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venerdì 29 novembre 2013

L'uomo che teme il silenzio

Molte persone, anche adulte, hanno paura del buio.
Giuseppe, invece, ha paura del silenzio. Lo terrorizza l’istante in cui apre la porta di casa quando torna da lavoro, e la trova oscenamente muta. E allora si precipita immediatamente sullo stereo in soggiorno e preme il tasto ON. Sospira, il fruscio della radio è per lui un siero benefico. Sceglie una stazione a caso, regola la manopola del volume e si lascia cadere sul divano.  A volte collega l’ipod alle casse e mette su gli Oasis, i Pixies e Christina Aguilera. Poi accende la televisione e fa zapping cercando MTV o qualche canale fracassone. Cena a base di pane e yogurt mentre sullo schermo vanno in onda i videoclip delle band più trendy del momento, e le loro canzoni, la loro musica, il loro rumore, si insinuano placidi e rassicuranti tra le quattro pareti del suo bilocale. Teme ancora gli istanti di pausa tra una canzone e l’altra, e quando il momento della pausa arriva Giuseppe stringe gli occhi temendo che il silenzio lo assalga alle spalle come un ninja affondandogli  la sua subdola lama in gola, ma poi la musica riparte e tira un sospiro di sollievo. 
Ci sono sempre musica e rumore a casa di Giuseppe, anche quando dorme, vuole che gli scombussolino i sogni e non lascino neanche loro in balia del silenzio.

Ma un giorno c’è un black-out. Tragicamente televisione e stereo ammutoliscono e la casa è improvvisamente più silenziosa di una chiesa di campagna in una giornata di agosto. In preda al panico, Giuseppe si precipita verso la cucina, tira giù due piatti dalla credenza e inizia a sbatterli l’uno contro l’altro mentre batte a terra il piede destro al ritmo di un generico OH-OH-OH. I piatti si scontrano con un rumore acuto che gli trasmette scariche di benessere. Ma poi Giuseppe sbatte i piatti un po’ troppo forte e questi vanno in frantumi. Immediatamente afferra altri due piatti, ma poi pensa non voglio distruggere la cucina, e trova un’altra soluzione. Inizia a cantare. A squarciagola, stonato. Canta Nel sole di Al Bano, Se telefonando di Mina e Champagne di Peppino di Capri. Presto ha il mal di gola, si accorge che sta per diventare afono e cerca di escogitare per tempo un’altra soluzione ma non gli viene nessuna idea.
Qualcuno bussa alla porta d’ingresso, e Giuseppe si precipita ad aprire. E’ Priscilla, la sua dirimpettaia. Che diavolo succede, chiede, cos'è tutto questo fracasso. Giuseppe la afferra per un braccio facendola trasalire, chiude la porta di casa e la trascina in soggiorno.
Ti prego, parla!, le urla.
E cosa dovrei dire, chiede lei sorpresa.
Quello che vuoi, purché tu lo faccia ad alta voce e senza pause, risponde Giuseppe.
Incuriosita e convinta che si tratti di un gioco, Priscilla accetta la proposta. Inizia a raccontare la sua giornata, le persone che ha incontrato, la cena con le amiche del liceo, il film con Jean Paul Belmondo che ha visto ieri sera, gli ultimi scandali della politica locale. Lo fa con una voce squillante che a poco a poco finisce per rassicurare Giuseppe, che torna a sedersi sul divano e sospira. 
Io lo so perché hai paura del silenzio, dice improvvisamente Priscilla lasciando Giuseppe di stucco. 
Cosa dici, chiede lui.
Hai paura del silenzio perché hai paura di ascoltare, dice Priscilla. Eppure una volta non ne avevi paura. Sapevi bene che solo il silenzio è una parte fondamentale dell'ascolto, sapevi che il silenzio è come gli spazi bianchi di un foglio scritto che danno un senso compiuto ai filamenti d’inchiostro che qualcuno ha deciso di porvi sopra.  
Poi, ascoltare ti ha fatto soffrire. E hai deciso di non farlo più, hai voluto versare il calamaio su quel foglio scritto rendendo illeggibili le parole.  Adesso hai paura che il silenzio possa dare di nuovo un senso alle parole che hai voluto cancellare, perché quelle parole ti fanno del male.
Ma se pensi di cancellare quelle parole ricoprendole di musica e rumore, ti sbagli. Puoi seppellirle, metterci sopra strati di terra e cemento, ma quelle parole resteranno sempre lì in basso, a farti del male. E’ solo dissotterrandole, è solo cercando di rimuovere l’inchiostro superfluo che puoi provare a farle asciugare al sole. Fino a farle sbiadire, forse. 

Poi Priscilla dice di essere in ritardo per un appuntamento e va via. Giuseppe resta solo e improvvisamente le parole che gli hanno fatto male tornano su rapide come bolle in una vasca idromassaggio. Sono le parole affilate di un monologo che inizia con  “E’ stato tutto uno sbaglio”. Il lungo monologo di Camilla, la sua Camilla dagli occhi nocciola e il viso da ragazzina, seduta a gambe incrociate sulla sua poltrona Frau, mentre lui ascolta incredulo e cerca di marchiare nella memoria ogni tratto di lei, dal tono della voce alla ciocca ribelle di capelli, dal neo sopra l’occhio sinistro alle labbra lucide e spesse. Consapevole del fatto che non la vedrà mai più.
La casa è di nuovo in silenzio, ma adesso Giuseppe non è più smanioso. Perché le parole che lo hanno fatto soffrire sono venute fuori e sono più assordanti di un concerto dei Metallica con amplificatori a diecimila watt. Hanno già riempito casa, rimbalzano violente e incuranti tra le pareti come mille palline da tennis.
Giuseppe ne ha paura. Prende uno zaino da campeggio e ci infila dentro una coperta e un cuscino. Esce di casa facendo sbattere la porta e suona nell'appartamento di Priscilla. 
Se non ti dispiace, questa notte mi fermo a dormire da te, dice a Priscilla quando lei apre la porta d’ingresso. Le parole che mi hanno fatto male sono tornate su improvvise e hanno preso possesso di casa mia, rimbalzano assordanti tra le pareti e non mi lasciano più spazio.  Domani tornerò a casa e so che saranno più deboli, e dopodomani lo saranno ancor di più. Alla fine saranno tenui come un eco dimesso, e verranno  assorbite dalle pareti. Ma stasera sono ancora tanto rumorose.
Priscilla è dapprima stupita, poi sorride e lui si accorge della fossetta sulla sua guancia destra.
Fammi dormire da te, continua Giuseppe, resterò in un angolino e mi farò piccolo piccolo. Però ti prego, raccontami qualcosa, ho bisogno di parole nuove perché mi sono liberato di quelle vecchie e sento un vuoto allo stomaco. Ma stavolta non urlare, aggiunge Giuseppe, sussurrale soltanto. 

domenica 3 novembre 2013

En italiensk sang til jer

L’iniziativa En italiensk sang til jer, promossa dall’istituto italiano di cultura di Copenhagen, si era diffusa rapidamente nell’intero paese con inatteso successo.  L’idea di base era molto semplice: si sceglie una bella canzone italiana e la si canta in coro negli autobus di linea, con lo scopo di incuriosire i danesi presenti e favorire l’integrazione, anche culturale, con i tanti immigrati italiani che popolano le cittadine scandinave.
Ruggero Bartolacci, residente ad Aalborg da oltre dieci anni e da sempre promotore di iniziative volte ad avvicinare i cittadini danesi alla conoscenza del Belpaese, si era immediatamente proposto come responsabile locale dell’iniziativa. A tal proposito aveva scelto una canzone, Fin che la barca va, non inflazionata come Azzurro o Volare ma ricca di ritmo ed ottimismo, e di certo molto adatta ad essere cantata in coro su di un autobus con l’entusiasmo di una gita scolastica. Aveva dunque coinvolto i suoi amici italiani locali e aveva fatto stampare un centinaio di flyer con il testo della canzone, da distribuire all’entrata dell’autobus a tutti i viaggiatori. E soprattutto, aveva avuto una brillante idea che sicuramente avrebbe dato un valore aggiunto alla performance; il suo amico Peder Nielsen, autista dell’autobus su cui si sarebbe cantata la canzone di Orietta Berti, avrebbe partecipato attivamente al coro. 
Si era dunque recato a casa di Peder con il testo della canzone, e l’avevano studiata insieme. Era questi un omone ormai prossimo alla pensione dagli occhoni grigi e dal sorriso gioviale. Accettò con entusiasmo la proposta di Ruggero, da anni suo buddy di fiducia nel circolo di bocce, e insieme a lui ascoltò decine di volte la canzone, sforzandosi di coglierne il ritmo e la pronuncia. L’idea di Ruggero era che Peder sarebbe intervenuto cantando da solo la parte finale del ritornello. Lui e i suoi amici italiani avrebbero cantato la parte che fa:

Fin che la barca va, lasciala andare,
fin che la barca va, tu non remare,
fin che la barca va, stai a guardare,

dopodichè Ruggero avrebbe urlato uno stop!, Peder avrebbe frenato, si sarebbe alzato dal posto di guida e, rivolto ai viaggiatori, avrebbe intonato:

quando l’amore viene il campanello suonerà,
quando l’amore viene il campanello suonerà.

L’effetto sarebbe stato grandioso, uno straordinario coup de théâtre. Avevano dunque studiato insieme sillaba per sillaba la pronuncia di quel ritornello di cui Peder non si era neanche chiesto il significato. Non era stato facile, Peder non era portatissimo per le lingue straniere e le vocali se ne andavano a zonzo nella frase, ma dopo centinaia di prove era in grado di pronunciare qualcosa che suonava come kuan do lamora vena ilka panelo sonera. Accettabile, insomma. 
Il giorno dopo Ruggero salì dunque con i suoi amici italiani sul bus numero due diretto verso Gistrup strizzando l’occhio al suo amico Peder al volante. Uno studente erasmus di Vicenza rimase in piedi all’ingresso  distribuendo i flyer con il testo della canzone ai danesi che entravano, mentre gli altri si sistemarono agli ultimi posti.
Quando il bus si mosse dal terminal imboccando Jyllandsgade, Ruggero si alzò in piedi, e schiarendosi la voce iniziò ad intonare:

Il grillo disse un giorno alla formica...

Immediatamente, come d’accordo, gli italiani che erano con lui seguirono con :

...il pane per l’inverno tu ce l’hai...

e così via. Cantavano a squarciagola con un entusiasmo liberatorio da scolaretti birbanti, mentre Ruggero agitava i gomiti in aria  imitando un esagitato maestro d’orchestra. I danesi si voltavano curiosi, alcuni avevano un’aria contrariata per il troppo casino, altri con un sorrisetto da semiparesi facciale gettarono uno sguardo al testo  della canzone provando anche a biascicare qualche parola. Arrivò dunque il ritornello di Fin che la barca va, accompagnato da un fragoroso battimani ritmato, e, quando fu il momento, Ruggero gridò lo stop! ai suoi amici che come da copione ammutolirono all’istante. 
Peder fu di parola. Frenò bruscamente, si alzò in piedi, e puntando l’indice verso i viaggiatori pronunciò quella che nelle sue intenzioni era la parte finale del ritornello. Ne uscì un’arzigogolata cacofonia di sillabe smozzicate e impronunciabili,  qualcosa che con buono sforzo di rielabolazione potrebbe essere trascritta come calosomoraveheloooramikanziano...  
Ma non fu la delusione per la pessima performance di Peder a far precipitare la situazione. Fu la frenata, la sua brusca frenata, il cui contraccolpo fece cadere a terra il Samsung Galaxy S3 di Filippo, un ragazzo impulsivo e poco accomodante che a malavoglia si era prestato al progetto di Ruggero . Quando lo raccolse, Filippo si accorse con orrore della grottesca ragnatela che campeggiava sul display di vetro, rotto, irrimediabilmente rotto. E pensare che lo aveva comperato al Fona due giorni prima... Senza pensarci un istante, si mosse infuriato verso Peder e urlandogli un intenso “Ma come cazzo freni testa di cazzo!” gli allungò una sonora sberla in faccia. Il viso bonario di Peder divenne rubicondo all’istante, e incredulo per quell’inatteso torto subito biascicolò un silenzioso for Saten... tra i denti, mentre i suoi occhioni grigi sembravano chiedersi il perchè di quel brutto gesto.  Improvvisamente Filippo fu afferrato alle spalle da un culturista vichingo dalla mascella quadrata che con un sonoro "Hvad fanden laver du?!?"  lo sbattè contro la porta pneumatica dell’autobus. Filippo capì subito che non aveva molto da ottenere reagendo ad un gigante di tale portata e la rabbia gli sbollì all’istante, ma Ruggero si avvicinò afferrando il culturista per il braccio invitandolo a non reagire e a scusarlo. Bastò un semplice strattone per far cadere Ruggero a terra, mentre un altro italiano prendeva il culturista di sorpresa allungandogli un potente calcio nel culo. Quella che poteva diventare una rissa fu fermata in tempo da un gruppo di danesi che fece cerchio intorno al culturista implorandolo di non prendersela, di lasciar perdere, mentre gli italiani silenziosamente scivolavano ai loro posti e Peder, tremante, componeva il 114 sul cellulare. Quando arrivò la Politi l’autobus fu fatto parcheggiare nei pressi di Østre Alle, e fu chiesto a Peder, Ruggero, Filippo e gli altri di ricostruire l’accaduto. Alla fine Filippo fu costretto a chiedere scusa e stringere la mano a Peder e al culturista, che si chiamava Knud e continuava a fissarlo con l’aria di chi muore dalla voglia di strappargli un orecchio con un morso.  Silenziosamente tutti i viaggiatori scesero dall’autobus, alcuni si recarono alla fermata più vicina, altri, scossi dalla vicenda, tornarono a casa e si presero un giorno di malattia.

Ma l’increscioso evento sull’autobus di Aalborg non passò inosservato. In poche ore tutti i giornali e i talk show finirono per parlarne, divenne l’argomento del giorno. Si risuscitarono vecchi spauracchi nazionalisti di sfiducia e diffidenza verso lo straniero, il Danske Folke Parti estremizzò le proprie posizioni razziste estendendo le ragioni del loro rifiuto all’integrazione dagli extra-comunitari a tutti i cittadini europei non scandinavi.
Naturalmente l’iniziativa En italiensk sang til jer fu sospesa, con notevole imbarazzo e disagio da parte dell’istituto italiano di cultura di Copenhagen. 
Per i mesi seguenti Ruggero fu tormentato dai sensi di colpa. Non avrebbe dovuto strafare, avrebbe dovuto lasciare Peder guidare l’autobus e basta. Notò una crescente diffidenza dei suoi colleghi al circolo di bocce, e Peder non lo guardava quasi più. 
La notte era tormentato dagli incubi.
Una volta sognò di essere intrappolato in un autobus insieme ad altri italiani. Porte e finestre erano chiuse, non c’era via d’uscita. Al di fuori, un gruppo di danesi li osservava sbevazzando dalle lattine di Carlsberg che si erano portati appresso, e li scherniva sputando o pisciando sulle finestre. Poi, con uno sforzo coordinato e decine di oooo-issa!!, i danesi sollevarono le ruote laterali e rovesciarono l’autobus su di un lato. Gli italiani all’interno caddero sopra le finestre con lamenti e grida fragorose. Dopodichè i danesi rovesciarono di nuovo l’autobus nello stesso verso, e poi di nuovo, e poi di nuovo ancora, facendogli percorrere in quel modo gli interi Boulevarden, mentre gli italiani venivano sballottolati nell'abitacolo come ghiaccio e caffè in uno shaker. Alla fine l’autobus arrivò fino a Strandvejen, e con un ultimo sforzo i danesi lo gettarono nel fiordo. Brindando con un sonoro Skål, tracannarono un’ultima birra e se ne tornarono a casa. L’autobus andò giù rapido, mentre l’acqua iniziava a filtrare dalle fessure sul basso e sulle porte pneumatiche. Eppure gli italiani all’interno, seppur malridotti, riuscirono con sforzo sovraumano a sradicare una delle aste di sostegno per i passeggeri. La scagliarono ripetutamente contro il vetro della finestra laterale, che iniziò ad incrinarsi e alla fine andò in frantumi, allagando completamente l’abitacolo. Gli italiani evasero attraverso la finestra rotta, e nuotarono fino alla superficie. Uno di loro emerse con un pannello  pubblicitario di legno che aveva sganciato dalla parete laterale dell’autobus. Gli italiani si aggrapparono dunque al pannello galleggiante e vi salirono sopra, bilanciando abilmente il peso sui quattro lati per evitare di capovolgerlo. Alla fine eccoli lì, trasportati verso il Kattegat a mo' di zattera da un pannello pubblicitario del Føtex. Fradici, malconci e infreddoliti, ma vivi. Uno di loro starnutì fragorosamente. Dopodichè, con voce dapprima fioca poi sempre più convinta, iniziò ad intonare:

Fin che la barca va, lasciala andare,
fin che la barca va, tu non remare...