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domenica 5 febbraio 2012

L'ultima sequenza di A.I., con il senno di poi


La prima proiezione europea di A.I. Artificial Intelligence, ore zero del 6 settembre 2001, Lido di Venezia, Palagalileo, fu preceduta da un breve messaggio video in cui Steven Spielberg si scusava per la sua assenza perchè impegnato sul set del successivo Minority report. Il film fu accolto da un applauso mesto e freddino. Qualcuno fischiò. Ricordo uno spettatore seduto dietro di me mormorare “Ecco perchè Spielberg non è venuto”.  La critica si divise nettamente: chi lo ritenne bellissimo, chi orrendo, chi addirittura un film pornografico.  La tiepida accoglienza veneziana fu da preludio a quella nelle sale europee; A.I. fu un vero flop, basti pensare che in Italia Viaggio a Kandahar di Mohsen Makhmalbaf incassò di più.
Le vicissitudini di A.I. sono ben note: un progetto a lungo covato da Stanley Kubrick, che non si decise mai a realizzarlo convinto che la tecnologia del suo tempo non fosse ancora adatta a supportare le sue visioni, ed ereditato da Steven Spielberg dopo la sua morte improvvisa. Un’opera che porta la firma di due dei più grandi cineasti della storia, quindi. In tal senso, A.I. è un capolavoro mancato. Un film schiacciato da aspettative mastodontiche, in cui Spielberg non è riuscito nel miracolo di fondere il cinema geometrico e razionale del maestro londinese con la sua poetica della meraviglia e le ovvie esigenze commerciali. Pur visivamente ricchissimo, A.I. manca del pathos spielberghiano e dell’intelligentia di Kubrick. Il tema del rapporto tra macchina e sentimenti, che probabilmente aveva affascinato il regista di 2001, non viene praticamente affrontato, e la storia di questo bambino-robot che viene abbandonato dai genitori adottivi e intraprende un viaggio alla scoperta di se stesso si trascina lenta e freddina per le sue due ore e mezza di durata. Momenti straordinari come l’ingresso in scena di David e il volo sulla città sommersa si alternano a lunghe sequenze ridondanti che gridano vendetta al cielo (l’incontro con il cartone animato Dr.Know!). E gli espliciti rimandi a Pinocchio sono veramente stancanti.
Eppure, ci sembra sbagliato liquidare con due frasi un’opera così enorme, che nella ricchezza delle immagini racchiude un secolo di cultura occidentale. Il giorno dopo l’anteprima veneziana, scrissi una recensione-stroncatura decisamente cattivella e superficiale. In particolare, espressi il mio accanimento nei confronti dell’ultima, lunga sequenza (vedi il video in basso), in cui David, rimasto ibernato per duemila anni mentre l’umanità si estingueva, ottiene dai nuovi mecha la possibilità di vivere un giorno da bambino vero con la sua mamma, clonata per l’occasione. La definii qualcosa come “un puro distillato di melassa new age”. E si tratta certo di una sequenza smaccatamente sentimentale, ricca di carezze, paroline, sorrisi e lacrime e immersa in un’impossibile fotografia dorata che sfuma i contorni di ogni cosa e persona. Ma quello che non avevo colto con la mia testolina di diciannovenne superficiale, è che Spielberg stava mettendo in scena la fine dell’umanità. Quello che David sta vivendo in quella sequenza non è solo il suo ultimo giorno con la mamma, ma l’ultimo giorno possibile da essere umano. Quando, nell’ultimissimo piano sequenza, la macchina da presa abbandona David, la mamma e l’orsacchiotto Teddy sul loro lettone per abbracciare l’intero palazzo in cui a poco a poco le luci sfumano e si dissolvono nel nero dei titoli di coda, l’umanità è ormai definitivamente estinta. La dissolvenza in nero del finale di A.I. è la dissolvenza del genere umano. Non ci sarà risveglio per David, non nel mondo umano, e il bagaglio di emozioni, sentimenti, passioni e cultura che scorre nelle nostre vene esisterà solo in quanto trasferito nei transistor della generazione di mecha che ci seguirà. In tal senso, quella sequenza è tra le più vertiginose della storia del cinema, un corto circuito che fa girare la testa. Lo spudorato afflato sentimentale che ha fatto storcere il naso a molti, è invece uno struggente, disperato tentativo di ritorno agli affetti primari.
Se pensiamo con quanta facilità e rozza furia iconoclasta i blockbuster degli ultimi anni strombazzano la fine del mondo, allora forse capiamo come A.I. sia un film ancora assolutamente misterioso, il cui valore nella storia del cinema non è stato davvero colto. 

"That was the everlasting moment he had been waiting for. And the moment had passed."

 

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