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lunedì 28 marzo 2011

La canzone più bella del mondo

A volte capita che dopo aver ascoltato tre volte una canzone (la prima ci lascia una gradevole sensazione epidermica, la seconda scava più a fondo a tamburellare con polpastrelli invisibili qualcosa di non ancora identificato, alla terza qualsiasi elucubrazione non ha più senso perché ormai siamo cotti) ci sembra che qualsiasi altra canzone sia infinitamente lontana e non abbiamo ritrosie a definirla la più bella del mondo. E poi ci gironzola in testa per settimane come l’unica colonna sonora possibile delle nostre giornate. 
Tutto questo ci è successo con The balcony dei Rumor said Fire, una band danese scoperta per caso sabato sera ad un concerto. Potete ascoltarla cliccando sul video. Il testo originale, invece, è riportato sotto. La canzone più bella del mondo. Nessun dubbio. Ascoltatela. Tre volte però, mi raccomando. 




THE BALCONY

So your mouth tastes like sunshine baby
but your eyes are all cool buried in my arms .
And the breeze takes us deeper and further into the heart of a moment that is gone.

And the scent of your heartache baby
and the taste of your blood run within me
And there are red flowers in your spit when you enter my mouth under the bed
down on the floor.


So take me under the floorboards;
I would love to feel like wood
Take me back to the retards;
cause the world just make me sick
There are colors in the air when I fall to the ground
How we´d love to fall more often.

There´s a band in our cellar baby
and they´re playing a song of the drunks in the street.
And I can hear when they´re playing their love songs
cause the kids in the yard stop playing with their toys.

So take me under the schoolyard
there are kids there who got lost
Their mouths all shouting asphalt and their bodies torn apart
There are colors in the air when I fall to the ground
I can sense a world of heartache
but I love the sound
of your hair
when it falls down from the pillow late at night
On the brink of illusion it´s the devil in my eyes
Waiting for the moment to kill me inside
How we´d love to die more often.

So take my hands love there´s a burst inside our minds
Feel my hands love cause I´m numb from the neck down
And there is fire love on the balcony right here
I can see our bodies burn but sense no fear.

And your mouth tastes like sunshine baby
but your eyes are all cool buried in my arms
And everything matters for a second as we fall to the ground.


domenica 20 marzo 2011

La rabbia di Michele Placido




Spulciando tra le cartelle impolverate di un hard disk esterno che raccoglie file che mi porto appresso da oltre un decennio, è saltata fuori la recensione del film Ovunque sei di Michele Placido. Ricordo di aver visto quel film visto alla Mostra del Cinema di Venezia nell’ormai lontano 2004, quando ero lì come membro di un’associazione giovanile che si occupava di assegnare premi collaterali ai film in gara, nonchè di pubblicare un daily con recensioni e interviste. Ricordo di aver visto il film nella storica sala Perla, adiacente al casinò del Lido, e di essermi recato subito dopo al gazebo che costituiva il nostro stand dove ho buttato giù la recensione che qui riporto testualmente:

Prima o poi doveva arrivare la boiata pazzesca, l'indifendibile ciofeca che ogni anno sfigura in un coro di fishi e booohh tra il pubblico in sala; dispiace che quest'anno sia targata Italia e sia firmata da un regista tutt'altro che disprezzabile come Michele Placido. "Ovunque sei" racconta la storia di un giovane medico cornuto che (forse) muore in un incidente e torna (forse) sulla terra come spirito per riflettere sulla sua storia d'amore con la moglie. Placido si autopromuove al rango di autore, e riflette senza alcun senso della diegesi su vita morte e amore oscillando tra banalità panteiste e predicozzi da catechismo.  Un film che fa ridere, per la nonchalance con cui mescola riflessioni cosmiche con dialoghi della peggiore soap, con un discorso che scarta sempre di livello fingendo di sfiorare verità universali. Insopportabile Stefano Accorsi, che in più di un’occasione sembra la copia carbone del San Francesco di Zeffirelli, e sciorina per l’ennesima volta il suo personaggio di Romeo innamorato e  geloso e con un'insostenibile logorrea nel fuori campo.  Spiace vedere coinvolto nel pasticcio Luca Bigazzi, uno dei migliori direttori della fotografia di casa nostra, che gioca abilmente sui cromatismi notturni e il controluce, cercando di nobilitare una sequela di atroci velleitarismi narrativi. Il peggio del falso cinema d'autore, necrosi di un cinema italiano di cui troppo spesso si esalta l'improbabile rinascita, che di certo tarderà ad attuarsi se film come questi continueranno ad essere inseriti in competizioni di livello internazionale tralasciando magari opere e piccoli fenomeni produttivi infinitamente più stimolanti. Durante la proiezione in sala Perla, dopo l'ennesimo gratuito flou, uno spettatore grida: "Basta! Vogliamo vedere Orgasmo (nota: vecchio film di Umberto Lenzi proiettato in una retrospettiva sul cinema degli anni ‘70)!". E' stato l'unico applauso della serata.

Questo pezzo, che si contraddistingue per una presa di posizione piuttosto netta sul film di Michele Placido, fu molto apprezzato dagli altri membri della crew e dal caporedattore, che era uomo buono e giusto. Il mattino dopo il daily era già stato stampato e distribuito, e io me ne andavo a zonzo per il lido sovraffollato a caccia di starlette hollywoodiane a cui spiluccare autografi e qualche sorriso su cui sognare per i mesi venturi.  Al mio ritorno allo stand, il caporedattore mi disse in tono lapidario e con un forzato sorriso sulle labbra : “Senti, è venuto Michele Placido. Era incazzato nero”.  Ebbene sì, un copia del nostro daily era finita nelle mani del regista pugliese, che, forse alla ricerca di un capro espiatorio per sbollire la rabbia delle stroncature ricevute da penne ben più prestigiose della mia, si era recato al nostro stand. Lì, sbattendo più volte sulla scrivania del caporedattore una copia arrotolata del daily, aveva chiesto di me, ed essendo io assente, si era sfogato sbraitando agli altri membri della crew. Era una vergogna lasciare che dilettanti da sue soldi si permettessero di diffamare il lavoro collettivo di un gruppo di artisti affermati, dando solo motivazioni generiche con tono saccente e sarcastico. Poi era andato via prima che il caporedattore fosse in grado di articolare alcuna risposta.
Confesso che al momento tirai un respiro di sollievo per aver evitato un incontro piuttosto imbarazzante. Ma ora, con il senno di poi, mi dispiace di aver perso l’opportunità di incontrare Michele Placido. Cosa avrei fatto? Credo gli avrei chiesto un autografo, perché è un grande attore. Poi avremmo fatto due passi per il Lido, ci saremmo seduti a bere un mojito sulla spiaggia di Malamocco. E lì gli avrei detto che lui aveva pienamente ragione a dire che eravamo dilettanti da due soldi, ma avevamo tutto il diritto di esserlo, perché non scrivevamo sui Cahiers du Cinema ma su una rivista giovanile, una roba da dilettanti appunto. Ma questo non ci toglieva il diritto di stroncare il suo film, perché le nostre testoline da due soldi pensavano che il suo film facesse veramente schifo. Poi gli avrei consigliato di metter da parte la regia e di assecondare piuttosto la sua intima natura di attore brillante. Perché Michele Placido è un ordinario se non scialbo attore drammatico ma un grande, grandissimo attore brillante. Vedere Il caimano di Moretti per credere: lì è davvero stratosferico.

Riportando tutto a casa



Abbiamo letto Riportando tutto a casa di Nicola Lagioia, che ci è stato calorosamente consigliato da un’amica letterata. Il romanzo, assai acclamato dalla critica nonchè vincitore del premio Viareggio 2010, racconta le vicende di tre ragazzi baresi dagli anni ‘80 ad oggi, con l’ambizione di offrire uno spaccato dell’evoluzione del nostro paese partendo dal suo “decennio più stupido e inutile” (Goffredo Fofi).
Bè, raramente un simile entusiasmo ci è apparso come una clamorosa allucinazione collettiva. I tre personaggi principali sono fumosi (l’io narrante e Giuseppe) o tagliati con l’accetta (Vincenzo), con il risultato che come romanzo di formazione non coinvolge neanche un po’. Per non parlare poi delle vicende economico/sociali delle loro famiglie, di una pesantezza unica. L’autore sembra interessato prima di tutto al rigore filologico, per cui se il romanzo è ambientato negli anni ’80 allora deve riempire ogni pagina di riferimenti alle canzoni, pubblicità, show televisivi, film, marche di scarpe, notizie, videogiochi dell’epoca. Usa una sintassi complicata fino all’inverosimile per raccontare anche la più banale delle azioni dei suoi personaggi, e non si accorge che la sua prosa è farraginosa e piatta, mai energica, musicale, ruspante, caustica, sensuale, e le sue immagini e metafore mai suggestive o visionarie. 
Insomma, come fa a piacere un romanzo con frasi come (cito testualmente):


“Tracciai sulla fredda superficie del lunotto la figura di un omino in bilico che sembrò animarsi fino a quando rimase circondato dallo sfolgorio della concentrazione urbana”,


oppure


“Ma se gli occhi dello Sghigno fossero stati un cielo, il cielo di passaggio su Bari il 27 gennaio del 1986, tra le forze e le luci e le esplosioni di colore che avrebbero punteggiato i grigi quadrilateri degli edifici come un bombardamento visto da un aereo, se quel cielo fosse stato dotato di una lente in grado di stringere verso il secondo piano di una palazzina color ocra del quartiere San Pasquale, avrebbe intercettato una bolla completamente azzurra con un minuscolo puntino rosso al centro che si allargava e tornava a contrarsi come una medusa, e sprofondava infine tra le bianche creste di un lenzuolo disgregandosi in tante striature di un azzurro più profondo”,


oppure


“La luce sotto cui mi era apparso la prima volta tra i banchi di scuola adesso risplendeva in una gradazione ideale, convertendo le sue imprese precedenti in un lungo esercizio preparatorio rispetto a un’esperienza che consentiva di provare sollievo dall’intero processo vitale”.


L’autore spreca decine di pagine con digressioni di poco interesse (per cui se vediamo lo Sghigno che si reca nella villa di Giuseppe allora ci dobbiamo sorbire un intero capitolo sui segreti rapporti di reciproca estorsione tra le loro due famiglie, tant’è che alla fine ci è passata la curiosità di sapere il perché di quella visita...), e liquida invece in mezza paginetta episodi potenzialmente interessanti (i tossici che come gli zombie di Romero vanno a derubare casa di Giuseppe, guidati dallo stesso Giuseppe). 
E per giunta c’è anche un sottofondo di moralismo da talk show trito e ritrito, con i figli che scontano le malattie sociali e l’assenza della famiglia gettandosi a precipizio nel tunnel della droga. Trattasi dell’ennesimo giudizio sui terribili anni ’80? Insopportabile.
Un’allucinazione collettiva, non troviamo altra spiegazione.

Øjet der ser / Niente di vero tranne gli occhi



Ci vien voglia di parlare di Giorgio Faletti in questa grigia sonnecchiosa mattina di metà marzo. Passeggiando con la tipica indolenza domenicale per le vie deserte di una città del Nord Jutland, Danimarca, ci imbattiamo in una copia di Øjet der ser esposta in bella vista in una vetrina di una libreria. Il nome dello scrittore nostrano con caratteri a rilievo. Riconosciamo di che libro si tratta dal layout della copertina, identico all’originale italiano. Øjet der ser, cioè occhio che vede, debole adattamento del ben più suggestivo Niente di vero tranne gli occhi. E per un attimo ci scordiamo del Nord Jutland e siamo di nuovo in Italia, nel dicembre 2004, quando della Danimarca sapevamo soltanto che è situata " 'ncoppa alla Germania "  e il secondo libro di Faletti era appena uscito in libreria. Faletti è forse il più eclettico degli artisti italiani: si afferma come attore comico e cabarettista di razza, ma nel ’94 quasi vince il festival di Sanremo con una canzone di rara forza espressiva ispirata alle stragi di via D’Amelio e di Capaci, nel 2002 si reinventa scrittore di thriller con l’estenuante Io uccido e vende milioni di copie, forte anche di un massiccio battage pubblicitario e dei commenti entusiastici di qualche critico furbastro e di una grande firma d’oltreoceano (niente di meno che Jeffrey Deaver, che definisce il Giorgione nazionale “bigger-than-life”).
Niente di vero tranne gli occhi è il suo secondo romanzo, assai migliore del primo. Ha una lunghezza di circa 500 pagine, cioè oltre 200 in meno che Io uccido, e ciò è un pregio notevole visto che le ultime 200 pagine di Io uccido si potrebbero strappare senza alcun indugio. Anche qui ambientazione internazionale, principalmente New York e Roma in qualche capitolo, per la storia di un misterioso serial killer che compone i corpi delle sue vittime come i personaggi dei Peanuts. Ad indagare è Jordan Marsalis, figlio del sindaco di New York e fratello di una delle vittime, aiutato da Maureen Martini, una poliziotta italo-americana che ha appena subito un trapianto di cornea ed è spesso vittima di strane visioni... Una vicenda assai complessa, che a tratti ha anche il coraggio di scivolare nel fantasy puro. Ma lo fa in punta di piedi, evitando le cialtronerie di tanta letteratura analoga. Pur essendo uno scrittore thriller, Faletti ha la chiara ambizione di scavalcare i limiti della scrittura di genere. E qui ci riesce meravigliosamente, senza mai inficiare il pathos del racconto. Non ha paura di interrompere la narrazione con lunghe digressioni introspettive sui personaggi, anche quelli secondari, descrivendo con sana cattiveria lo squallore delle vittime, dall’artista folle ed egocentrico alla regista viziata e incapace allo scrittorucolo servile e corrotto.  Sa raccontare con finezza psicologica e senza clichès da subplot romantico la storia tra il detective Marsalis e la transessuale Lysa. E sa far rabbrividire il lettore per pura forza di scrittura, senza abusare di colpi bassi ed effettacci splatter.
Faletti non ha più scritto un libro così, nelle prove successive non è più riuscito a dosare gli ingredienti del suo impasto narrativo con tanta sapienza. Ma può ben dirsi orgoglioso di un romanzo come questo. A rischio di sottovalutazione, come capita ai capolavori.  

sabato 19 marzo 2011

L'insostenibile pressapochismo di Luca Luciani


Trascriviamo con scrupolo filologico il discorso con cui Luca Luciani, numero uno di Tim Brasil e indicato come futuro direttore generale di Telecom Italia, ha incitato alla riscossa i venditori Tim in una convention a Roma:

“Questo è il messaggio a cui tengo molto. Perché ho la faccia incazzata? Ho la faccia incazzata perché respiro... sfiducia, respiro... aria di aspettativa, respiro... quelle facce da senso critico come quando uno vede una partita di pallone non ce la fa tutti sono professori... perchè? Perchè la gente legge i giornali, vede il titolo, si rimbalza, si crea dei grandi film che sono tutte cazzate. Oggi non parlo di Alessandro parlo di Napoleone. Napoleone a Waterloo, una pianura, in Belgio, fece il suo capolavoro. Tutti lo davano per fatto, per cotto, per la supremazia degli avversari, ci aveva cinque grandissime nazioni contro, delle forze in campo. Però strategia, chiarezza delle idee, determinazione, forza, Napoleone fece il suo capolavoro a Waterloo. Allora le facce scettiche, le facce di..., non servono a un cazzo. Questa è una delle aziende più belle che esiste al mondo. E allora, forte di questa convinzione, noi dobbiamo dimostrare che questo è un fatto. Piangersi addosso non serve assolutamente a niente. E come nel momento duro, dagli spalti la gente ti dice “Eh, la squadra non gira, non corrono...”, bene: correte di più, stringete i denti. Prova di carattere. E allora dagli spalti vi applaudiranno. Perchè voi andrete e segnerete. Come fece Napoletone a Waterloo.”

Non è intenzione in questa sede commentare la clamorosa gaffe storica di Napoleone (o Napoletone?) vincitore a Waterloo, su cui già si è detto e ironizzato tanto sul web. E neanche liquidare con facile sarcasmo la persona di Luca Luciani, di cui non sappiamo nulla, e magari al di là di questo increscioso episodio è anche un manager di valore.
Immaginiamo piuttosto che la scena vista appartenga ad una di quelle caustiche commedie all’italiana del tempo che fu. Uno di quei film che non si vergognavano di mettere in scena i mostri dell’Italia di ieri e che oggi sono sempre più rari (i film, non i mostri...). Cosa vedremmo in questa commedia? Un manager belloccio, fisico ma anche espressività facciale da tronista, convinto del proprio carisma, che sembra ripetere a memoria un discorso che lui crede assai colto, ma non si accorge di un’imbarazzante povertà di linguaggio (ma come si fa a dire “una partita di pallone”? Aveva forse in mente la canzone di Rita Pavone?), dell’incapacità di usare congiuntivi o costruire periodi complessi senza perdersi per strada. E soprattutto, di usare espressioni appropriate e similitudini che non siano assolutamente fumose.  
Un paio di esempi.  Luciani è infastidito dal respirare “aria di aspettativa” e quelle che chiama “facce da senso critico” (si respirano???). E per spiegarsi meglio, usa la più risaputa delle similitudini sportive. Le “facce da senso critico” di quelli che si ergono a giudici delle scelte tattiche di un allenatore o delle capacità di un giocatore in una partita di calcio. Almeno questo è quello che crediamo di intuire dalla frase usata da Luciani:

“quelle facce da senso critico come quando uno vede una partita di pallone non ce la fa tutti sono professori”

Non bisogna avere spirito critico, sembra dirci Luciani, non siamo tutti professori.  Se non si è professori è meglio stare zitti. Anche perché, continua:

“la gente legge i giornali, vede il titolo, si rimbalza, si crea dei grandi film che sono tutte cazzate”

Ovvero, all’incirca, la gente si lascia influenzare dai titoli dei giornali e costruisce convinzioni che poi si rivelano castelli di carta (il soggetto del “si rimbalza” ci rimane ancora ignoto).
Luciani non si accorge della contraddizione insita in queste due frasi del suo discorso. Non se ne accorge perché forse nella sua testa non c’è, ma purtroppo nel linguaggio da lui utilizzato esiste eccome. In sostanza, ciò che Luciani afferma, forse convinto di dire altro, è che non bisogna avere aspettative (su cosa???), non bisogna essere critici e infine non bisogna lasciarsi influenzare da ciò che dicono gli altri.
Caro Luca, di solito è chi non ha senso critico che si lascia influenzare facilmente da gli altri, e non viceversa. E se fosse vero, come suggerisci tu, che non bisogna “criticare”, ciò dovrebbe valere anche per te che invece sembri convinto di riconoscere “i professori” da chi del “senso critico” ha solo la “faccia”.
Le parole sono importanti, chi parla male pensa male, vive male, diceva Nanni Moretti.
E in un monologo che alla fine partorisce il solito trito incoraggiamento a "stringere i denti", ciò che più sorprende è la sicurezza con cui Luciani sembra convinto di sdoganare il linguaggio da simil-caserma agli alti livelli manageriali.  L’utilizzo di espressioni come “faccia incazzata”, “sono tutte cazzate”, “non servono a un cazzo” appare tutt’altro che spontaneo e in tal senso lontanissimo dall’essere liberatorio o irriverente. Sembra infatti che Luciani abbia riflettuto a lungo su dove spingere i confini del suo linguaggio, con l'ambizione forse di fondare un nuovo paradigma della comunicazione manageriale. Tempo perso, caro Luca. Forse sarebbe stato più utile cercare Napoleone su Wikipedia. 
Il Luca Luciani di questo video è un grande mostro da commedia all'italiana. Perfetta immagine dell'arrivista che si fa strada sgomitando e sfoggiando pressapochismo da battaglia. Perché l'importante è avere la "faccia incazzata", e poco conta se non si è in grado di spiegarne il motivo. Quanto poi questa immagine corrisponda alla vera persona di Luciani, non siamo in grado di dirlo. Per ora ci godiamo lo spettacolo.