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domenica 20 marzo 2011

Riportando tutto a casa



Abbiamo letto Riportando tutto a casa di Nicola Lagioia, che ci è stato calorosamente consigliato da un’amica letterata. Il romanzo, assai acclamato dalla critica nonchè vincitore del premio Viareggio 2010, racconta le vicende di tre ragazzi baresi dagli anni ‘80 ad oggi, con l’ambizione di offrire uno spaccato dell’evoluzione del nostro paese partendo dal suo “decennio più stupido e inutile” (Goffredo Fofi).
Bè, raramente un simile entusiasmo ci è apparso come una clamorosa allucinazione collettiva. I tre personaggi principali sono fumosi (l’io narrante e Giuseppe) o tagliati con l’accetta (Vincenzo), con il risultato che come romanzo di formazione non coinvolge neanche un po’. Per non parlare poi delle vicende economico/sociali delle loro famiglie, di una pesantezza unica. L’autore sembra interessato prima di tutto al rigore filologico, per cui se il romanzo è ambientato negli anni ’80 allora deve riempire ogni pagina di riferimenti alle canzoni, pubblicità, show televisivi, film, marche di scarpe, notizie, videogiochi dell’epoca. Usa una sintassi complicata fino all’inverosimile per raccontare anche la più banale delle azioni dei suoi personaggi, e non si accorge che la sua prosa è farraginosa e piatta, mai energica, musicale, ruspante, caustica, sensuale, e le sue immagini e metafore mai suggestive o visionarie. 
Insomma, come fa a piacere un romanzo con frasi come (cito testualmente):


“Tracciai sulla fredda superficie del lunotto la figura di un omino in bilico che sembrò animarsi fino a quando rimase circondato dallo sfolgorio della concentrazione urbana”,


oppure


“Ma se gli occhi dello Sghigno fossero stati un cielo, il cielo di passaggio su Bari il 27 gennaio del 1986, tra le forze e le luci e le esplosioni di colore che avrebbero punteggiato i grigi quadrilateri degli edifici come un bombardamento visto da un aereo, se quel cielo fosse stato dotato di una lente in grado di stringere verso il secondo piano di una palazzina color ocra del quartiere San Pasquale, avrebbe intercettato una bolla completamente azzurra con un minuscolo puntino rosso al centro che si allargava e tornava a contrarsi come una medusa, e sprofondava infine tra le bianche creste di un lenzuolo disgregandosi in tante striature di un azzurro più profondo”,


oppure


“La luce sotto cui mi era apparso la prima volta tra i banchi di scuola adesso risplendeva in una gradazione ideale, convertendo le sue imprese precedenti in un lungo esercizio preparatorio rispetto a un’esperienza che consentiva di provare sollievo dall’intero processo vitale”.


L’autore spreca decine di pagine con digressioni di poco interesse (per cui se vediamo lo Sghigno che si reca nella villa di Giuseppe allora ci dobbiamo sorbire un intero capitolo sui segreti rapporti di reciproca estorsione tra le loro due famiglie, tant’è che alla fine ci è passata la curiosità di sapere il perché di quella visita...), e liquida invece in mezza paginetta episodi potenzialmente interessanti (i tossici che come gli zombie di Romero vanno a derubare casa di Giuseppe, guidati dallo stesso Giuseppe). 
E per giunta c’è anche un sottofondo di moralismo da talk show trito e ritrito, con i figli che scontano le malattie sociali e l’assenza della famiglia gettandosi a precipizio nel tunnel della droga. Trattasi dell’ennesimo giudizio sui terribili anni ’80? Insopportabile.
Un’allucinazione collettiva, non troviamo altra spiegazione.

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