoro. Usano metodi e programmi vecchi di decenni e mirano ad una preparazione più didascalica che davvero teorica che riempie la testa dello studente di nozioni che dimenticherà presto e non saprà mai come adattare al suo futuro impiego.
In Italia, al Professore si dà del Lei o del Voi. E’ una figura che saltuariamente solca i corridoi dei comuni mortali e va sempre in giro in giacca e cravatta. Bisogna esprimere reverenza anche servile nei confronti del Professore, perchè, appunto, Lui è un Professore e noi non siamo nulla. In Danimarca, gli studenti si rivolgono al professore chiamandolo per nome. Un eventuale denominazione “Professor” genererebbe inevitabilmente costernazione e ilarità in quest’ultimo. Il professore è un collega più anziano che cerca di mettere la sua esperienza a servizio dei più giovani. Li assiste, e cerca anche di crescere e migliorare a contatto con le loro menti più dulleabili e aperte. In Danimarca un professore, ma anche un ingegnere, un medico, un avvocato, ama il suo lavoro perché lo ha scelto per passione e ci trova una sua missione. In Italia, un Professore o un Ingegnere o un Dottore o un Avvocato hanno perseguito il loro titolo principalmente per la funzione sociale che ne deriva, che suscita ammirazione e rispetto servile nei confronti delle masse sprovviste di titoli. Poco conta, poi, se si è totalmente incompetenti o si fa un lavoro che non c’azzecca nulla con la laurea: un Ingegnere è un Ingegnere a vita.
In Danimarca, i titoli di studio riconosciuti sono il Bachelor, il Master of Science, Il PhD. Il Bachelor corrisponde alla nostra laurea di primo livello, il Master of Science alla laurea specialistica, il PhD al dottorato di ricerca. Questi titoli sono riconosciuti non solo formalmente, ma a ciascuno di solito corrisponde un inquadramento retributivo differente nel mondo del lavoro.
In Italia la laurea, la laurea, la laurea, viene considerata importantissima. Salvo poi accorgersi che non ti serve a nulla, se non come lasciapassare per un lavoro che avresti potuto fare anche con la terza media. Il dottorato di ricerca, invece, che non solo in Danimarca ma in qualsiasi altro paese al mondo viene considerato per inquadramento lavorativo di alto livello, in Italia non serve a nulla se non per qualche vaga speranza di carriera universitaria. Moltissimi non sanno neanche cosa sia. La spiegazione è banale, come sempre: il Italia il potere è in mano alla casta degli ordini professionali, che il dottorato non l’hanno preso. L’Italia è l’unico paese al mondo in cui ci si fregia del titolo di Dottore con quella che chiamiano laurea invece che con il dottorato di ricerca. Cari orgogliosi Dottori italiani, che strombazzate il vostro titolo sugli elenchi telefonici e sulla targa all’ingresso di casa vostra: all’estero dottori non lo siete affatto.

Dorme torna nelle sale!




Con grande piacere scopriamo che venerdì scorso Dorme di Eros Puglielli è tornato nelle sale italiane! Il merito è di Distribuzione indipendente, un’interessante rete distributiva per il cinema “altro”, creativo e vitale, che fatica ad ottenere la giusta visibilità.
Girato da Puglielli con una videocamera superVHS nel 1993, quando il regista aveva diciannove anni, Dorme è stato riscoperto nel 2000, “gonfiato” in 35mm e distribuito dalla Lucky Red. Ahimè, due sole copie. Distribuzione Indipendente offre quindi al film del regista romano una nuova giovinezza, con la speranza di raggiungere un pubblico più vasto.
Che cos’è Dorme? La più genuina e sorprendente opera prima italiana degli ultimi trent’anni. Un vero e proprio miracolo di ritmo e inventiva. Un elogio del piacere puro e autarchico di fare cinema senza asfissianti logiche produttive e dilemmi di marketing.
Ai tempi della precedente uscita del film, scrivemmo il commento qui riportato:

"[...] e il fenomenale lungometraggio Dorme(1993), girato come i precedenti corti nella più totale povertà di mezzi (vuole la leggenda che Puglielli si incontrasse con i suoi amici "attori" il sabato pomeriggio per girare con la sua telecamerina), ma con un’inventiva da fare invidia a molti costosissimi blockbuster d'oltreoceano. 
Dorme racconta la storia di Ruggero (Cristiano Callegaro), un timido diciannovenne che un brutto giorno viene lasciato dalla sua ragazza perchè troppo basso. Tuttavia non si arrende, anche quando scopre che la sua Anna è ora la ragazza dei fratelli Riccio, ovvero un tremendo psicopatico omicida che soffre di sdoppiamento di personalità; ogni volta che le telefona la madre le riferisce che "Anna dorme, dorme...", quindi decide di andare a riprendersi di persona la sua amata nella zona delle case popolari in cui vive, a costo di trasformarsi in Mazinga per sconfiggere i diabolici fratelli Riccio...
E’ bello vedere un film realizzato da giovani (veramente tali) senza sbandamenti modaioli o autorialità gratuita, ma con un puro piacere di raccontare divertendosi senza troppi perchè o vecchie convenzioni da rispettare; il paesaggio architettonicamente piatto o deturpato nel quale si muove Ruggero è lo stesso di decine di drammoni strappalacrime su esistenze allo sbando e vite perdute, "siringhe e piagnistei", eppure non ci è mai apparso così solare e pieno di vita, ironicamente violento e fiabesco. In una struttura narrativa perlopiù ricalcata da quella del fumetto o dei cartoon, con tanto di scontro tra supereroi a colpi di magia e chiacchierata esplicativa finale, Puglielli innesta il tema del disagio giovanile, evidente nelle crisi di inferiorità di Ruggero (che il regista, anche lui un metro e sessanta di altezza, probabilmente considera un alter-ego), contaminandolo con la sagacia nel ritrarre un mondo grottesco e allucinato, costruito esasperando il dato reale, senza mai cadere nella trappola della retorica giovanilista, ironizzando sul vittimismo (esilarante la scena della festa, in soggettiva di Ruggero ad altezza di cagnolino), e lasciandoci contagiare dalla tenacia con cui il protagonista lotta per raggiungere il suo scopo, senza recuperi moralistici (la droga Monaco 5 come porta per bizzarre e divertenti dimensioni parallele). Indimenticabile la galleria di personaggi allegramente assurdi; oltre ai famigerati fratelli Riccio, merita di essere ricordato il padre di Ruggero, teorico della carne cruda con il latte ("Mettece ’mpo de latte che è a morte sua!") e l’amico gay e perennemente drogato.
Ma il merito maggiore di
Dorme è quello di essere uno dei rarissimi film italiani che riflettono il sincretismo culturale degli ultimi vent’anni (e ciò fa di Puglielli forse l’unico regista post-moderno presente in Italia), cultura di massa s’intende, tra echi della commediaccia all’italiana, cartoon americani o anime giapponesi, con una abilità alla Sam Raimi nel manovrare la macchina da presa, e un’inventiva che sembra uscita direttamente dalla fervida fantasia del giovane autore senza passare attraverso il diaframma tecnico-estetico proprio del cinema. A suo modo Dorme può essere considerato il film sintesi di una generazione di giovanissimi cresciuti alla fine degli anni Ottanta, senza politica o teatrini off di morettiana memoria ma perennemente sintonizzati su Junior TV e Italia 7, innamorati dei vari Mazinga, Daitan e Ken, boccaloni e sognatori, felicemente fuori dal mondo, ma capaci di incredibili slanci immaginativi. [...]"

Uno come Puglielli in America sarebbe venerato come Peter Jackson. In Italia, non lo conosce un cazzo di nessuno e sopravvive girando fiction per Mediaset. Speriamo che il ritorno nelle sale di Dorme spinga finalmente il pubblico a scoprire questo ex-ragazzo prodigio il cui talento in fiore è stato reciso da un sistema produttivo ammuffito e chiuso a qualsiasi azzardo e novità. In bocca al lupo Eros, è dura, ma sei ancora in tempo...
Il trailer di Dorme nel video in basso:  


domenica 12 febbraio 2012

La solitudine dei numeri primi



Non siamo grandi ammiratori de La solitudine dei numeri primi, uno dei più grandi successi editoriali italiani degli ultimi dieci anni. Ci sembra che la fortuna del romanzo del giovane Paolo Giordano sia dovuta principalmente ad una furbissima strategia di marketing, che ha puntato a lanciare un personaggio decisamente anomalo nel nostro panorama letterario. Paolo Giordano, neanche ventiseienne all’epoca dell’uscita del suo libro, è stato strombazzato come enfant prodige della nuova letteratura italiana. E il suo successo deriva proprio dall’essere lontano dal cliché dell’enfant prodige. Sappiamo come la storia della letteratura (e dell’arte in generale) pulluli di ragazzi borderline dal fascino ombroso, abbandonati da famiglie difficili, vissuti di stenti tra mille difficoltà, facili all'assuefazione a qualsiasi sostanza che crei dipendenza, magari malaticci e inetti al lavoro, che improvvisamente si rivelano dei geni del pennello o della scrittura. Paolo Giordano, invece, è cresciuto in una famiglia benestante e colta, è sempre stato bravissimo a scuola, si è laureato in fisica teorica con il massimo dei voti, è iscritto ad un corso di dottorato nella stessa facoltà, è di innegabile bell’aspetto. In più, non beve non fuma e non si droga. Si sa, ragazzi come lui fanno la gioia dei genitori e dei futuri suoceri, ma da loro non ci si attendoni certo clamorosi exploit artistici. La fortuna di Paolo Giordano è stata quella di dimostrare che si può sfoggiare un grande talento “artistico” anche quando si calzano alla perfezione i panni del "bravo ragazzo". E ciò ha fatto di lui un personaggio assolutamente accattivante per le ampie masse.
Per il resto, non crediamo che Paolo Giordano sia un genio. Il suo romanzo ci appare come un compitino assai ben scritto, in cui vien naturale immaginare un gran lavoro di editing dello staff Mondadori alla ricerca del giusto equilibrio tra i toni più cupi e quelli più sentimentali, con lo scopo di andare incontro ad una porzione di pubblico più vasta. Infastidisce, poi, la totale assenza di dimensione storica in una vicenda che copre un periodo ventennale, e che per questo a tratti somiglia ad una versione più ambiziosa di un romanzetto Harmony.
Eppure, nel romanzo di Paolo Giordano c’è una pagina straordinaria. Una breve introduzione: Mattia, il protagonista maschile, è ossessionato dai sensi di colpa per aver abbandonato quando aveva otto anni la sorella gemella Michela, affetta da autismo, in un parco deserto, perché stanco di dover andare alla feste di compleanno dei suoi compagni di classe insieme a lei. La bambina non era stata più ritrovata. Il momento strepitoso del romanzo è quando venti anni dopo Alice, la protagonista femminile più o meno consapevolmente innamorata dell’ombroso Mattia, crede di riconoscere Michela in una ragazza ritardata che incontra in ospedale. E’ una vera e propria scena horror che gela il sangue, e che Giordano racconta con ricchezza di dettagli, quasi volesse indagare il significato criptico degli anomali movimenti di quella figura misteriosa. Quella ragazza ormai trentenne che, in piena notte, sotto le spioventi luci al neon entra ed esce dalla porta scorrevole dell’ospedale con lo sguardo perso e una risata fatua e indecifrabile potrebbe essere Michela oppure no, ma fa accapponare la pelle. Ed è vertiginosa l’idea della comparsa di una figura così a far da deux ex machina per l’evolversi delle vicende del romanzo.
Dal libro di Paolo Giordano è stato tratto l’omonimo film di Saverio Costanzo. Sarebbe stato facile fare un film di successo che si limitasse a seguire pedissequamente le vicende del libro, tra l’altro particolarmente cinematografico nella struttura narrativa. E invece Saverio Costanzo ha sacrificato la linearità temporale del libro a favore di una complicata struttura a flashback. E soprattutto, ha tentato una coraggiosa rilettura horror delle vicende di Alice e Mattia, introducendo personaggi inquietanti (vedi il clown della festa di compleanno) e usando uno stile ipnotico ricco di ralenti e prospettive inusuali, che cita esplicitamente Dario Argento (la colonna sonora è la stessa de L’uccello dalle piume di cristallo!). Se a Saverio Costanzo va il merito di una rilettura non illustrativa del romanzo di partenza, non si può dire che il suo sia un film riuscito. Troppe ambizioni, scarsi risultati, e una freddezza che lascia perplessi. Ma ciò che è davvero imperdonabile in un film che gioca ad ingigantire le suggestioni ed ambiguità del libro, è la banalità con cui è stata realizzata la scena menzionata sopra. All’immagine terrificante descritta da Giordano si sostituisce una blanda scenetta in cui la protagonista Alba Rochwacher, in pieno giorno, vede in un mercato una ragazza qualsiasi, senza connotati particolari, le chiede “Michela?” e sviene.  Perchè una scena così banale? Ma Saverio Costanzo ha letto il libro di Giordano? Mah...

domenica 5 febbraio 2012

L'ultima sequenza di A.I., con il senno di poi


La prima proiezione europea di A.I. Artificial Intelligence, ore zero del 6 settembre 2001, Lido di Venezia, Palagalileo, fu preceduta da un breve messaggio video in cui Steven Spielberg si scusava per la sua assenza perchè impegnato sul set del successivo Minority report. Il film fu accolto da un applauso mesto e freddino. Qualcuno fischiò. Ricordo uno spettatore seduto dietro di me mormorare “Ecco perchè Spielberg non è venuto”.  La critica si divise nettamente: chi lo ritenne bellissimo, chi orrendo, chi addirittura un film pornografico.  La tiepida accoglienza veneziana fu da preludio a quella nelle sale europee; A.I. fu un vero flop, basti pensare che in Italia Viaggio a Kandahar di Mohsen Makhmalbaf incassò di più.
Le vicissitudini di A.I. sono ben note: un progetto a lungo covato da Stanley Kubrick, che non si decise mai a realizzarlo convinto che la tecnologia del suo tempo non fosse ancora adatta a supportare le sue visioni, ed ereditato da Steven Spielberg dopo la sua morte improvvisa. Un’opera che porta la firma di due dei più grandi cineasti della storia, quindi. In tal senso, A.I. è un capolavoro mancato. Un film schiacciato da aspettative mastodontiche, in cui Spielberg non è riuscito nel miracolo di fondere il cinema geometrico e razionale del maestro londinese con la sua poetica della meraviglia e le ovvie esigenze commerciali. Pur visivamente ricchissimo, A.I. manca del pathos spielberghiano e dell’intelligentia di Kubrick. Il tema del rapporto tra macchina e sentimenti, che probabilmente aveva affascinato il regista di 2001, non viene praticamente affrontato, e la storia di questo bambino-robot che viene abbandonato dai genitori adottivi e intraprende un viaggio alla scoperta di se stesso si trascina lenta e freddina per le sue due ore e mezza di durata. Momenti straordinari come l’ingresso in scena di David e il volo sulla città sommersa si alternano a lunghe sequenze ridondanti che gridano vendetta al cielo (l’incontro con il cartone animato Dr.Know!). E gli espliciti rimandi a Pinocchio sono veramente stancanti.
Eppure, ci sembra sbagliato liquidare con due frasi un’opera così enorme, che nella ricchezza delle immagini racchiude un secolo di cultura occidentale. Il giorno dopo l’anteprima veneziana, scrissi una recensione-stroncatura decisamente cattivella e superficiale. In particolare, espressi il mio accanimento nei confronti dell’ultima, lunga sequenza (vedi il video in basso), in cui David, rimasto ibernato per duemila anni mentre l’umanità si estingueva, ottiene dai nuovi mecha la possibilità di vivere un giorno da bambino vero con la sua mamma, clonata per l’occasione. La definii qualcosa come “un puro distillato di melassa new age”. E si tratta certo di una sequenza smaccatamente sentimentale, ricca di carezze, paroline, sorrisi e lacrime e immersa in un’impossibile fotografia dorata che sfuma i contorni di ogni cosa e persona. Ma quello che non avevo colto con la mia testolina di diciannovenne superficiale, è che Spielberg stava mettendo in scena la fine dell’umanità. Quello che David sta vivendo in quella sequenza non è solo il suo ultimo giorno con la mamma, ma l’ultimo giorno possibile da essere umano. Quando, nell’ultimissimo piano sequenza, la macchina da presa abbandona David, la mamma e l’orsacchiotto Teddy sul loro lettone per abbracciare l’intero palazzo in cui a poco a poco le luci sfumano e si dissolvono nel nero dei titoli di coda, l’umanità è ormai definitivamente estinta. La dissolvenza in nero del finale di A.I. è la dissolvenza del genere umano. Non ci sarà risveglio per David, non nel mondo umano, e il bagaglio di emozioni, sentimenti, passioni e cultura che scorre nelle nostre vene esisterà solo in quanto trasferito nei transistor della generazione di mecha che ci seguirà. In tal senso, quella sequenza è tra le più vertiginose della storia del cinema, un corto circuito che fa girare la testa. Lo spudorato afflato sentimentale che ha fatto storcere il naso a molti, è invece uno struggente, disperato tentativo di ritorno agli affetti primari.
Se pensiamo con quanta facilità e rozza furia iconoclasta i blockbuster degli ultimi anni strombazzano la fine del mondo, allora forse capiamo come A.I. sia un film ancora assolutamente misterioso, il cui valore nella storia del cinema non è stato davvero colto. 

"That was the everlasting moment he had been waiting for. And the moment had passed."