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venerdì 24 gennaio 2014

M'ha fregato cent'euro 'sto figlio di...

Gennaro Morelli era un ragazzo solare, aperto, esuberante, spiritoso e dalla risata contagiosa. Una di quelle persone che è sempre un piacere avere al proprio fianco, che è in grado di risollevarti il morale nelle giornate più dure. Una di quelle persone con il dono di piacere a tutti. Aveva però una caratteristica alquanto bizzarra: quando incontrava un amico, si immobilizzava per un istante fissandolo con occhi spiritati, poi batteva a terra il  piede destro a mo’ di soldato, allungava un braccio verso di lui ed esclamava: “M’ha fregato cent’euro ‘sto figlio di puttana!”. Dopodiché lo abbracciava con affetto cameratesco e con sonore pacche sulla spalla, gli chiedeva di lui e che fine avesse fatto, e i due amici se ne andavano a zonzo insieme tra risate fragorose e allegri spintoni.
Non era assolutamente vero che tale amico avesse usufruito delle finanze di Gennaro. Era solo il suo modo di salutare. Molti dicono: “Ohi ciao, grande!”. Gennaro diceva: ”M’ha fregato cent’euro ‘sto figlio di puttana!”. All’inizio gli amici erano abbastanza stupiti da quell’espressione e gli chiedevano un po’ piccati a cosa diavolo si riferisse. Ma presto impararono ad apprezzarla; era divertente, insolita, una caratteristica unica che faceva di Gennaro una persona ancora più speciale.
Un giorno Gennaro aveva spiegato l’origine di quella sua curiosa singolarità, che risaliva ai tempi in cui era studente alla facoltà di economia. Una volta era malato e con la febbre a quaranta, chiuso in casa senza la forza di alzarsi dal letto. Nessuna medicina e frigorifero vuoto; era il suo turno di fare la spesa ma naturalmente non l’avrebbe fatta. Per di più, aveva notato poco prima che dal suo portafoglio era sparita una banconota di taglio elevato. Aveva iniziato a sospettare del suo inquilino Giuseppe, che forse aveva rubato i suoi soldi e lo aveva lasciato lì a morire di fame e di influenza. Ma improvvisamente Giuseppe era rientrato a casa con due buste del Tigre di cui una piena di cozze calabresi. E poi gelato, caramelle, nutella e tanto altro. In più, gli aveva riversato sul letto una busta di scatolette di Efferalgan, Tachipirina e Zitromax. Giuseppe aveva preparato l’impepata di cozze con contorno di patate fritte e ketchup, e aveva servito il suo amico a letto. Mentre si ingozzava di cozze e ketchup e riacquistava le energie annebbiate dal febbrone da cavallo, Gennaro aveva rivolto a Giuseppe uno sguardo pieno di sincera gratitudine esclamando: “M’ha fregato cent’euro ‘sto figlio di puttana!”. E i due amici erano scoppiati a ridere all’unisono.
Da quella volta Gennaro non era riuscito ad evitare di rivolgersi così a qualsiasi amico che era contento di incontrare. Un modo unico per esprimere un affetto sincero e privo di stucchevoli smancerie.

Ma un brutto giorno le cose cambiarono. Successe quando Gennaro e i suoi colleghi dell’aziendina di pomelli da lavandino in cui lavorava uscirono a prendere una birra in un pub irlandese, e per la prima volta si unì anche Saverio, il loro superiore. Era questi un ometto sulla quarantina calvo e dall’aria austera, che di rado scambiava la minima confidenza con i suoi impiegati. Era sempre serio e non rideva mai. Ma con grande sorpresa, quella sera Gennaro e colleghi scoprirono un Saverio inedito e sorprendente. Bastavano un paio di birre perché lui si lanciasse in una serie di spassosissimi aneddoti sui suoi viaggi di lavoro o sulle sue conquiste erotiche di quando aveva dieci anni di meno e qualche capello in più. Alla terza birra si dedicò poi a riuscitissime imitazioni dei colleghi non presenti, che fecero letteralmente spanciare dal ridere Gennaro e gli altri. Poi nel locale misero  su una Riverdance e Saverio si tuffò in pista ancheggiando con inattesa perizia al ritmo di quel ballo appreso quand’era studente erasmus a Dublino. Un personaggio straordinario, insomma, una vera rivelazione!
Quando il giorno dopo Gennaro entrò in ufficio, Saverio lo salutò con una eloquente e complice alzata di sopracciglia che stava a significare: ”Grande serata ieri, eh?”. E Gennaro lo fissò, battè il tacco a terra e indicandolo con il braccio esclamò: ”M’ha fregato cent’euro ‘sto figlio di puttana!”. L’espressione sul viso di Saverio mutò all’istante. Gli diede subito le spalle e si allontanò. Gennaro, esterrefatto, si chiese come diavolo gli fosse uscito quel saluto con lui, che dopotutto era sempre il suo capo. Con tragica preoccupazione pensò che Saverio avesse potuto trovarci un riferimento al fatto che la sera prima Gennaro gli aveva offerto le ultime tre birre perché Saverio non aveva banconote di piccolo taglio. Lo seguì dunque per il corridoio, lo fermò e si scusò. Gli spiegò che quell’espressione era solo un suo modo di salutare, che diceva quella cosa a tutti i suoi amici, che non si riferiva a nulla di specifico. Ma Saverio lo liquidò con un gelido “E’ la scusa più idiota che io abbia mai ascoltato”.

Da quel giorno qualcosa cambiò in Gennaro. Continuò per un po’ a salutare i suoi amici con il solito “M’ha fregato cent’euro ‘sto figlio di puttana!”, ma con tono quasi dimesso, senza entusiasmo, senza neanche battere il piede a terra. E poi smise del tutto. La sua colorita espressione si convertì in un misero Cia... biascicato a labbra socchiuse. Gennaro non sorrideva più, non riusciva più a trasmettere quella straordinaria gioia di vivere che lo rendeva così popolare tra gli amici.
A lavoro Saverio non gli dava più alcuna confidenza, a volte evitava il suo sguardo in modo quasi ostentato. Quando l’azienda si trovò a fronteggiare le prime avvisaglie della crisi finanziaria, Saverio sapeva già qual era il primo nome da depennare nella lista dei suoi dipendenti.
E così Gennaro perse il lavoro. Prese a trascorrere intere giornate chiuso in casa davanti alla televisione a far nulla, e se un amico passava a trovarlo lo accoglieva svogliato, non gli offriva neanche un bicchier d’acqua e lo lasciava parlare senza ascoltarlo. Era sparito il suo saluto tipico. E con esso, sembrava sparito Gennaro stesso.
I suoi amici non ce la facevano più a vederlo così, si chiedevano dove fosse finito il suo sguardo scintillante e la sua battuta pronta, e volevano che tornasse quello di prima. Ma non sapevano proprio come aiutarlo. Finché Fabiola, una ragazza che lo conosceva dall’infanzia e che era da poco laureata in psicologia, ebbe un'idea. “Dobbiamo far rivivere la situazione che lo ha portato ad essere quello che era e a dire quel che ha detto, disse. Dobbiamo far sì che lui ci guardi e pensi di nuovo con gioia: ‘M’ha fregato cent’euro ‘sto figlio di puttana!’ E’ il solo modo di farlo tornare ad essere quello di un tempo“.
Nonostante i ragionevoli dubbi, gli amici di Gennaro decisero di seguire il piano di Fabiola. Una domenica mattina un certo Michele si recò dunque da Gennaro, con notevole fatica riuscì a scuoterlo dalla sua indolenza e lo convinse a venir fuori con lui per un giro in macchina. Con una vecchia Cinquecento andarono dunque fuori città, su e giù per le colline. Si fermavano davanti a prati dove pascolavano centinaia di pecore e Michele diceva: “Guarda Gennaro, guarda come sono belle, senti che delicato profumo di stalla e letame”, ma Gennaro sembrava non avere alcuno stimolo, lo seguiva come uno zombie. “Ho un po’ fame, Michele, sono le due”. “Ma lascia perdere il mangiare, Gennaro, godiamoci il sole e la natura, che cazzo!”. E continuavano a gironzolare per le campagne. Data la sua reattività pari a quella di un gufo imbalsamato, non fu difficile sfilargli cento euro dal portafogli senza che se ne accorgesse. Nel frattempo, Fabiola e gli altri avevano comperato cinque chili di pecora imporchettata, ci avevano infilato dentro due pernici e l’avevamo messa a rosolare lentamente allo spiedo bagnandola in un soffritto di lardo di Colonnata. Poi avevano tritato due chili di interiora di agnello che avevano cotto nel burro e nella senape infilandoci croste di maiale arrosto come fossero cialde in una coppa gelato. Al calar del sole, Michele aveva dunque svoltato verso casa di Fabiola. “Passiamo a prendere Fabiola, aveva detto”. “Michele, sono le sette, io ho un po’ fame, non mi importa nulla di passare da Fabiola”. “Ma smettila!”.
Un odore penetrante di pecora arrosto invadeva l’intera scalinata del palazzo di Fabiola. Michele e Gennaro giunsero dunque al suo appartamento, e… sorpresa! Tutti gli amici erano lì, davanti ad un tavolo di pietanze fumanti. Fabiola si avvicinò sorridente a Gennaro che però non sembrava affatto colpito. “Sappiamo che hai una fame da lupi, non hai mangiato tutto il giorno! Abbiamo quindi pensato di preparare questo spuntino per te. Ma non credere che ti stiamo facendo un regalo, è a spese tue, sai? Controlla il portafogli, Michele ti ha fregato cento euro! Siamo proprio dei figli di puttana, eh?”.  Fabiola si aspettava che sul suo viso inespressivo si riaccendesse il sorriso di un tempo, che battesse poi il piede a terra e allargando le braccia a semicerchio urlasse a squarciagola: “M’hanno fregato cent’euro ‘sti figli di puttana!”. E invece Gennaro, impassibile, diede uno sguardo rapido a quella tavolata di carne arrosto immersa nel grasso sfrigolante. “Sono pescetariano”, disse. “Siete miei amici, dovreste saperlo”.  

La serata terminò lì, con l’imbarazzo dei vari amici che infagottavano le pietanze nella carta stagnola mentre Michele riaccompagnava Gennaro nel suo appartamento. Dopo quella serata, nessuno vide più Gennaro. Le serrande di casa sua erano sempre chiuse, i vicini non sapevano nulla, era anche sparito da facebook.
Spesso parlavano di lui, a cena insieme lo ricordavano quand’era felice e pieno di vita. Secondo alcuni era barricato in casa, secondo altri era fuggito all’estero. Ma pur nella sua apparente depressione, aveva trovato il modo di salutarli. La famosa sera della cena non riuscita, approfittando forse della distrazione mentre impacchettavano le cibaglie intonse, era riuscito ad infilare le dita nel portafoglio di ognuno di loro. “C’ha fregato cent’euro quel figlio di puttana!”.


domenica 19 gennaio 2014

La verità sul caso Harry Quebert



 

Un bel libro è un libro che dispiace aver finito, insegna l’anziano Harry Quebert, mostro sacro della letteratura americana, al giovane Marcus Goldberg, talentuoso scrittore travolto dallo strepitoso successo della sua opera prima e ora vittima del classico blocco da pagina bianca. Un’amicizia dal tono paterno coltivata per oltre un decennio, da quando Marcus era alunno del grande Harry Quebert all’Università di Burrows e il celebre scrittore ne aveva intuito lo straordinario talento. Ma un giorno viene rinvenuto uno scheletro sepolto nei pressi della villa di Harry Quebert, ad Aurora, nel New Hampshire; si tratta di Nola Kellergan, una ragazzina di quindici anni scomparsa oltre trent’anni prima e di cui non si era saputo più nulla. Harry viene accusato dell’omicidio della ragazzina, con cui rivela di aver vissuto all’epoca un’intensa e struggente storia d’amore che è anche stata ispirazione per la sua opera di maggior successo, Le origini del male. Marcus, convinto dell’innocenza del suo mentore, decide di indagare insieme alla polizia locale. E inizia finalmente a scrivere la sua opera seconda, incentrata sul caso Quebert, allo scopo di difendere il suo amico e riabilitarne la reputazione…
Molti dei best-seller di oggi sono carta straccia. Hanno un successo tanto clamoroso quanto effimero, pilotato da scientifiche tecniche di marketing, ma destinati però a finire nell’oblio più assoluto nel giro di pochi mesi. Altri, invece, hanno le carte in regola per sedimentare nella memoria e diventare i classici di domani.  Crediamo fermamente che La verità sul caso Harry Quebert appartenga alla seconda categoria. Il libro del giovane Joel Dicker è non solo un giallo appassionante e ricco di colpi di scena, concepito come un puzzle i cui elementi finiscono per combaciare alla perfezione solo nell’ultimo capitolo, ma anche feuilleton, romanzo di formazione e saggio di meta-scrittura. Uno stile di rara felicità aneddotica quello dello scrittore svizzero, ricco di ironia più o meno sotterranea, capace di disperdere una vicenda complessa in mille schegge narrative e di rifluirle poi in un solido corpus centrale senza mai allentare la presa sul lettore. Quasi ottocento pagine che inchiodano senza alcun cenno di stanchezza, per un romanzo che è anche e soprattutto un caloroso inno al potere della letteratura (e dell’immaginazione in senso lato) di plasmare e riscrivere le nostre vite.
Anche se crea dipendenza, leggetelo senza troppa fretta, quaranta/cinquanta pagine al giorno e non di più. O ne sentirete la mancanza troppo presto.