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martedì 31 gennaio 2012

War Horse

 
Ma che bello questo cavallo (digitale) che si lancia in una corsa spericolata su uno sterminato e buio campo da battaglia segnato dai cadaveri e dai residui di artiglieria e illuminato a sprazzi dalle improvvise esplosioni di granate che sputano nuvole di terreno paludoso. Chissà che non sia stata proprio l’immagine di questo cavallo a galoppo selvaggio su un terreno di guerra a spingere un signore di nome Steven Spielberg a realizzare War Horse. Perchè il galoppo di Joey è in realtà un volo, come menzionato esplicitamente in un dialogo del film, “un volo su un territorio sconvolto dalla guerra”, in cui non bisogna mai guardare giù se si vuol  tornare a casa. E Spielberg è per eccellenza il regista del volo. Non solo per le biciclette di E.T., gli aereoplani di Empire of Sun e Always, le acrobazie di Hook, la navicella di A.I., ma perché il volo è prima di tutto il volo dell’immaginazione, quello che ci fa metter su le ali per fuggire via dalla banalità del quotidiano. O, come in questo caso, per riprendere possesso di noi stessi.
Un filmone d’altri tempi, questo War Horse. Paesaggi da restare a bocca aperta, portentose scene di massa, bella musica sinfonica,  grandi sentimenti e ideali. I soliti coglioni storceranno il naso parlando di buonismo e di retorica, e si soffermeranno sulle palesi inverosomiglianze (inglesi, tedeschi e francesi parlano tutti in inglese, tutti si innamorano di Joey e cercano di aiutarlo, un inglese e un tedesco uniscono i loro sforzi sul fronte per liberare Joey dal filo spinato,...). Ma quella di Spielberg è una favola, più vicina ad E.T. che a Saving Private Ryan, e come tale va vissuta con occhio vergine e privo di strafottente cinismo. Se stiamo al gioco, e chiediamo al nostro io più zotico e  incattivito di farsi da parte, scopriamo che War Horse è una vera gioia per gli occhi e per lo spirito. Un film che dimostra come la tecnica più avanzata possa essere di supporto al cinema più classico. Il galoppo di Joey sul campo da battaglia, forse la scena più bella del film, non sarebbe stato reso con tanta forza senza l’uso massiccio della tecnologia digitale, abilmente celato nell’impianto tradizionale del film. Solo un cineasta incommensurabile come Steven Spielberg sa ritornare nel 2012 al cinema classico per famiglie, oggi terribilmente demodè, ricostruendolo dall’interno.
Certo, lo Spielberg di oggi non è più quello che trent’anni fa reinventava l’immaginario collettivo ad ogni film.  Ma è forse è l’immaginario collettivo ad essere giunto alla saturazione, e qualsiasi tentativo di aggiornarlo si traduce in orpelli sterili e ridondanti. In tal senso, un ritorno al cinema classico del "più grande sognatore del nostro tempo" è una sana boccata di ossigeno.

venerdì 27 gennaio 2012

1Q84


Tengo e Aomane. Aomane e Tengo.
Il giovane Tengo insegna matematica, scrive romanzi e ha incontri sessuali a cadenza settimanale con una donna sposata. Per il resto, è completamente solo. E’ ossessionato dall’immagine della madre in intimità con un uomo sconosciuto, una scena che crede risalga al suo primo anno di vita. E che non riesce a spiegare. Un giorno viene incaricato di riscrivere in segreto un romanzo, La crisalide d’aria, dal contenuto ambiguo e affascinante, ideato e buttato giù con stile acerbo da una diciassettenne altrettanto ambigua e affascinante. Il romanzo ha grande successo, ma sembra scatenare delle forze misteriose che lo portano a mettere il discussione il suo passato...  
Aomane è un’insegnante di arti marziali. Ed è anche un’assassina, spietata e impassibile, che uccide uomini che hanno esercitato violenza sulle donne.  Un giorno si accorge che nel cielo ci sono due lune. E inizia a pensare che forse non vive più nel 1984 come il resto degli uomini, ma in un mondo parallelo, dove l’anno corrente è il 1Q84. Per molti versi assai vicino al mondo degli altri ma dove il passato è stato riscritto a sua insaputa e molte certezze stravolte.
Tengo e Aomane erano in classe insieme, alle elementari, ma dal giorno in cui, soli in aula, lei gli ha stretto la mano ed è fuggita via, non si sono più visti.
Tengo ama Aomane. Aomane ama Tengo. Ma nessuno dei due sa dell’altro.
1Q84 di Haruki Murakami è un romanzo dal fascino ipnotico. Misterioso come lo sono i sogni. Affascinante come l’anello di Moebius. Coinvolgente come un thriller dell’anima.   
Scandendo con implacabile parallelismo il procedere delle vicende (un capitolo su Tengo, l’altro su Aomane), Murakami restituisce il fascino ermetico degli amori impossibili. Un grande libro sulla solitudine, sulla paura di vivere,  sul disorientamento di un mondo di cui si è perso il senso. Senza piagnistei e lamentele nostalgiche, ma con un gusto per l’invenzione fantastica che ricorda le favole che da bambini ci scaldavano il cuore. Un libro dove tutto può accadere. Con infiniti livelli di lettura, metafore millenarie, assonanze e rime interne; ma basterebbe il solo piacere del racconto, la capacità straordinaria di trascinare il lettore nel mondo dei suoi personaggi e lasciarlo vivere con loro.
Ottocento pagine volano. Come la vita.
Einaudi ha pubblicato le prime due parti di questo romanzo fluviale. Attendiamo con ansia la terza. 

giovedì 19 gennaio 2012

La goliardia

La goliardia si sviluppa nelle comunità studentesche, soprattutto universitarie, e in generale in qualunque ambiente che, per principio, dovrebbe celebrare il valore della cultura e del sapere. La goliardia nasce dall’esigenza di irridere un ordine che rischia di apparire imbalsamato e fuori dal tempo, e in tal senso dovrebbe suscitare comicità. In sostanza, l’assunto implicito di chiunque si dedichi ad attività goliardiche è: “Io, che sono o dovrei essere una persona di cultura e di grandi capacità intellettive, faccio invece cose infantili e ridicole”. Questo assunto ha lo scopo di giustificare le risate di chi si trova davanti ad un certo tipo di comportamenti. Come cantare a squarciagola canzoncine per bambini durante una lezione. O coprirsi di crosta di porchetta e infilarsi una mela in bocca.
La goliardia non ci piace granchè. Il dover ridere di un contrasto tra comportamenti intenzionalmente comici e la presunta serietà di chi ci si dedica, rafforza una visione del mondo a compartimenti stagni. Da un lato i bravi, dall’altro gli scemi, e la vis comica della goliardia nascerebbe appunto dalla cancellazione di tale confine. La goliardia si basa su un assunto conservatore che è già stato confutato infinite volte. E come tale, sfonda porte aperte e non ha nulla di liberatorio. Non ha senso fare gli scemi per pura ostentazione. La goliardia è vecchia e superata. Non è moderno un professore che si reca a far lezione vestito da porchetta con mela in bocca solo far ridere gli studenti. Semmai, lo è un professore che lo fa perché si sente a suo agio. E lo sono gli studenti che non danno peso al fatto.     

mercoledì 18 gennaio 2012

Dopo i titoli di coda: Berlusconi e Carletto

Luci in sala. Il film della Seconda Repubblica è finalmente finito, e scorrono i titoli di coda su musica di Mariano Apicella. Un film strano, un po’ tragicommedia alla Dino Risi e un po’ cinema demenziale alla John Landis. Un film pieno di risate grasse e amare, di quelle che ti fan gongolare sulla poltrona ma alla lunga lasciano un vuoto che fa male. Un film un po’ troppo lungo, però, alla fine eravamo tutti lì a sbirciare l’orologio, quella sequela infinita di figuracce internazionali, processi, orge, arresti, liti, insulti, urla e barzellette, nell’ultima parte è decisamente ripetitiva. Un film che si chiude con un finale aperto; come le acque del Mar Rosso con Mosè, i cantastorie, girovaghi, acrobati e ballerine del circo del parlamento lentamente si fanno da parte per lasciar passare un uomo nuovo, un signore canuto dall'aria sobria e l’andatura decisa. L’uomo del dopo festa, quello chiamato a far conto dei danni e a ripulire il Paese. 
Stiamo dunque per lasciare la sala quando qualcosa torna ad animarsi sullo schermo. E’ la classica scena del dopo titoli di coda, quella che non può mancare in ogni film demenziale che si rispetti. Quella che vuol suggerire: “Pensavate fosse finito, ma eccovi l’ultima perla!”. In tal caso la “perla” è uno dei leit-motiv del film: una barzelletta. Raccontata dal protagonista, che, come fosse necessario, sente ancora una volta la necessità di sfoggiare il suo incontestabile talento di imbonitore da fiera, un talento che gli ha permesso di tenere in pugno un Paese come il nostro per diciassette anni. Nel video in basso potete gustarvi la perla del dopo-titoli di coda; per l’occasione il protagonista si lancia in una performance più intensa di quelle viste durante il film, anche molto fisica oltre che puramente recitativa. Sebbene il gigionismo eccessivo renda difficile la comprensione della barzelletta, lo stuolo di cortigiani ugualmente si sbellica dalle risate, con la consapevolezza che l’attitudine a compiacere il potente è l’unico talento che nel nostro Paese viene facilmente premiato. 
Ok, grazie per quest’ultima scena. E’ ormai ora di spegnere il proiettore.


domenica 8 gennaio 2012

Piovono gabbiani sul fiordo



Il Danske Metereologiske Institut ha annunciato che la tempesta di gabbiani si abbatterà alle quattro pomeridiane su Aalborg Øst. DR2, il canale tv nazionale, ha già cordialmente invitato la popolazione a disertare lo shopping pomeridiano ad Algade, e sia Føtex che Salling sono rimasti chiusi. Ma quando qualcosa di ben più voluminoso di un chicco di grandine sprofonda con un sonoro plock nell’insenatura di Strandpark sono solo le tre e un quarto.  E c’è ancora gente in giro. 
Due plock. Tre plock. Il primo grido di panico. Un anziano signore che passeggia su Ved Stranden prova ad aprire un ombrello. Fatica inutile, uno anzi due becchi di gabbiano lo forano di netto, il vecchio perde l’equilibrio e si getta a terra cercando di farsi scudo con il cappotto.

Piovono gabbiani sul fiordo. Piovono su Strandvejen e su Jomfru Ane Gade. Vengono giù pesanti come birilli, a testa in giù e le ali incollate al corpo. Molti esplodono al contatto con il suolo in una fantasmagoria di piume grigiastre come in una guerra di cuscini. Altri rimangono inermi, becco sigillato, palpebre abbassate e zampe attaccate al petto. Alcuni si infilano nelle ciminiere della Dig e vengono inceneriti.  Sparisce l’azzurro rancido del fiordo. C’è ora una superficie mobile di corpi piumati e grigiastri che prosegue il suo placido movimento verso il Kattegat, dove sfocerà in mare.

Continua a piovere. In preda al panico un omino calvo si getta prono a terra ma i becchi affilati dei gabbiani gli trafiggono la schiena come mille coltellini svizzeri. C’è chi tenta una rovinosa fuga sul ponte di Norresundby ma due pennuti incastrati nell’ingranaggio del sistema di controllo creano cortocircuito e il ponte si solleva bruscamente, alcune persone rotolano giù. Altri finiscono lì dov’era il mare, bucano il tappeto di gabbiani e sprofondano nell’acqua salata, poi tornano in superficie e gridano aiuto, istintivamente si afferrano ai corpi galleggianti dei pennuti come fossero salvagenti e vanno giù di nuovo.  

Tutti fuggono tranne uno. 
Palle Ondtihalsen, noto buzzurro da bar cresciuto a cicchetti e fadøl. Eterno spiluccatore di lattine usate tra i rifiuti di Jomfru Ane Gade. Croce delle delicate donnine impiegate nei centri di recupero alcolisti.  Quello è il suo giorno.  Aziona la sua motosega Black&Decker rubata ai cantieri della Eternit e con un urlo da battaglia si getta verso l’Havnepromenade. Agita la motosega verso l’alto con un movimento circolare, e viso e collo e vestiti si riempiono di frammenti di ali, zampe e piume intrise di rosso. Salta su una barca a motore e con un colpo a frusta dell’avambraccio recide la catena che la tiene ancorata. Aziona l’elica e la barca parte triturando centinaia di pennuti e lasciandosi dietro un minestrone rossastro di teste e piume. Mentre continua ad agitare sopra di sè la motosega facendo strage di gabbiani, emette un lungo grido gutturale a molteplice cambio di tonalità, che in danese vuol dire :”Le sofferenze della mia vita passata sono destinate ad estinguersi come oggi faranno questi fottuti gabbiani... da domani sarò l’uomo più celebre di Danimarca e tu, mia adorata Ruud, tornerai da me e non ci lasceremo più”. 

Ruud. Sta facendo tutto questo per lei. Mai avrebbe dimenticato la sera in cui aveva sbattuto violentemente il mento sul bancone del bar Mallorca dopo che il proprietario aveva scalciato via lo sgabello su cui era seduto intimandogli di abbandonare immediatamente il locale. Si era alzato a fatica raccattando la sua sudicia giacca di pelle, e sedute al tavolo avanti a sè aveva visto due piccole donne identiche, no, era una sola, rotondetta e sorridente, con gli occhi a mandorla. Gli aveva fatto cenno di sedersi accanto a lei ma il proprietario del locale continuava a sbraitare, sicchè lui l’aveva presa per un braccio ed erano usciti. La donnina gli aveva passato una bottiglia di Glenn Grant che lui si era scolato all’istante, poi aveva provato a fare due passi ed era caduto quasi sbattendo contro un lampione. La donnina era scoppiata a ridere. Si era avvicinata e gli aveva rifilato un calcio nel sedere, e giù a ridere di nuovo. Poi aveva ruttato, ma Palle Ondtihalsen aveva pensato che la donnina si stesse presentando.  Ambedue senza una moneta in tasca, avevano trascorso la serata di locale in locale scolandosi ciò che restava nelle bottiglie che i clienti abbandonavano sui tavoli. Poi, alle prime luci dell’alba, si erano trovati soli nei Boulevarden deserti. Lei gli aveva sorriso di nuovo senza timore di mostrare i suoi incisivi spaccati, dopodichè si erano messi a correre a perdifiato, mano nella mano come due adolescenti innamorati, fino a ritrovarsi a terra sfiancati e felici.
Ma prima o poi le sbronze passano, e Palle Ondtihalsen ricordava solo di essersi svegliato a mattino inoltrato raggomitolato a terra davanti alla fontana con le ranocchie di Bispensgade e con una morsa dentata alla testa. La sua Ruud non c’era più. L'aveva cercata, allo Smed Kroen e al Fedtebrød. Era tornato anche al bar Mallorca, e rimediandosi uno sgabello in fronte era stato informato che nessuno sapeva nulla di quella donna eschimese.

Ma adesso poco importa. Domani sarà famoso, la sua Ruud lo vedrà in televisione e correrà da lui. Preso dall’euforia abbassa per un istante la motosega e scuotendo la zazzera biondastra alza gli occhi al cielo urlando: “JEG ELSKER DAA...”. Gli piove in bocca un pennuto che con il becco gli trafigge la gola. Palle Ondtihalsen perde l’equilibrio e cade, con la cinghia della motosega ancora addosso che lo fa  sprofondare giù, giù, e sempre più giù, dove le buste della monnezza impigliate alle lamiere arruginite si trasformano in violacee meduse assassine, e i cocci di bottiglia corrosi dai liquami delle navi sono affilati come i denti di uno squalo tigre.

Termina la tempesta di gabbiani ed è silenzio. I pennuti restano incollati al suolo come per una forza mille volte maggiore della gravità, inermi. La corrente del fiordo finisce di smaltire il manto di gabbiani e l’azzurro rancido torna a riempire quella lingua di mare. Nessuno osa ancora uscire dalle pareti domestiche.

Improvvisamente un garrito stridulo fende il silenzio. Come resuscitato da una torpore ipnotico, un gabbiano solleva le palpebre, scuote la livrea e si libra in volo. Mentre sorvola Ved Stranden continua a garrire imperterrito. Vola alto fino alla cima della torre della fabbrica di Akvavit, poi scende giù in picchiata. Presto i gabbiani in volo sono due. Poi tre, quattro, cinque. Lentamente il suolo piumato prima immobile si trasforma in un tappeto brulicante. A poco a poco interi stormi si librano in volo, uno stridulo concerto polifonico a milioni di voci invade l’aria silente della città danese.  

Ora i gabbiani sono tutti in volo. Si muovono ad enormi stormi che si fondono e si compenetrano con una coordinazione perfetta.  Il sole filtra tra le infinite piume bianco-grigiastre pennellando inenarrabili effetti di luce. La gente osserva sbalordita dalla finestra, le nonne chiamano i nipotini perché quello è un giorno speciale, un giorno che non dimenticheranno mai e che dovranno raccontare ai loro figli. Perché quel giorno il cielo è fatto di gabbiani e i frammenti del vecchio cielo sono chiazze luminose come una volta lo erano le stelle.

(Atelier-gli artigiani della parola, trimestrale di poesia critica letteratura -  Settembre 2011)