Pagine

domenica 8 gennaio 2012

Piovono gabbiani sul fiordo



Il Danske Metereologiske Institut ha annunciato che la tempesta di gabbiani si abbatterà alle quattro pomeridiane su Aalborg Øst. DR2, il canale tv nazionale, ha già cordialmente invitato la popolazione a disertare lo shopping pomeridiano ad Algade, e sia Føtex che Salling sono rimasti chiusi. Ma quando qualcosa di ben più voluminoso di un chicco di grandine sprofonda con un sonoro plock nell’insenatura di Strandpark sono solo le tre e un quarto.  E c’è ancora gente in giro. 
Due plock. Tre plock. Il primo grido di panico. Un anziano signore che passeggia su Ved Stranden prova ad aprire un ombrello. Fatica inutile, uno anzi due becchi di gabbiano lo forano di netto, il vecchio perde l’equilibrio e si getta a terra cercando di farsi scudo con il cappotto.

Piovono gabbiani sul fiordo. Piovono su Strandvejen e su Jomfru Ane Gade. Vengono giù pesanti come birilli, a testa in giù e le ali incollate al corpo. Molti esplodono al contatto con il suolo in una fantasmagoria di piume grigiastre come in una guerra di cuscini. Altri rimangono inermi, becco sigillato, palpebre abbassate e zampe attaccate al petto. Alcuni si infilano nelle ciminiere della Dig e vengono inceneriti.  Sparisce l’azzurro rancido del fiordo. C’è ora una superficie mobile di corpi piumati e grigiastri che prosegue il suo placido movimento verso il Kattegat, dove sfocerà in mare.

Continua a piovere. In preda al panico un omino calvo si getta prono a terra ma i becchi affilati dei gabbiani gli trafiggono la schiena come mille coltellini svizzeri. C’è chi tenta una rovinosa fuga sul ponte di Norresundby ma due pennuti incastrati nell’ingranaggio del sistema di controllo creano cortocircuito e il ponte si solleva bruscamente, alcune persone rotolano giù. Altri finiscono lì dov’era il mare, bucano il tappeto di gabbiani e sprofondano nell’acqua salata, poi tornano in superficie e gridano aiuto, istintivamente si afferrano ai corpi galleggianti dei pennuti come fossero salvagenti e vanno giù di nuovo.  

Tutti fuggono tranne uno. 
Palle Ondtihalsen, noto buzzurro da bar cresciuto a cicchetti e fadøl. Eterno spiluccatore di lattine usate tra i rifiuti di Jomfru Ane Gade. Croce delle delicate donnine impiegate nei centri di recupero alcolisti.  Quello è il suo giorno.  Aziona la sua motosega Black&Decker rubata ai cantieri della Eternit e con un urlo da battaglia si getta verso l’Havnepromenade. Agita la motosega verso l’alto con un movimento circolare, e viso e collo e vestiti si riempiono di frammenti di ali, zampe e piume intrise di rosso. Salta su una barca a motore e con un colpo a frusta dell’avambraccio recide la catena che la tiene ancorata. Aziona l’elica e la barca parte triturando centinaia di pennuti e lasciandosi dietro un minestrone rossastro di teste e piume. Mentre continua ad agitare sopra di sè la motosega facendo strage di gabbiani, emette un lungo grido gutturale a molteplice cambio di tonalità, che in danese vuol dire :”Le sofferenze della mia vita passata sono destinate ad estinguersi come oggi faranno questi fottuti gabbiani... da domani sarò l’uomo più celebre di Danimarca e tu, mia adorata Ruud, tornerai da me e non ci lasceremo più”. 

Ruud. Sta facendo tutto questo per lei. Mai avrebbe dimenticato la sera in cui aveva sbattuto violentemente il mento sul bancone del bar Mallorca dopo che il proprietario aveva scalciato via lo sgabello su cui era seduto intimandogli di abbandonare immediatamente il locale. Si era alzato a fatica raccattando la sua sudicia giacca di pelle, e sedute al tavolo avanti a sè aveva visto due piccole donne identiche, no, era una sola, rotondetta e sorridente, con gli occhi a mandorla. Gli aveva fatto cenno di sedersi accanto a lei ma il proprietario del locale continuava a sbraitare, sicchè lui l’aveva presa per un braccio ed erano usciti. La donnina gli aveva passato una bottiglia di Glenn Grant che lui si era scolato all’istante, poi aveva provato a fare due passi ed era caduto quasi sbattendo contro un lampione. La donnina era scoppiata a ridere. Si era avvicinata e gli aveva rifilato un calcio nel sedere, e giù a ridere di nuovo. Poi aveva ruttato, ma Palle Ondtihalsen aveva pensato che la donnina si stesse presentando.  Ambedue senza una moneta in tasca, avevano trascorso la serata di locale in locale scolandosi ciò che restava nelle bottiglie che i clienti abbandonavano sui tavoli. Poi, alle prime luci dell’alba, si erano trovati soli nei Boulevarden deserti. Lei gli aveva sorriso di nuovo senza timore di mostrare i suoi incisivi spaccati, dopodichè si erano messi a correre a perdifiato, mano nella mano come due adolescenti innamorati, fino a ritrovarsi a terra sfiancati e felici.
Ma prima o poi le sbronze passano, e Palle Ondtihalsen ricordava solo di essersi svegliato a mattino inoltrato raggomitolato a terra davanti alla fontana con le ranocchie di Bispensgade e con una morsa dentata alla testa. La sua Ruud non c’era più. L'aveva cercata, allo Smed Kroen e al Fedtebrød. Era tornato anche al bar Mallorca, e rimediandosi uno sgabello in fronte era stato informato che nessuno sapeva nulla di quella donna eschimese.

Ma adesso poco importa. Domani sarà famoso, la sua Ruud lo vedrà in televisione e correrà da lui. Preso dall’euforia abbassa per un istante la motosega e scuotendo la zazzera biondastra alza gli occhi al cielo urlando: “JEG ELSKER DAA...”. Gli piove in bocca un pennuto che con il becco gli trafigge la gola. Palle Ondtihalsen perde l’equilibrio e cade, con la cinghia della motosega ancora addosso che lo fa  sprofondare giù, giù, e sempre più giù, dove le buste della monnezza impigliate alle lamiere arruginite si trasformano in violacee meduse assassine, e i cocci di bottiglia corrosi dai liquami delle navi sono affilati come i denti di uno squalo tigre.

Termina la tempesta di gabbiani ed è silenzio. I pennuti restano incollati al suolo come per una forza mille volte maggiore della gravità, inermi. La corrente del fiordo finisce di smaltire il manto di gabbiani e l’azzurro rancido torna a riempire quella lingua di mare. Nessuno osa ancora uscire dalle pareti domestiche.

Improvvisamente un garrito stridulo fende il silenzio. Come resuscitato da una torpore ipnotico, un gabbiano solleva le palpebre, scuote la livrea e si libra in volo. Mentre sorvola Ved Stranden continua a garrire imperterrito. Vola alto fino alla cima della torre della fabbrica di Akvavit, poi scende giù in picchiata. Presto i gabbiani in volo sono due. Poi tre, quattro, cinque. Lentamente il suolo piumato prima immobile si trasforma in un tappeto brulicante. A poco a poco interi stormi si librano in volo, uno stridulo concerto polifonico a milioni di voci invade l’aria silente della città danese.  

Ora i gabbiani sono tutti in volo. Si muovono ad enormi stormi che si fondono e si compenetrano con una coordinazione perfetta.  Il sole filtra tra le infinite piume bianco-grigiastre pennellando inenarrabili effetti di luce. La gente osserva sbalordita dalla finestra, le nonne chiamano i nipotini perché quello è un giorno speciale, un giorno che non dimenticheranno mai e che dovranno raccontare ai loro figli. Perché quel giorno il cielo è fatto di gabbiani e i frammenti del vecchio cielo sono chiazze luminose come una volta lo erano le stelle.

(Atelier-gli artigiani della parola, trimestrale di poesia critica letteratura -  Settembre 2011)

Nessun commento:

Posta un commento