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domenica 21 aprile 2013

Le feste danesi



I danesi amano le feste, che non sono un semplice svago ma una componente fondamentale dell’idillio sociale del loro Paese, un autentico sigillo di benessere. Le adorano al punto che le organizzano con mesi di anticipo, pianificandole nei minimi dettagli con la stessa serietà con cui affronterebbero l’incontro con un Capo di Stato o con il CTO dell’azienda di cui sono dipendenti.  Non ci riferiamo a festicciole del sabato sera, ma ad eventi di scala più grande che coinvolgono decine di persone, ad esempio Sommer fest o Julefrokost.
Tali eventi non si esauriscono in una cena o in un buffet di poche ore, ma hanno un programma molto elaborato. Di solito si comincia con un’attività pomeridiana, il bowling o il tiro con l’arco o l’arrampicata sportiva o la gita in canoa o la corsa sui go-kart o il tiro alla fune o lo sci nautico nel fiordo o chi più ne ha più ne metta. I vari centri sportivi disseminati ad ogni angolo delle varie città sono ben organizzati per accogliere gruppi di dimensione eterogenea e garantire loro un’offerta con assicurato livello di divertimento e soddisfazione. Si privilegiano gare in cui i visitatori vengono divisi in diverse squadre che si scontrano le une con le altre. Di solito, a metà dell’evento c’è una pausa di mezz’ora in cui ci riunisce davanti ad un tavolo pieno di patatine e snack al formaggio, si beve una o due Carslberg e si parla e si ride tutti insieme prima di tornare a gareggiare.  Il tempo dedicato all’attività pomeridiana ad un certo punto scade, e ci si sposta in autobus o con la macchina in un ristorante o in un parco (se siamo in primavera o estate), dove avrà luogo la seconda parte della festa, una cena o un barbecue.  Ad esempio lo Julefrokost –il pranzo/cena di Natale- è tipicamente un buffet con  frikadeller, flæskesteg,  fiskefilet con remoulade, pane nero con aringhe, calamaretti surgelati e uova sode, pølser con ketchup maionese o senape, risalamand (un dolce a base di riso e amarene), e il gløgg (una specie di variante locale del vin brulé). Di solito non si ha la possibilità di scegliere autonomamente il posto a sedere, ma questo viene assegnato con criterio casuale (pescando un numero a cui è associato un posto a tavola) o pseudo-casuale (cioè deciso in anticipo dagli organizzatori in modo da far sedere vicini individui che hanno scarsa possibilità di interagire nella loro quotidianità e dar loro modo di conoscersi meglio). In alcuni modelli particolarmente avanzati di organizzazione, il posto a sedere viene cambiato durante il corso della serata in modo da stabilire un nuovo grafo di connessioni tra persone. Ma la cena/buffet/barbecue non si esaurisce nel mangiare e nel chiacchierare con i propri vicini di posto. Gli organizzatori  preparano anche una serie di giochi di gruppo per riempire i tempi vuoti di una serata che altrimenti potrebbe addirittura risultare noiosa. Ad esempio il gioco dei mimi, in cui i gruppi ai diversi tavoli si sfidano nell’indovinare un personaggio o il titolo di un film, o quiz musicali in cui riconoscere il titolo di una canzone, o giochi di abilità (ad esempio, costruire un castello di carte o di stecchini). Alla fine la squadra migliore (e a volte anche la peggiore) viene premiata,  l’intrattenimento termina con studiato tempismo e la festa prosegue secondo i dettami di un programmatico volemose bene.
L’obiettivo degli organizzatori  è naturamente rinforzare lo spirito di gruppo e allo stesso tempo garantire all’invitato un’esperienza totalitaria e piacevole che mantenga alto il suo livello di benessere. Un’organizzazione molto pignola è assolutamente necessaria a garantire la positività dell’evento. Senza calcolare al minuto il tempismo delle varie attività c’è il rischio infatti che l’invitato si trovi a subire tempi morti o si senta addirittura smarrito.  Il divertimento servito su un piatto d’argento, insomma, da un gruppo di organizzatori che hanno sudato per garantire tutto ciò con tale efficacia.
Ma la socialità studiata a tavolino si basa in realtà su due assunti impliciti sottilmente inquietanti.
Il primo è la concezione che la socialità non sia la naturale conseguenza del vivere comune, ma deve essere in un certo senso stimolata dal sistema per poter esistere. Il sistema ti dice come fare a diventare un uomo sociale,  con una certa invadenza ti prende per mano come farebbe una maestra d’asilo per accompagnare un bambino timido dagli amichetti da cui tende ad isolarsi. Non basta creare le condizioni affinché un gruppo di individui possa incontrarsi, ma bisogna intervenire esplicitamente affinché tale incontro avvenga nella maniera più efficiente e corretta. Ciò suggerisce una sottile sfiducia nei confronti delle capacità autonome dell’individuo, quasi ad indicarne la dipendenza dalla società come un bebè dal seno della mamma.
Il secondo è che tale sistema deve offrire un modello standard di convivialità a cui ogni individuo non può che conformarsi.  E si tratta di un modello tarato su un livello medio-basso per andare incontro ad una cerchia assai vasta. Un divertimento di pancia basato su blandi vezzi competitivi, rigurgiti goliardici e programmatica scompostezza. Divertiti come gli organizzatori dicono di farlo, accetta fino in fondo le loro regole, non c’è via d’uscita, le squadre e i gruppi sono formati a priori, il tuo posto a sedere è già assegnato e quindi stai al gioco, non puoi fare altro.
Una festa danese avrebbe dunque la stessa spontaneità di un rito liturgico millenario, se non fosse per la presenza di un potente denotatore, un magnifico deus-ex-machina che nelle feste danesi è importante quanto l’ossigeno e in parte riscrive quanto detto finora: l’alcol.
Ci vuole l’alcol, tanto tanto alcol per far funzionare la festa. Litri di acquavite ed ettolitri di fadøl. L’alcol scardina le griglie, scontorna i contorni,  strappa via le maschere, smuove i tavoli come un ciclone, ritaglia origami con le regole, getta secchiate di colore sul cielo plumbeo del Nord Europa.
L’alcol è l’unica valvola di sfogo da un sistema che con l’invadenza di un genitore troppo apprensivo ti dice persino in che modo devi festeggiare.
Ma soprattutto, l’alcol rende l’uomo danese un uomo sociale. Spontaneamente sociale. Persone che prima neanche ti salutavano diventano improvvisamente amici affezionati, pronti a schierarsi al vostro fianco e combattere per le vostre idee fino alla morte. Musoni dal tono di voce funereo si trasformano in irresistibili buffoni che si lanciano in brindisi megalomani e sulfurei,  bionde rigide e silenti sono ora estroverse e logorroiche come tante Littizzetto maggiorate.
Ogni senso della misura e del decoro sparisce, si lanciano noccioline sul professore che adesso balla la macarena sul tavolo, ci si lascia cadere a terra come colpiti da infarto, tranquillamente si sputa o si vomita nei bicchieri, qualsiasi cespuglio o muro esterno può diventare un orinatorio pubblico.
Ma inevitabilmente l’effetto di questo magnifico elisir svanisce.  L’euforia  e l’illusione di libertà lasciano il posto ad un mal di testa che rimbomba nelle tempie. Silenziosamente si striscia al proprio posto come scolaretti rimproverati, con indolenza si reindossano le maschere. La festa è finita, la Babele di frizzi e lazzi è spazzata via e ciò che rimane è la sterile impalcatura delle convenzioni. Sorridi, in poche ore i postumi della sbronza si dilegueranno e tornerai ad essere una pedina del perfetto meccanismo della società danese, passivo ed efficiente. Fino alla prossima sbronza.
Ci dispiace, ma noi non siamo così.
Noi siamo di quelli che del mondo cogliamo le sfumature e non solo i colori netti. Noi siamo di quelli che non si divertono a comando, che non ridono alle risate pre-registrate delle sitcom americane. Noi siamo di quelli che non hanno paura di stare in disparte per cogliere squarci di bellezza trascurati dai più, siamo di quelli che provano a soffiar via la polvere del banale dalle cose intorno. Noi siamo di quelli che si innamorano di un errore o di un dettaglio, dello scampolo di sorriso impacciato, di uno sguardo inumidito di passione e rabbia.
Ci spiace dirlo, ma siamo di quelli che non si accontentano, di quelli che non sanno stare al posto assegnato. Ahimè, neanche da sobri.


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