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mercoledì 27 febbraio 2013

Quentin Tarantino







In alto i due video delle premiazioni di Quentin Tarantino per la migliore sceneggiatura originale agli Academy Awards: nel 1995 per Pulp Fiction (con Roger Avary) e pochi giorni fa per Django Unchained. Ancora un ragazzetto imberbe nel video di diciotto anni fa, omaccione quasi obeso nel 2013. In entrambi i casi, i video colpiscono per  la totale spontaneità con cui Tarantino riceve il premio e ringrazia il pubblico. Un tono informale che, a differenza di tanti colleghi del mondo dello spettacolo troppo ossessionati dall'idea di mostrarsi diversi, non ha nulla di ricercato e studiato a tavolino. E ci porta a riflettere su quella che e' una delle tante caratteristiche eccellenti di questo personaggio unico: l'autenticita'.
In uno showbusiness in cui ogni singola parola, colore di cravatta o ciuffo di capelli di un divo e' dettato da spietate regole di marketing, da quasi un ventennio Tarantino persegue il suo percorso assolutamente personale e autarchico, fiero di un amore per il cinema totalitario e incondizionato. 
Ma non si tratta dell'ennesimo outsider traboccante di orgoglio, relegato a necrotiche operette di nicchia che fanno gongolare i critici braille"Non voglio essere un prodotto del mio ambiente, voglio che il mio ambiente sia un prodotto di me", diceva Jack Nicholson in The Departed di Scorsese. E lo stesso sembra valere per Quentin Tarantino. Che non segue i trend. Semplicemente, li crea. Il ragazzo prodigio di Knoxville - ex commesso in un videostore- è infatti il caso più unico che raro di un cineasta che, senza scendere ad alcun compromesso, plasma il mainstream a sua immagine e somiglianza. E soprattutto, spinto dall’autenticità della sua "malattia" cinefila ("Cerco di realizzare i film che mi piacerebbe vedere come spettatore", è la semplice e schietta motivazione del suo fare cinema), ha il coraggio mettersi in discussione ad ogni film. Dopo l’enorme successo di Pulp Fiction (forse il film che ha generato più epigoni nell’intera storia del cinema), avrebbe potuto riproporsi al suo vasto pubblico con una pellicola dello stesso genere, magari un sequel, e raddoppiare il successo. E invece si è preso una pausa di tre anni per poi tornare sugli schermi con un film come Jackie Brown, completamente diverso dal precedente. Un discorso simile si potrebbe fare per Kill Bill e Inglorious Basterds.  
Studiato dai teorici del post-moderno per il suo enciclopedico gusto citazionista e la puntuale destrutturazione delle tre unità aristoteliche, è invece (erroneamente) identificato dai più come autore pulp e modaiolo, artefice di una violenza grottesca, iperrealista e stilizzata. Ma dire che Tarantino è un regista pulp è come definire Picasso un disegnatore di caricature. Per quanto ci riguarda, Tarantino è soprattutto un grande storyteller, capace come pochi altri nella storia del cinema di creare personaggi che nascono già mitici, riccamente delineati e dalla morale ambigua, soprattuto donne – sempre rappresentate come forti e lontane da qualsiasi clichè (e non è un caso che, nonostante la violenza, i suoi film siano sempre molto apprezzati dal pubblico femminile). Come sottolinea giustamente lui stesso nel suo discorso agli Oscar di quest'anno, "Se qualcuno tra cinquant'anni riscoprirà i miei film, sarà grazie ai personaggi che ho creato". Insuperato narratore di interni, sublime scrittore di dialoghi, padrone assoluto dei tempi del racconto – ora dilatati, ora improvvisamente accelerati – in grado di tenere incollati allo schermo per la durata spesso consistente dei suoi film. 
Questo è Quentin Tarantino. Altro che pistolettate, schizzi di sangue e battutine cool.    

mercoledì 13 febbraio 2013

Lo schiaffo al berlusconismo (che non c'è stato)



Cara Angela Bruno,
ma perché domenica scorsa, quando eri accanto a Berlusconi alla convention dei venditori di Green Power e lui si rivolgeva a te con doppi sensi da osteria, non gli hai mollato il bel ceffone che meritava? Uno schiaffo sul viso ultraceronato del presidente del PDL, magari accompagnato da un bel “Si vergogni, cafone!”. E’ da un paio di giorni che ci chiediamo cosa sarebbe successo se tu avessi agito così, d’impulso, come una signora per bene che vuol difendere la propria dignità di donna.
Per un istante neanche troppo breve l’ego del Berlusca sarebbe regredito a quello di un'ameba. Magari gli omoni della security avrebbero fatto un passo avanti,  Berlusconi sarebbe diventato rosso d’imbarazzo ma continuando a sfoggiare il solito sorriso di plastica avrebbe poi cercato di sdrammatizzare, “Ma su, come siamo permalose, io scherzavo...” avrebbe detto, o qualcosa del genere, e avrebbe subito cercato di cambiare argomento. Ma a quel punto l’attenzione della platea sarebbe ormai persa irrimediabilmente.
Quale credibilità e carisma volete che abbia, nell’italietta maschilista e retrograda, un leader che si fa prendere a schiaffi da una donna?
L’effetto domino che quel ceffone avrebbe avuto è semplicemente vertiginoso.   Il video avrebbe fatto presto il giro del mondo, e tu, cara Angela, saresti ora la donna più famosa del pianeta, oggetto di decine di strumentalizzazioni, dalla paladina neofemminista alla novella Robespierre. I giornalisti di destra avrebbero parlato di subdola emissaria della magistratura comunista, Rosy Bindi avrebbe ululato di gioia, la Carfagna sarebbe impazzita nel disperato tentativo di arrampicarsi sugli specchi e giustificare l’ingiustificabile.
Ma soprattutto, l’eco di quel ceffone ci avrebbe bruscamente svegliati dal sonno fase REM in cui siamo precipitati da quasi un ventennio. La sua devastante forza simbolica si sarebbe insinuata sottopelle per esplodere in nuove, drammatiche domande: ma come abbiamo fatto ad accettare tutto questo per vent’anni? Ma perché stiamo qui a farci imbonire da una classe politica fatta di vecchietti sessuomani dai capelli finiti, ballerine siliconate e nullafacenti e ladroni con la maschera da porco?
Solo un gesto spontaneo ha la forza di marchiarsi a fuoco nella coscienza collettiva, di svelare orizzonti che erano davanti al nostro naso da sempre, ma che ci ostinavamo a vedere offuscati da una cataratta immaginaria. Nella favola I vestiti nuovi dell’imperatore di Andersen, è la voce di un bimbo quella che svela la nudità del re, che lascia crollare l’incantesimo sulla folla. E che ora si domanda come mai è lì a celebrare la bellezza di un vestito che non esiste. E ne ride.
Ben più che qualsiasi show di Grillo, il ceffone al Berlusca ci avrebbe mostrato con la forza dell’evidenza come sia fragile l’impalcatura del potere, come sia ridicolo lasciare sminuire la nostra identità di popolo da un esercito di acrobati e girovaghi da circo. Il ceffone al Berlusca avrebbe generato presto una nuova, diffusa consapevolezza, che rapidamente ci avrebbe spinto a chiudere a chiave il berlusconismo nell’armadio del passato come si fa con il vestitino del carnevale che ora, da sobri, ci vergogniamo di avere indossato.
Ma purtroppo, cara Angela, quel ceffone non c’è stato. Hai invece addirittura dichiarato di essere onorata di sentirti dire «Ma lei viene? quante volte viene? Si giri. Si può fare ».  E ancora una volta non è cambiato nulla. Il re è nudo ma noi, con immutata e grottesca indolenza, ci ostiniamo a magnificare il tessuto purpureo del suo lungo mantello con strascico e  il disegno araldico dello stemma d’oro sul panciotto.

"La verità è come il vetro
è trasparente se non è appannato
ma per nascondere quello che c'è dietro
basta aprire bocca e dargli fiato"
(Simone Cristicchi)
  




domenica 3 febbraio 2013

Siamo tutti tartarughe


Siamo tutti tartarughe.
Ci portiamo appresso il nostro guscio e sappiamo alla perfezione quando ritirare testa e gambe agli attacchi esterni. Da bambini, quando vedevamo una tartaruga, ce lo chiedevamo sempre:  come ha fatto quel grazioso animale dalla testolina piatta a finire intrappolato in quella corazza così massiccia? Poi, da grandi, lo abbiamo capito: il carapace è parte di lui, è la sua pelle ruvida e verdognola che, in punto preciso ma introvabile, perde la sua natura molle e diventa  dura come un sasso.
Il nostro guscio non è una trappola in cui siamo finiti per sbaglio. E’ parte di noi da sempre.
Camminiamo dunque lenti a causa del fardello che ci trasciniamo addosso, e ogni piccolo passo avanti ci costa fatica. Ma siamo animali a sangue freddo. Quando i raggi di sole si scagliano violenti sulla nostra corazza,  una strana adrenalina ci circola dentro, un fluido eccitante e benefico, e le nostre gambe non sono più rigide e pigre. Il nostro passo si fa veloce e corriamo a sperimentare terreni di cui non immaginavamo l’esistenza. Il guscio, d’improvviso, sembra ora leggero come una bandiera di carta velina che, mossa dal vento, ci suggerisce la direzione dei nostri passi. Non siamo più lenti quando il sole ci batte addosso, colmare distanze impossibili ci sembra, adesso, ridicolmente facile.
Ma poi, inevitabile, arriva la notte. La corazza, nostra croce e delizia, torna a schiacciarci a terra con il suo peso. E ritiriamo braccia e gambe come fossero i remi di un’imbarcazione giunta al porto sicuro. La corazza ci dà sicurezza ma inibisce i nostri passi. Con la testa al sicuro nel guscio, non possiamo fare altro che aspettare il mattino che verrà, nella speranza che i raggi di sole, ancora una volta, ci lasceranno dimenticare per qualche ora il nostro fardello.
E sognare i meravigliosi luoghi lontani che potremmo raggiungere se fosse possibile lasciarci alle spalle il nostro guscio per sempre, come fa un serpente con la sua pelle dopo la muta.