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domenica 20 ottobre 2013

Dignità e boccoli d'oro a Jomfru Ane Gade


Kai Fiskebjerg, quarantotto anni, due divorzi alle spalle, tre anni di carcere per tentato stupro alla figlia adottiva sedicenne, nullafacente, parassita sociale, ladro di automobili, truffatore di mezza tacca, spacciatore di fumo, indomito alcolista in grado di bersi in una serata l’intero assegno mensile di disoccupazione, ritrovò la dignità nel cesso di un noto locale fighetto di Jomfru Ane Gade in cui era capitato per sbaglio. La vide luccicare sul fondo concavo del pisciatoio metallico, tra il riverbero di liquami schiumosi  dall’olezzo penetrante, mentre svuotava di gusto la vescica al fianco di un panzone in camicia celeste che continuava a ruttare al ritmo dell’inno dell’Aalborg Fodbold. Non poteva lasciarsela scappare, la dignità. Immerse senza alcun indugio le falangi in quel rigagnolo brodoso di piscio e catarro, la arpionò facendo uncino con l’indice e il medio  e la sistemò al sicuro nel taschino ad altezza del petto della sua lercia giacca di pelle. 
Battè più volte la mano sul taschino e sorrise. Gli era andata bene. Con tutta la gente che entrava lì a pisciare, qualcun altro avrebbe potuto trovarla, ma invece quel colpo di fortuna era toccato a lui. 
Uscì dal cesso trionfante facendo sbattere la porta a due ante  e fu subito accolto dalla musica assordante e dal profluvio di gambe, scollature e chiome dorate che si affastellava tra il bar e la zona ballo. Fino a qualche minuto fa non avrebbe resistito all’andirivieni di quei corpi sinuosi e sodi e si sarebbe lanciato in pista molleggiando sui suoi jeans strappati davanti alla prima biondona maggiorata. Ma adesso non c’era tempo per queste stronzate. Fiero del tesoro che custodiva nel suo taschino, non degnò le bionde di uno sguardo e si diresse a passo sicuro verso il bar. Adesso mi siederò e ordinerò una birra, pensò, o forse due, ma non di più. Poi inizierò a conversare con una donna seduta al mio fianco, chiedendole di lei, cosa fa nella vita, se viene spesso in questo locale. Niente occhiolini, niente palpatine, solo conversazione.  Dopodichè ci saluteremo e tornerò a casa a dormire. Un’autodisciplina da damerino inglese, insomma. 
Seduto su uno sgabello al bancone del bar c’era un donnone inzaccherato in un vestito stretto di un azzurro smunto. Aveva una vistosa capigliatura a boccoli a metà tra Shirley Temple e una donna da bordello ottocentesco,  due occhiolini azzurri infossati in un faccione da triplo mento, una bocca minuta e senza labbra che continuava ad elargire generosi sorrisi con dentini aguzzi come quelli di uno yorkshire agli avventori del locale. La sua postura curva sullo sgabello metteva in evidenza i rotoli di ciccia che le ricadevano sui fianchi come tanti salvagenti concentrici e la facevano  sembrare una specie di Jabba the Hutt.  
Kay Fiskebjerg si sedette al suo fianco e fu subito accolto da un sorriso entusiasta. La donna allungò la mano presentandosi come Pernille, mentre Kay ordinava una birra. Pernille estrasse un iPhone da una borsetta fucsia , mosse le dita tozze sul piccolo schermo e mostrò a Kai una sua foto, dove aveva i capelli lunghi e lisci e sorrideva nello stesso modo. 
Guarda, disse, fino a ieri ero così. La mia amica Christina mi ha consigliato di cambiare pettinatura, ha detto che i boccoli mi donano. 
E con le mani si sistemò la chioma con aria compiaciuta.
La tua amica ha ragione, stai benissimo con i boccoli, disse Kai, anche se non lo pensava affatto. La donna allargò il sorriso al massimo consentito dalla sua bocca minuscola e diede un buffetto al ginocchio di Kai.
Tusind tak!
Kay aveva un promemoria da conversazione sana e matura, una serie di discorsi  mutuati da alcuni film visti di recente al centro di recupero alcolisti. Doveva parlare di se stesso senza dare troppe informazioni, presentandosi come una persona affidabile, che ha affrontato di recente alcune difficoltà familiari dovute ad incomprensioni con l’amata consorte, e al momento disoccupato e alla ricerca di un impiego.  
Ma quella non era una delle solite serate in cui tentare pateticamente di mostrarsi serio e responsabile. Quella era la serata in cui finalmente aveva ritrovato la dignità. 
Sono un alcolizzato, le disse quindi, spaccio fumo e rubo auto, ho palpeggiato mia figlia adottiva dopo aver notato che l’età dello sviluppo era stata piuttosto generosa con le sue ghiandole mammarie. Ma tutto ciò fino a mezz’ora fa. Poco fa, in bagno, ho ritrovato la mia dignità. Adesso sono un uomo diverso. Bevo una birra, sì, e forse ne berrò anche un’altra, ma poi smetterò. Sono qui per parlare e conoscere gente, per pura curiosità e piacere di farlo, senza secondi fini.  Tornerò a casa e da domani inizierò davvero a cercare un lavoro. Il mio tesoro è qui, aggiunse indicando il taschino sul petto, e io non posso tradirlo. 
Eccitata dal fatto che un uomo si fosse seduto lì a parlarle, Pernille non pensava ad altro che a sistemarsi i boccoli, e non lo ascoltava neanche. La sua amica Christina aveva avuto una grande idea. Con quei boccoli era un'altra persona, e gli uomini le si sedevano affianco e le parlavano interessati. Non era male, quel Kai Fiskebjerg. Spalle un po’ strette, un po’ stempiato e dai denti lerci, ma non era male. Ed era interessato a lei! Avrebbero preso un altro drink, poi sarebbero andate a casa sua...  Persa nei suoi accomodanti pensieri, di tutto il discorso dell’uomo capì soltanto che aveva qualcosa di molto prezioso nel taschino della sua giacca.  Posò una mano sul suo ginocchio e sorrise. Kai ricambiò il sorriso.
Vado un attimo in bagno, disse Pernille aggrappandosi al bancone per trascinare la sua mole imponente al di là dello sgabello. Kai la seguì con lo sguardo mentre si faceva largo tra le decine di ragazze in minigonna che si dimenavano sulla pista da ballo.
Poi non seppe dire quale fosse la causa dominante. Forse i buffetti di Pernille sul ginocchio avevano silenziosamente risvegliato qualcosa nella sua prostata indolenzita dall’età e dall’overdose di Cialis che anticipava ogni sua visita al centro massaggi thailandese di Søndergade. O forse quella ragazza di neanche diciott'anni che si scansava per lasciar passare Pernille, infilata in un vestitino aderente con tessuto di satin dal motivo ad onde, era formosa come lo era la figlia adottiva a cui era condannato a restare ad almeno un chilometro di distanza per il resto della vita. Fatto sta che, quando vide che la ragazza con l'abito di satin si dirigeva anch’essa in bagno, con rapidità felina sgusciò districandosi tra le centinaia di persone e si infilò nel bagno delle donne come uno scolaretto birbante.
Dopodichè tutto durò pochi secondi, tanto da rendere difficile persino ricostruire la causalità degli eventi. Ricordava solo il viso terrorizzato da Cappuccetto Rosso davanti al lupo cattivo che aveva la ragazza quando le sue braccia le scivolarono addosso come i tentacoli di un polipo mentre lei si sistemava il lucidalabbra alla fragola davanti allo specchio.  Ricordava il suo urlo talmente acuto da far vibrare le finestre, la sua gomitata sul mento che lo fece cadere a terra, mentre la dignità, sì, la dignità, gli scivolava via dal taschino e rotolava sulle mattonelle del bagno. Ricordava il viso a metà tra il disgusto e la delusione di Pernille che si era appena sistemata la gonna dopo aver fatto pipì, ricordava Pernille inchinarsi a terra con fatica, raccogliere la sua dignità e uscire a passo rapido dal bagno delle donne.
No, Kai non poteva lasciarsi sfuggire la dignità così facilmente. Seguì Pernille al di fuori del locale, dove il freddo della notte gli invase i polmoni al punto da fargli girare la testa. Pernille avanzava per Jomfru Ane Gade con una rapidità inattesa, prendendo a spallate come un quaterback chiunque affollasse la via quella sera, dai bellimbusti in canotta con mandibola squadrata alle biondone statuarie o avvizzite, dagli studentelli stranieri arrapati agli omini eschimesi con cappello a visiera. 
La seguì attraverso Strandvejen fino ad arrivare al lungofiordo, dove Pernille, urlando un gigantesco Din svin!!, lanciò la dignità di Kai nelle acque rancide e oscure mosse dal vento onnipresente. Senza pensarci un istante, Kai si tolse la giacca e le scarpe e si tuffò nel fiordo. Il peso dei vestiti che aveva indosso sembrava trascinarlo nel fondo di quella melma gelida e bluastra. Ingoiò boccate di un liquido denso al sapore di sale e catrame, e per un istante pensò di morire incastrato sul fondo tra i relitti arruginiti delle biciclette come pasto per platesse e aringhe carnivore geneticamente modificate dagli scarichi industriali.  Ma finalmente la vide, la dignità, posata sulla superficie concava di quella che qualche decennio prima era stata l’elica di un motoscafo. La afferrò per la seconda volta in quella serata, e con rapidi movimenti degli avambracci emerse dall’acqua aspirando aria con violenza. Con bracciate dimesse e rilassate nuotò verso terra. Uscito dall’acqua, riprese la giacca di pelle e si lasciò cadere esausto. Tremando per il freddo e stringendosi nella giacca asciutta, cadde in un sonno oscuro e denso come le acque da cui si era appena tirato fuori.

Si svegliò alle prime luci dell’alba. Controllò il taschino della giacca. La dignità era ancora lì, nessuno aveva pensato di rubargliela mentre dormiva. Quanto gli era costata quella sera, la dignità! Aveva rischiato di perderla di nuovo a causa di una diciottenne formosa, ma alla fine era riuscita a recuperarla. Stirandosi le membra intorpidite si rimise in piedi, infilò le scarpe e si mosse verso Strandvejen. A quell’ora la città era immersa nell’atmosfera post-atomica della domenica mattina, con i pochi sopravvissuti della notte iperalcolica che camminavano barcollando come zombie. 
Vide Pernille seduta da sola a gambe larghe su una panchina all’incrocio tra Bispensgade e Jomfru Ane Gade. Aveva in mano una bottiglia di vodka da cui tirava giù sorsate improvvise e nervose. Kai le si avvicinò e si sedette al suo fianco,  lei provò a voltarsi di tre quarti per dargli le spalle. 
Perché lo hai fatto, le chiese Kai.
Pernille tirò giù l’ennesimo sorso di vodka. Pensavo che tu fossi attratto da me, lo pensavo e ci credevo, rispose. Perché avevo la mia pettinatura a boccoli e mi sentivo bella. E invece ci hai provato senza ritegno con la prima diciottenne che hai adocchiato. Allora ho capito che la mia pettinatura a boccoli non serve a nulla, non è vero che mi rende più bella, io sono come sono e nessuno cambierà idea su di me con qualsiasi capigliatura io abbia. Sai, penso che a volte abbiamo bisogno di credere di esser migliori di come siamo, e allora usiamo dei pretesti, crediamo che in fondo basti poco per essere diversi. Ma è solo un'illusione, in realtà non è facile cambiare, e alla fine siamo sempre gli stessi qualsiasi sforzo facciamo. Ma abbiamo bisogno di crederci, abbiamo bisogno di pretesti.
Kai infilò la mano nel taschino della giacca e tirò fuori quello che c’era dentro. Un misero anello di ferro, in parte placato d’oro in parte arruginito, un oggetto di bassa bigiotteria dal valore di cinque corone. Eccola lì, la sua agognata dignità... Una lacrima gli scivolò sul viso e se la asciugò con la manica della giacca.
Alcuni timidi raggi di sole filtrarono tra le nuvole plumbee della grigia giornata danese. L’anello semiarruginito che Kai continuava a rigirarsi tra le mani riflettè timido la luce del sole. Gli ricordò l'anello nuziale del suo primo matrimonio. Pensò alla sua prima moglie, al suo viso pulito e ai suoi occhi profondi come l'oceano, e fu colto per un istante da una nostalgia accecante. Si voltò poi verso Pernille che aveva appena posato la bottiglia a terra, si accorse dei riflessi biondi dei suoi boccoli e pensò che forse era vero quello che le aveva detto la sera prima, era più carina con quei boccoli che nella foto che lei le aveva mostrato. Allungò il braccio sulle sue spalle, lei si voltò sorpresa e sorrise.
Un attimo dopo le mise le mani sulle tette. 

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